Tac
L’ascensore impiegò un’altra eternità per raggiungere il piano della suite. Nella sua testa, in un angolino, c’era una voce che piagnucolava: «Vattene, va’ subito via, Azza...» Ma tutto il suo essere la trascinava indietro, la spingeva a tornare a quell’unica orchidea viola, che le ricordava un vestito di sua madre e le sbarre di quella finestra lontana, inchiodata. In testa le ronzavano le parole di Aisha.
La prima volta che restammo sole, tu mi chiedesti: «Chi è l’uomo che ti sta accarezzando adesso? Cosa ti fa provare? Con lui ti senti come rinata?»
Sono nera.
I miei occhi sono neri. I miei capelli sono neri. Il mio cuore è nero. Il mio sangue è nero.
Il nero scaturisce forse dall’essere troppo accarezzati... o dal non esserlo mai?
Lentamente aprì la porta della suite ed entrò. E subito si ritrovò faccia a faccia con lui. Tra loro c’erano solo quell’orchidea viola solitaria, e quelle parole verdi di erba.
Azza non è nemmeno un albero, è piuttosto erba, un’erba leggera, incapace di morire. Viene annegata, bruciata, schiacciata, congelata, ma il giorno dopo torna di nuovo a crescere.
Quel tac lo sentì nella colonna vertebrale, doloroso come l’estrazione di un molare. Ma non capì se provenisse dalla porta che si chiudeva o dal suo collo che si spezzava.
Azza è erba.