Delizie
La notte era scesa su Madrid, il traffico frenetico intorno al Prado aveva rallentato. Nura tese l’orecchio per captare i rumori, come era abituata a fare nel suo vicolo lontano. Da un angolo della sua memoria spuntarono fuori i passi di Nàzik la turca, impegnata nella sua consueta passeggiata del venerdì mattina, quando percorreva il dedalo di povertà del Vicolo delle Teste scrutando le ragazze che crescevano ed esaminando attentamente le loro dita. Nonostante fosse obesa, sembrava che non toccasse il suolo, ma soltanto lo sfiorasse con le punte dei suoi enormi alluci, ondeggiando come una nave alla deriva.
Non portava l’abaya nera, come le altre donne, ma un cappotto blu, ricamato sulle maniche, e nemmeno si copriva il viso. In testa aveva un foulard bianco da cui uscivano ciocche di capelli rosso fuoco che attiravano gli sguardi. Camminava ancheggiando, conversando con l’eunuco che la seguiva a due passi di distanza, come un cane fedele. Di solito, quando Nàzik passava, il venerdì mattina, le piccole che giocavano nel vicolo correvano a nascondersi in casa, e le adolescenti nascondevano le mani dentro le loro abaya.
«Nàzik la turca intrappola le ragazze prendendole per le dita!»
Questo si diceva di lei. Infatti, puntava con occhi di falco la preda, ossia le ragazze, che osservava con cura, scegliendo quelle con le dita più lunghe e delicate, e poi avviava la trattativa con i genitori, per convincerli a mandare le figlie a lavorare nel suo laboratorio, dove lei avrebbe insegnato loro l’arte d’oro del cucito e del ricamo.
Quella mattina, Nura stava annaffiando il basilico nei vasi sul terrazzo, quando Nàzik era apparsa. Nura non corse a nascondersi, anzi, rimase a guardare quella strega in blu che si avvicinava, poi scese di corsa in strada, davanti alla porta di casa, per inebriarsi del suo mitico profumo, Notti di Parigi, che faceva sospirare tutto il vicolo. Era un dono che Nàzik aveva ricevuto da suo nonno, ogni venerdì ne metteva una sola goccia dietro le orecchie. Vedendo Nura, Nàzik non si lasciò sfuggire l’occasione. Le ghermì la mano e le esaminò le dita.
«Questa ragazza ha mani da fata, una meraviglia. Mandatela da me e io le insegnerò come si fa a disegnare e tagliare un modello, a puntare gli spilli, a vestire e rivestire anche i corpi dei re... Dita lunghe e sottili come le sue sono una vera fortuna... non dovrà mai temere la miseria... potrà darvi da mangiare miele e manna!»
Suo padre si sentì scorrere quel miele sulla lingua, e l’indomani mattina, all’alba, tolse l’assedio e la spedì al laboratorio di Nàzik.
Sulla porta, Nura fu investita da un miscuglio di odori pungenti: profumi femminili, sudore, e una fragranza che non riusciva a identificare, che le chiuse lo stomaco e le fece battere forte le tempie. Quell’odore, che non somigliava neanche lontanamente a Notti di Parigi, fece sì che Nura prendesse coscienza di essere una femmina, e anche adulta.
«Mia cara ragazza!» Nàzik la accolse come un naufrago afferra il salvagente, mostrandosi come veramente era, senza la parrucca rossa, con i suoi capelli bianchi e crespi che a Nura fecero venire in mente le spugne usate per il lavaggio rituale dei morti.
«Questo è il mio regno» disse Nàzik conducendola verso le macchine per cucire sistemate davanti alle finestre. Lì lavoravano le ragazze, simili a studentesse in punizione. Una, paffuta, era china a cucire: ogni suo braccio era grosso quanto un neonato. Faceva girare la ruota della macchina Singer con una rabbia tale che c’era il rischio che si staccasse. Nàzik le passò un pezzo di stoffa con disegnata una rosa. Poi disse a Nura: «Ti insegnerò i vari tipi di ricamo... punto a croce, punto a smerlo e punto a giorno. La tua rosa, quando fiorirà, infiammerà il mondo e ridarà la vita anche ai morti.»
Nura si sentiva a disagio per il linguaggio allusivo della turca. Nel frattempo, la ragazza dalla braccia enormi aveva iniziato a trafiggere con l’ago e il filo la rosa, mentre gocce di sudore le bagnavano le labbra. Quando tese il pezzo di stoffa a Nura perché provasse, la turca lo afferrò e lo gettò via.
«Lascia perdere! Questo lavoro non è per te. Il sudore è per gli schiavi... Vieni!» disse, trascinandola con sé fino a un enorme attaccapanni, da cui prese una kufiya che le avvolse intorno al viso, lasciando scoperti solo i grandi occhi a mandorla. Poi la spinse, così com’era, con la kufiya e l’abaya, dietro la tenda che divideva in due il laboratorio, e lì Nura si ritrovò davanti a uno spettacolo inatteso: persone che danzavano freneticamente al ritmo dei tamburi.
«Abbandonati anche tu alla musica.»
Accennando dei passi di danza, ma con la grazia di un orso, Nàzik la prese per mano; come acqua trascinata giù in una cascata, il corpo di Nura si abbandonò alla musica e, quando il sudore cominciò a bagnarle il collo e il petto, dalla kufiya si levò un odore acre che la prese alla gola, accendendole dentro un desiderio sconvolgente. Qualcosa in lei esplose, travolgendola.
Con un colpo deciso si liberò dalla mano della turca, che la lasciò andare, e scappò via.
Nura aveva scoperto così che quel laboratorio non era solo un luogo dove si cucivano dei vestiti, era qualcosa di più, lì si mettevano in mostra dei corpi, alcuni destinati a essere esibiti, altri a essere consumati, altri ancora a essere riciclati... dipendeva dall’audacia di ciascuna ragazza, che doveva decidere fino a dove voleva spingersi.
«Non rimetterò mai più piede lì» giurò Nura.
«Un mestiere in mano è una sicurezza. Significa non dover mai soffrire la fame...»
Nàzik mise in campo tutta la sua eloquenza per convincere suo padre, lo sheikh Muzàhim, il quale minacciò una punizione esemplare se lei non fosse tornata nel laboratorio della turca. Come ultimo tentativo, autorizzò la sarta a parlare con Nura a quattr’occhi, nella sua stanza, per cercare di farle cambiare idea.
«Stammi a sentire, ti rendi conto della fortuna che hai avuto? Qualunque ragazza, al tuo posto, avrebbe fatto salti di gioia! È bastata quella tua fugace apparizione sulla pista da ballo perché lui perdesse la testa per te, tu sei la prescelta... te ne rendi conto? Colei che riceverà la corona e lo scettro! Se non è fortuna questa! Ragazza mia, apri gli occhi!»
Stringendole forte il braccio con entrambe le mani, come per farle entrare nella pelle ciò che lei si ostinava a rifiutare, esclamò: «Non lasciarti sfuggire questa occasione! Pensaci bene!»
Per tutto il tempo, mentre Nàzik parlava, Nura aveva sentito l’odore di quella kufiya, che aveva destato in lei un desiderio sconvolgente.
«Lo stesso odore che hanno ora i miei capelli!»
Solo in quel momento, in quella elegante camera d’albergo a Madrid, Nura comprendeva pienamente quale uragano si fosse scatenato in seguito alla sua apparizione nel laboratorio di Nàzik. Ripeté a se stessa: «Lo scettro, mia cara, alla fine hai dovuto accettarlo... quello stesso scettro che rifiutasti quando te lo offrì Nàzik la turca.»
In una città dove non esisteva l’invito alla preghiera, ogni mattina Nura veniva svegliata dal fruscio delle ali dei colombi. Capiva che era il momento di pregare quando sentiva quel fremito che esplodeva all’improvviso dalle profondità del silenzio. Quei colombi, all’alba, la strappavano dai suoi sogni e le sussurravano che lui stava arrivando; sì, perché, ogni volta che il suo amore avviava la motocicletta in quel cortile lontano, i colombi del vicolo si spaventavano e volavano via, e un brivido di eccitazione le correva lungo la schiena. Nel lieve chiarore dell’alba, rimaneva distesa tremando, piena di aspettative.