C’è occhio e occhio

Muadh approfittava di ogni momento libero per andare da Yusuf. Si rendeva conto che era pericoloso perché poteva essere scoperto, ma non riusciva a resistere lontano da quel tesoro di cui, spontaneamente, aveva consegnato la chiave a Yusuf, avvertendone però subito dopo la mancanza e rammaricandosi che quel mondo gli fosse stato sottratto.

Nel mettere piede in casa del fotografo Lababidi, Muadh sentiva però che qualcosa nell’aria era cambiato, come se la casa stessa, cospirando con Yusuf, gli avesse concesso di vedere foto e luoghi che a lui aveva nascosto. La sua prima reazione era stata di rabbia: aveva pensato di cacciare fuori Yusuf a pedate. Poi aveva ragionato e si era detto che la cosa migliore da fare era confinarlo nella stanza in fondo al corridoio del pianterreno, riprendendosi le chiavi di tutti gli altri piani. Ma il benevolo recitatore del Corano che era dentro di lui era intervenuto, mediando e intercedendo in favore dell’amico.

Quel giorno, ripensando alla gelosia che aveva sempre provato nei confronti di Yusuf, Muadh si era chiesto: «Cos’ha lui che io non ho? Perfino questa casa sembra preferirlo a me!»

Yusuf finse di non accorgersi dello sguardo accusatore di Muadh, reprimendo il profondo senso di colpa che avvertiva. Rimasto solo per tutti quei giorni, aveva provato una solitudine mortale, per mitigare la quale si era introdotto, contravvenendo agli ordini, nel maglis, la grande sala un tempo usata per intrattenere gli ospiti. Sentiva il bisogno di essere attorniato da quei personaggi tipicamente meccani. Alcuni li conosceva, e contemplava i loro volti cercando di sentirsi ancora parte della Mecca, o di Aburrùs. L’istinto gli diceva che a Muadh tutto quel suo frugare non sarebbe piaciuto, ma lui era sedotto da quella casa, voleva conoscerne i segreti, scandagliarne la memoria e farla rivivere.

Muadh scrutò Yusuf: quello sguardo che evitava il suo lo impensieriva. Yusuf si serviva dell’occhio della storia per carpire i segreti della Mecca, nascosti in quelle foto, mentre lui, Muadh, si serviva dell’occhio dell’arte?

L’occhio dell’arte – quello del fotografo Lababidi! – era limpido e creativo, mentre l’occhio della storia scavava ferite. Non avrebbe dovuto permettere a uno sguardo così banale di posarsi sul suo tesoro!

Per sgombrare il terreno da ogni dubbio, Muadh disse: «È dal terrazzo di questa casa che ho gettato il mio libro dei peccati...» Fece una pausa per verificare l’effetto delle sue parole su Yusuf, ma Yusuf non era suo padre, l’imàm Daùd, ossessionato dai libri dei peccati, e quindi non disse niente.

Muadh riprese: «L’ho fatto perché mi sentivo inorgoglito dalla fiducia che Marie mi aveva dimostrato affidandomi le chiavi di questa casa, avvertendomi però di non entrare in nessuna stanza senza il suo permesso.»

Muadh pronunciò quelle parole calcando esageratamente ogni singola lettera, con gli occhi fissi sul piumino per la polvere che aveva in mano, mentre Yusuf rimaneva in silenzio, impassibile di fronte all’amico che lo rimproverava di essersi introdotto senza il suo permesso nel maglis.

«Con questo piumino toglievo la polvere del tempo dalla Mecca. Inoltre, sistemavo le foto, pulivo le bacinelle per lo sviluppo delle pellicole e cambiavo questa lampadina rossa...»

Andava avanti e indietro, cercando il modo giusto per spiegare a Yusuf cosa lui avesse trovato in quella casa: lì dentro aveva scoperto chi era veramente, aveva individuato il suo volto più autentico.

«Ricordi il versetto 260 della Sura della Vacca? Abramo chiede: “Signore! Mostrami come ridoni vita ai morti!” Allora Dio gli ordina di prendere quattro uccelli, di farli a pezzi e di metterne un pezzo su ogni montagna, e aggiunge: “Poi chiamali, ed essi verranno a te con una corsa veloce.” Ebbene, io ero come quegli uccelli, i miei pezzi erano sparsi sulle montagne della Mecca e su tutti voi, i ragazzi brillanti del Vicolo delle Teste, ma questa casa e la mia macchina fotografica hanno riunito i miei pezzi sparsi, per farmi volare tutto intero...»

Cercava di impressionare Yusuf.

«È una specie di caccia al tesoro... Il vero io di ciascuno è sparso tra grotte, monti e deserti, in tanti luoghi e persone della terra, e noi... e i più fortunati tra noi ritrovano, pezzo dopo pezzo, quel tesoro. Io ho ritrovato la parte più grande di me stesso in questa casa. È stata Marie, permettendomi di lavorare qui, a farmela scoprire attraverso l’obiettivo della macchina fotografica... Un altro pezzo l’ho ritrovato nel Corano, o meglio, il Corano è la forza o la fede con cui ho chiamato le mie parti sparse ed esse sono venute a me con una corsa veloce.»

Dopo una pausa, aggiunse: «Tu, Yusuf, non mi vedevi neanche, quando eravamo piccoli; per tutti voi, brillanti ragazzi del Vicolo delle Teste, io ero trasparente come un fantasma, ero il vostro negativo, una specie di pellicola su cui voi imprimevate i vostri atti eroici... mentre qui dentro ho scoperto di essere non soltanto il Muadh programmato per accogliere voi, la vostra immagine e le vostre imprese, ma anche uno che immortalava il mondo, lo fermava in una serie di immagini! Sì, io consento a questo mondo di continuare a vivere grazie al mio obiettivo e alla luce del mio flash. Grazie alla mia arte paziente! Marie, con il suo intuito, aveva visto tutto questo in me. Fu lei a darmi questa macchina fotografica professionale. Me la consegnò dicendomi due sole parole: “È tua!” Girando in questa casa, mi sembrava che il fotografo Lababidi si fosse reincarnato in me. Marie stessa mi insegnò a usarla.»

Lo scatto dell’obiettivo che si chiudeva lo fece rabbrividire.

«Lo sai? Man mano che crescevo, avvertivo la mancanza di questa macchina fotografica che ancora non conoscevo, come si avverte la mancanza di una gamba amputata: ma poi il vuoto è stato riempito. Marie mi ha insegnato come vedere e cosa vedere. Il Corano mi ha insegnato a vedere la luce nelle tenebre, ma Marie mi ha insegnato a catturare la luce e a fissarla. Quando feci le mie prime foto qui attorno, provai un’emozione fortissima; dissi a me stesso che stavo cominciando anch’io da dove aveva cominciato Lababidi, che avrei immortalato anch’io la bellezza, che le mie foto avrebbero fatto concorrenza a quelle di Lababidi e io avrei dimostrato di essere altrettanto bravo! Ma sin dal primo scatto mi resi conto che quel che vagheggiavo era impossibile! Tra noi due vi era una differenza sostanziale. Dovevo ammettere la verità, anche se amara: l’obiettivo di Lababidi era destinato a costruire, il mio a distruggere. La mia macchina fotografica scoprì, procedendo nella sua affannosa ricerca, quali e quanti radicali cambiamenti si fossero verificati, non soltanto nel corpo della città ma nella sua stessa anima. Questa città aveva smesso di attendere l’arrivo del Mahdi, del Salvatore che verrà sulla terra per salvare l’umanità, e si abbandonava ad azioni empie che avrebbero fatto spuntare dalle viscere della terra la bestia immonda, che fa parte dei segni che annunceranno la fine dei tempi e colpirà con la coda tutta la terra seppellendola viva. Io inseguivo il volto antico della Mecca nelle cantine e nei cortili abbandonati, dove le opere d’arte del passato che non erano state vendute a mercanti d’arte senza scrupoli erano state ammassate e lasciate marcire. Non era l’obiettivo, erano i miei stessi occhi che si chiudevano rapidamente immortalando gli abbaini pericolanti, gli specchi rotti portati via frettolosamente da sotto le macerie, gli architravi rimasti al loro posto nei saloni sventrati, i portoni con le impronte indelebili degli artigiani del passato, le colonne di alabastro e di legno con scolpiti i versi di antichi poemi e i versetti del Corano. Mi sembra ancora di vedere Marie che mi osserva in silenzio, addolorata. Voleva che fossi il testimone dell’avanzare inesorabile delle sabbie mobili dell’ignoranza e della paura che avrebbero distrutto e interrato tutto, minacciando infine il cuore stesso di lei, che non voleva avere niente a che fare con quel mondo in sfacelo. Di conseguenza, decise anche di insegnarmi a sviluppare le foto, volendo proclamare la sua assoluta innocenza ed estraneità ai cambiamenti in atto nella Città Santa. Così, accanto ai mondi ritratti da Lababidi, trovarono posto le mie creature disperate, dimenticate, caduche, e insieme a loro anch’io mi feci lentamente, inesorabilmente trascinare nell’abisso. Abbandonai la macchina fotografica per molti giorni, durante i quali Marie non fece alcun commento: si era votata al silenzio.»

Muadh spiegò poi a Yusuf come si fosse svegliato, una mattina, sentendo il bisogno urgente di fare qualcosa. Era steso sul pavimento del terrazzo di casa Lababidi, e a un tratto aveva avvertito un moto di ribellione: avrebbe portato quel volto della Mecca fuori di lì, oppure gli occhi della Mecca lì dentro. Aveva optato per la prima soluzione!

Quando si alzò per scegliere alcune foto in bianco e nero, tra le tante custodite in quella casa, gli mancò il coraggio, poi però ne prese alcune che ritraevano gruppi di pellegrini degli anni trenta, e con quelle in mano corse fino alla scuola nel Vicolo delle Teste.

Gli sembrava di venire trasportato da quelle figure antiche, arrivate da ogni parte della terra fino alla Mecca per il pellegrinaggio. Avvertì il bisogno di fare un gesto eroico, liberare quelle creature perché riprendessero la loro vita spirituale, ma non sapeva come compierlo! Quando fu davanti al maestro della scuola elementare, quello con il quale lui e tutti i suoi amici lì ad Aburrùs avevano studiato, gli disse: «Voglio che questi volti siano mostrati a tutti i bambini, perché siano ricordati anche da loro, non soltanto da me.»

Il maestro contemplò le foto, poi lo guardò dritto negli occhi e lo avvertì: «Tu sarai considerato responsabile per tutte queste creature, per gli animali, le pietre e le piante. Tu dovrai dare loro la vita nel giorno del giudizio. Sarai in grado di farlo, per tutti?»

Il maestro si riferiva al fatto che Muadh avrebbe dovuto testimoniare in loro favore nel giorno del giudizio. Quella responsabilità lo spaventò a morte; ma fu allora che capì che non avrebbe aspettato il giorno del giudizio per salvare loro la vita. Si riprese le foto e se ne tornò di corsa nella sua fortezza: la vita sarebbe continuata lì dentro. Per i volti ritratti nelle foto non poteva più esistere un mondo esterno!

Muadh tacque. Dopo quella lunga confessione, sentiva che non sarebbe più stato in grado di andarsene. Temeva infatti che, se lo avesse fatto, la casa si sarebbe definitivamente arresa a Yusuf.

Le frequenti visite di Muadh al monte Hindi non erano sfuggite all’ispettore Nasser. Anche quel giorno, durante la pausa per il pranzo, Muadh era corso a prendere l’autobus, senza accorgersi che Nasser lo stava seguendo in auto: lo vide scendere davanti all’edificio con gli annunci degli appartamenti da affittare e poi incontrarsi con quel giovanotto alto.

Quella figura allampanata fece venire in mente a Nasser la descrizione che Yusuf dava di sé nel suo diario. I battiti del suo cuore accelerarono, come prima di affrontare un rivale in amore. Chiuse con cautela la porta dell’auto e avanzò svelto verso quei due, che però si accorsero di lui. Mentre Yusuf scappava, Muadh andò incontro a Nasser tagliandogli la strada.

«Chi era quello?»

Muadh rispose con calma, senza scomporsi: «Quello, chi?»

«Quello con cui stavi parlando.»

Nasser si girò ma Yusuf non c’era più, come se la montagna lo avesse inghiottito.

«Ah, quello? Un tizio che mi ha chiesto informazioni su un albergo.»

«Che ci fai qui?»

Muadh indicò la borsa della spesa che aveva in mano.

«Ho comprato dei datteri zuccherini per mio padre.»

Lo sguardo ostinato di Muadh continuò a scavare nel cuore di Nasser a lungo. Il suo fiuto aveva colto l’odore della preda a lungo inseguita, e il pulsare delle tempie era una conferma dei suoi sospetti. Sotto il sole cocente di mezzogiorno, Nasser si mise a gironzolare nei paraggi, spiando i volti delle persone, entrando nelle case sventrate e aggirandosi tra le macerie, in cerca di quel fantasma allampanato. Sapeva che era nascosto da qualche parte in quel labirinto.

Muadh fece di tutto per ritornare da Yusuf già quella sera. Era vitale che Yusuf e la casa sapessero che non potevano sbarazzarsi facilmente di lui, nemmeno alleandosi con una forza nemica come Nasser! Né Nasser né nessun altro avrebbero potuto impedirgli di raggiungere il suo tesoro!

Muadh si sedette imbronciato sul terrazzo, guardando un po’ Yusuf e un po’ la casa; avrebbe tanto desiderato rivivere la sensazione di serenità interiore che provava, in passato, sedendosi lì al tramonto. In quel luogo si era sentito in pace con se stesso!

Dopo un lungo silenzio, Muadh si arrese al suo dolore antico. Improvvisamente non sentiva più né gelosia né desiderio di possesso, e neppure stanchezza. Raccontò a Yusuf i suoi più intimi segreti. Dopo la preghiera del tramonto, disse: «Il giorno in cui si scoprì quel cadavere di donna nel Vicolo delle Teste, venni a rifugiarmi qui. Trovai Marie seduta nel solito modo, con le gambe accavallate, appoggiata ai cuscini di damasco rosso, con la testa leggermente piegata verso la spilla di diamanti a forma di rosa appuntata sul petto: era come una luna caduta su quei diamanti, con il cappellino di stoffa sui capelli brizzolati raccolti in una treccia. Ero ancora scosso dalla vista del cadavere di Aburrùs, così mi accovacciai ai suoi piedi, tremando. Passò del tempo, non so se ore o giorni, senza che lei si muovesse. Quando alzai gli occhi, capii che stavo affrontando una nuova perdita. Con lei moriva un secolo di storia di questa terra. Non ebbi il coraggio di toccarla! Ancora adesso mi chiedo se non sia stato io a ucciderla. A contagiarla con il virus della morte che avevo introdotto in questo suo santuario, infettandolo. Recitai per lei la Sura del Regno, l’avrei sepolta vicino al suo amato marito, ma prima raccolsi tutte le mie foto... ormai erano delle intruse. Scesi le scale chiudendo tutte le porte alle mie spalle, occultando tutte quelle teste, che rischiavano di essere tagliate. E andai a nascondere le chiavi in cima al minareto della nostra moschea, ad Aburrùs, dove sono rimaste finché tu, Yusuf, non hai avuto bisogno di un posto in cui nasconderti! Dopo la morte di Marie, io mi sono rifugiato nello studio fotografico Hadàtha, in Harat al-Bab. La morte in contemporanea di quelle due donne, Marie e l’altra uccisa nel vicolo, è qualcosa di straordinario. Non lo pensi anche tu?»

Yusuf si sentì disorientato dal desiderio di Muadh di ottenere a tutti i costi la sua approvazione. «È possibile che abbia a che fare con...?» Respinse immediatamente quel sospetto ed esclamò: «Ora capisco quanto sia difficile venire qui per te!»

«Sempre meno che tornare laggiù.»

«Hanno ritrovato la chiave della Kaaba?»

Yusuf aveva fatto quella domanda con l’intento di distrarre Muadh, che rispose contro voglia: «No, ma ne stanno forgiando un’altra in Turchia. Dicono che sarà pronta per la stagione del pellegrinaggio, per il rituale del lavaggio della Kaaba.»

Il Collare Della Colomba
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