Il drappo

Perché dare a un vicolo questo nome, Aburrùs, Vicolo delle Teste, che sembra suggerire un’idea di scontro permanente?

In un lontano passato, molto prima che io vedessi la luce, accadde che nello stesso luogo dove poi sarei sorto fossero ritrovate quattro teste di uomo sepolte. Attenzione! Non sto parlando del cadavere di donna che ha spezzato il cerchio chiuso di questa storia, costringendomi a uscire dal silenzio. No, qui io sto rievocando la vicenda delle quattro teste che furono tagliate all’epoca della dominazione ottomana, durante il governo di un qualche sharìf, forse lo sharìf Awn, o forse, chissà, di un governatore ottomano!

Quegli uomini approfittarono dei festeggiamenti che si stavano svolgendo per l’arrivo in città della carovana del mahmal, che trasportava dall’Egitto la kiswa, il drappo destinato a ricoprire per quell’anno la Kaaba, il santuario che accoglie al suo interno la pietra nera e sorge al centro della Sacra Moschea della Mecca. Gli abitanti della città egiziana di Tanìs avevano intessuto la kiswa, il grande drappo di broccato nero sul quale erano ricamati in fili d’oro la professione di fede musulmana e altri versetti del Corano. Lo sharìf, con soldati e notabili al seguito, aveva lasciato incustodita la città per andare a ricevere la carovana del mahmal giunta nei pressi della Mecca. Quei quattro uomini ne approfittarono per rubare il drappo che aveva ornato la Kaaba l’anno precedente, e che gli eunuchi al servizio della moschea avevano deposto accanto alla porta di Fatah (una delle porte della Sacra Moschea), nei pressi della località chiamata Marwa, dove, secondo la tradizione, Agar, moglie del profeta Abramo, fu abbandonata con il figlioletto Ismaele.

Il drappo veniva lasciato lì ogni anno per la famiglia degli Shayba, i Banu Shayba: era il consueto dono che La Mecca elargiva a quella famiglia sin da quando il Profeta Muhammad le aveva concesso il privilegio eterno di essere la custode della casa di Dio, la Kaaba. I suoi membri ne ereditano ancor oggi la chiave e il drappo.

La tradizione voleva che, dopo avere ricevuto il drappo, gli Shayba andassero a venderlo al mercato dell’oro, dove il capo dei gioiellieri rimuoveva dal tessuto i sacri nomi di Dio ricamati in oro e argento, che poi sarebbero stati fusi. Per tutto l’anno seguente gli Shayba si sarebbero mantenuti grazie al ricavato di quella vendita.

Ma quei quattro ladri, con il vecchio drappo in groppa a un cammello, erano fuggiti lungo la strada del pellegrinaggio, dove però, poco tempo dopo, erano stati localizzati e catturati dalle guardie dello sharìf. In quel luogo, avevano piantato il vecchio drappo come una tenda, sotto la quale accoglievano i poveri, i matti, i deficienti e gli invalidi. Una notte trascorsa a dormire sotto quella tenda, e tutti ne uscivano come rinati, liberati da infermità, malattie e affanni, e talvolta anche dai loro corpi.

La notizia del furto e poi delle cure miracolose fu mantenuta segreta dalle autorità per evitare che quell’eresia si propagasse e i quattro trovassero degli imitatori. Fu invece fatta circolare la voce che quei quattro individui erano entrati alla Mecca travestiti da pellegrini, come spesso facevano i viaggiatori occidentali o coloro che avevano abiurato, e che in realtà erano un ebreo, un cristiano, uno che si spacciava per profeta e uno zoroastriano, adoratore del fuoco. Il qadi, il giudice della Mecca, era stato costretto a emanare in tutta fretta una sentenza in cui li riconosceva colpevoli di sacrilegio, sicché diventava lecito versarne il sangue.

Ai quattro uomini fu mozzato il capo nottetempo e i loro corpi furono gettati nella fonte di Yakhùr, dove venivano convogliati tutti gli scarichi della Mecca; le loro teste furono issate su delle lance, come monito, nel luogo stesso dove erano stati catturati.

A questo punto, la storia esige che io, Aburrùs, il Vicolo delle Teste, menzioni la donna che fu vista arrivare scalza, dopo aver percorso tutta la strada dalla Mecca fin lì, a piedi. Si sedeva sotto quelle teste mozzate dolendosi per quei quattro, cantando e recitando poesie e talvolta anche i versetti della Sura del Regno. Si raccontava in giro che fosse stata l’amante di tutti e quattro. Finché erano in vita, lei si presentava ogni mattina alla tenda con i piedi ustionati dalla sabbia rovente della Mecca, si sedeva e li sollecitava a contendersi i suoi favori, ma al calar della sera se ne tornava sempre in città, per evitare di finire in pasto alle malelingue. Dai lamenti di quella donna senza velo è nato il vicolo. Quindi, senza timore di smentite, posso dire di essere un vicolo plasmato dal desiderio di una donna, cresciuto nel suo grembo, alimentato dalle vesciche dei suoi piedi e dalle ferite del suo cuore. Anche se quella donna non versò mai una lacrima per quegli uomini, limitandosi a trascorrere tutto il tempo scacciando i corvi che la sfidavano continuamente nel tentativo di strappare un po’ di cibo dai bulbi oculari di quelle teste!

Il vicolo si aprì come una ferita nella sabbia, grazie ai lamenti e ai sospiri. È questo che ha fatto di me un vicolo sentimentale? Sì, vi assicuro che questo vicolo è un vulcano di emozioni, cominciando dalla moschea di Radwa, con le sue masse di pellegrini, e finendo con i negozi che su entrambi i lati vendono strumenti musicali e regalano ebbrezza. Il cuore del vicolo appartiene a una storia evanescente, che nasconde la testa sotto la sabbia, che replica il brontolio dei ginn ma poi subito si ritrae, perché dietro gli usci accostati vi è solo tristezza, le finestre delle case sono sbarrate davanti agli slanci d’amore. Tuttavia, le porte più grandi sono quelle che si spalancano in segreto: le porte della passione e del desiderio, incarnati in quel luogo di pace e di ristoro che è il giardino che si apre in fondo al Vicolo delle Teste, il capolavoro di Mushabbab, iniziato da uno degli sharìf che in passato governarono La Mecca (lo sharìf Awn o lo sharìf Hussein, non fa differenza!).

Questo giardino era un miraggio che attraeva gli assetati, coloro che andavano in cerca di miracoli, ma anche i soldati, desiderosi di rendere più sicura la strada del pellegrinaggio liberandola dai malviventi che la frequentavano e producevano colla artigianale o alcol ricavato dall’anice, arak, nei sotterranei abbandonati!

Il Collare Della Colomba
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