Aburrùs
In questo libro una sola cosa è certa, il luogo del ritrovamento del cadavere: lo stretto vicolo chiamato Aburrùs, Vicolo delle Teste. Chi altri oserebbe scrivere di un vicolo chiamato Aburrùs se non io stesso, Aburrùs in persona, con le mie tante teste?
Io sono quello stretto vicolo che si trova alla Mecca, nei pressi del luogo dove i pellegrini compiono l’abluzione e indossano l’ihràm, l’abito bianco, per poter cominciare i rituali del pellegrinaggio, durante il quale si mondano l’anima di un anno di peccati, predisponendosi a un nuovo anno di trasgressioni.
Io, Aburrùs, il Vicolo delle Teste, sono il re della respirazione, un titolo che mi sono guadagnato in virtù della mia capacità di sopportare l’insopportabile. Dal momento che non sono mai stato adeguatamente illuminato, ho imparato a sedermi nel buio e a inalare un’aria piena dell’odore rancido dei rifiuti e degli scoli delle fogne, i tipici odori che si inspirano in ogni vicolo dimenticato: la trattengo nei polmoni per qualche minuto, poi, intontito, la espiro lentamente dalla bocca in forma di pettegolezzi, superstizioni e divieti con cui soffoco i miei abitanti, impedendo loro di respirare. A causa delle mie esalazioni mefitiche, loro hanno cominciato a rivolgersi alla storia passata come a un tranquillante, essendo incapaci di sopportare oltre lo sbiadito presente, o di comprendere l’era atomica che verrà e da cui saranno schiacciati.
Probabilmente, non sono un vicolo che risale all’epoca delle tribù dei Giurhum e degli Amaleciti, che furono i primi abitanti della Mecca; però ho alle spalle una storia antica, nel corso della quale ho potuto vedere un regno perire e un altro sorgere al suo posto, con tutto il corollario di guerre e di spargimento di sangue che accompagna simili eventi. Del resto, io sono un vicolo che si disseta grazie all’acqua che giunge da una valle detta di Numàn (la più grande della regione dello Hijaz), che, come spiega il dizionario, significa “sangue”.
Questo mio nome, Aburrùs, Vicolo delle Teste, non è male, però invidio dal profondo del cuore Mirfaq, il Vicolo del Gomito, che si pensa ospitasse la bottega, e anche la casa, di Abu Bakr, il primo a convertirsi all’Islam, e anche primo califfo, ovvero successore del Profeta alla guida della comunità musulmana. In quella bottega, Abu Bakr vendeva stoffe di seta. Di fronte, si trova una pietra che tutti vanno ad accarezzare e che si ritiene rivolga il saluto al Profeta Muhammad – su di lui la pace e la benedizione di Dio! – ogni volta che viene sfiorata; probabilmente è proprio la stessa pietra di cui il Profeta diceva: «C’è una pietra alla Mecca che mi salutava ogni notte dopo che ero stato scelto come inviato di Dio.»
Di fronte a questa pietra, c’è una roccia con un piccolo incavo al centro, come se un gomito vi fosse stato appoggiato lasciandovi una lieve traccia. Si ritiene che sia stato il Profeta – su di lui la pace! – ad appoggiare il suo nobile gomito su quella roccia, mentre parlava con la pietra di fronte. Gli abitanti della Mecca assicurano che effettuare a piedi il tragitto dalla casa di Khadigia, la prima moglie del Profeta, fino a questa roccia serve a curare la sterilità e a procurare a tutte le coppie una numerosa prole.
Sì, mi piacerebbe essere un vicolo con un passato così prodigioso, un vicolo dai cui muri spuntassero lingue che salutano i passanti e con questi si intrattengono in conversazioni e, inoltre, esaudiscono tutti i loro desideri. Mi rendo conto però che mai potrei competere con un vicolo che ha alle spalle una storia tanto gloriosa! In ogni caso, mi sento di gran lunga superiore ad altri, ad esempio a quel vicolo spudorato che si chiama Aniqni, Abbracciami, tanto stretto che due corpi non possono passarvi se non abbracciati, appunto: ogni movimento in quel vicolo meriterebbe di essere punito con la lapidazione. O il Vicolo dei Funerali, dove si respira un’infinita tristezza, e da cui, per ovvie ragioni, non si torna indietro; o ancora il Vicolo Mihràs, del Mortaio, che schiaccia le teste più fragili, quelle che invece io incoraggio a esistere liberamente in tutti i miei angoli. Guardo dall’alto in basso anche il Vicolo dei Poveracci, Darb Masàkin, pieno di mendicanti raccolti intorno ai falò a elemosinare briciole e cenci, e di dervisci, che intonano inni di lode al Signore, vivendo anch’essi di carità. Infine, disdegno anche il Vicolo del Carbone, Darb Fahm, o quello del Carrubo, Darb Humra, che invece va fiero del suo albero di carrube, perché è l’unico a dare frutti dai quali gronda sangue.
Io, Aburrùs, non ho niente a che spartire con tutti costoro. Talvolta mi siedo per pregare – no, non stupitevi, ogni cosa prega qui alla Mecca –, e talvolta chiudo gli occhi e mi faccio trasportare dai pensieri sotto l’effetto dell’Amitriptilina, che viene prescritta generalmente per il trattamento della depressione ma, a basso dosaggio, può essere usata anche per curare l’enuresi, ovvero quando si fa la pipì a letto. Prendo una capsula da cinquanta milligrammi e la apro, poi tolgo la polverina all’interno e la divido in cinque parti. Capita che io aumenti la dose, ma immediatamente smetto di assumere il farmaco appena le delicate pareti del mio intestino cominciano a irritarsi; sì, decido allora di non assumerlo più e ricomincio a fare la pipì a letto.
Io sono Aburrùs, un nome sconosciuto a tutti coloro che invece sono ben noti, invisibile a quanti hanno il potere di mutare il mio destino e di rendermi visibile sulla carta topografica della Mecca.