Seconda mossa: disperazione
Un’ora prima del ritrovamento del cadavere della donna.
Girò la chiave nella toppa, la porta si aprì senza opporre resistenza, e lui venne inghiottito dal silenzio della casa. Lasciò la valigia e la giacca in corridoio. Fece un passo e rimase paralizzato, sentendo quella risata limpida e vellutata. Un brivido gli corse lungo la schiena. L’abbandono che vi si coglieva gli risultava del tutto estraneo, eppure quella era la sua voce: chi stava suscitando tanta felicità in lei?
Trattenendo il respiro, avanzò nella luce spettrale e andò a fermarsi davanti alla porta aperta della stanza rubata, che era stata arredata per lui e Aisha quando si erano sposati. Rimase lì per un po’. Lei, evidentemente, stava sognando, in uno stato di estasi.
Si sentiva tutto indolenzito: era rimasto seduto troppo a lungo, il viaggio in aereo era durato sei ore. Trattenne il respiro: se la ricordava più grande, quella stanza, che era stata testimone della sua storia con quella donna, una storia che non suscitava in lui nessun orgoglio. Anzi, aveva scavato ferite profonde nell’animo di entrambi. Contemplò Aisha addormentata, illuminata dallo schermo del suo computer acceso: era stesa su letto, scoperta, portava solo dei calzettoni che le arrivavano alle ginocchia, una fiammata rosso vermiglio che attirava lo sguardo, prima che scivolasse verso quel triangolo nero.
Quando stavano insieme, quella donna non aveva né consistenza né corpo, né pianure né rilievi, con lui era una macchia di inchiostro sbiadita. Tra le sue mani non lasciava spazio neanche all’immaginazione, mentre ora, su quel letto, inarcava il collo come per ricevere un bacio o una goccia di profumo. Lui non era mai stato ammesso in quel paradiso e non sapeva che sapore o che profumo avesse!
Aveva sempre identificato le donne con gli odori che emanavano, era sensibile ai loro profumi; la cipolla era sufficiente per far reincarnare davanti ai suoi occhi la zia che l’aveva cresciuto, il cloro faceva materializzare sua madre, la moglie di Yàbis lo Svuotafogne. Perfino le donne che lo avevano consolato a Casablanca non erano altro che corpi plasmati con odori penetranti, in cui il sudore si mischiava all’aglio e a un vago sentore di marcio e di sangue mestruale. Maestosi e potenti, i corpi plasmati nell’aglio. Suggeriscono un’idea di forza e di volontà di possesso, e sono animati da un istinto omicida. Quando si imbatteva in seni che sapevano di aglio, aveva sempre la sensazione che non se la sarebbe cavata: quella donna lo avrebbe fatto a pezzi, ma lui l’avrebbe fatta urlare di piacere con le sue carezze.
Aisha era l’unica creatura incorporea con cui si fosse unito, l’unica che non gli aveva mai permesso di cogliere i suoi odori. Invece ora, stesa su quel copriletto di seta color lavanda che nel breve periodo del loro matrimonio si era sempre rifiutata di usare, come se il corpo nudo di lui potesse marchiarlo a fuoco, rivelava il suo odore più intimo, un odore animale. Sentì l’impulso di toccare tutte quelle cose proibite, di violare tutti i tabù, lasciando su quel copriletto un segno indelebile del proprio corpo, fosse anche per una sola volta!
Rapido come un rettile salì su quel letto-altare, e non si rese conto che già la stava penetrando. Una goccia di tempo eruppe spargendosi in lei, in tutta lei, e il gemito che le sfuggì sembrava essersi levato dalle labbra di lui. La stanza fu travolta dai loro fremiti, e lei si congiunse a lui nel sogno di un’altra presenza. Infine, il corpo di lui ebbe un gemito, e con quello stesso gemito fu spinto fuori dal corpo di Aisha.
Lei gli rivolse uno sguardo pieno di sdegno: un rifiuto più freddo della morte. In un attimo, lui era tornato a essere l’usurpatore, il violentatore, l’assente per sempre, e lei la vittima. Non lo sopportò. Il disgusto di Aisha scatenò qualcosa di mostruoso dentro di lui, una rabbia cieca lo assalì, facendogli perdere la ragione. Tese la mano verso di lei per cancellarle quel rifiuto dal viso, per strapparle quella freddezza e i calzettoni rossi. Un istante dopo, lei si ritrovò bloccata da lui, schiacciata sotto il suo corpo possente.
Quando la sua mano si fosse levata, non era chiaro. Lui sapeva solo che lei lo stava colpendo alla cieca, lo colpiva perché non lo voleva, perché non voleva amarlo, lui era una non entità, un orfano su quella superficie incorporea. Si sentì spinto fuori dall’universo, condannato alla solitudine più totale. Completamente alterato, non avrebbe saputo dire chi portasse chi, chi salisse e chi scendesse, chi lanciasse e chi fosse lanciato.
Quando, di colpo, tornò in sé, avvertì tutto il vuoto di quella casa; si sentì schiacciato dalle parole che scorrevano sullo schermo del computer, e da quelle stampate nel libro che, cadendogli ai piedi, si era aperto. Sulla prima di copertina c’era l’immagine di una donna, sulla quarta quella di un uomo con la barba. La donna aveva un’espressione indefinibile e non si curava per niente dell’uomo, portava delle calze rosse, un foulard rosso vermiglio annodato e un berretto di lana nero, e sotto il braccio aveva un album da disegno. L’uomo aveva i capelli lisci, con la riga al centro, e gli occhi assonnati color turchese. Sentì quegli occhi chiudersi su di lui, si sentì minacciato dalla barba di quell’uomo che gli ricordava – chissà perché, dato che erano così diverse – le barbe degli sheikh della Sacra Moschea. Con un gesto disperato raccolse da terra il libro, Donne innamorate. Alla pagina aperta c’erano delle righe sottolineate.
Così freddo, muto, solo materia! Birkin ricordò come una volta Gerald avesse chiuso la sua mano in una breve, calda stretta d’affetto per un secondo... poi l’aveva lasciata andare, l’aveva lasciata andare per sempre. Se avesse tenuto fede a quella stretta, la morte, ora, non avrebbe avuto importanza. Coloro che muoiono, e pur morendo fanno ancora dono del loro amore, della loro fede, non possono dirsi morti perché vivono nelle persone che hanno amato.
Quando Ahmad lasciò la stanza rubata, la casa e il suo silenzio mortale, Aburrùs cercò in tutti i modi di nasconderlo insieme alla sua valigia. Sui muri del vicolo il viso di lei sfavillava, gridava per richiamare l’attenzione sui calzettoni rossi appallottolati, penzolanti dall’antenna parabolica sul tetto del caffè. Com’erano finiti lì sopra?
Ahmad si tenne alla larga dalla casa di suo padre, Yàbis lo Svuotafogne, come pure dal caffè, con i camerieri addormentati sul retro. Trascinandosi dietro la valigia, finì nel caffè Mahàwi, alle porte della Mecca, uno di quei locali che restano aperti giorno e notte per accogliere l’eterno flusso di pellegrini. Ebbe un sussulto accorgendosi che il cameriere pakistano lo fissava. Da quanto tempo lo stava guardando? Si rese conto che doveva ordinare qualcosa da bere, per dare un odore e un sapore al silenzio di lei.
«Un narghilè con tabacco al gusto di mela... anzi no, solo tabacco.»
Il pakistano gli rivolse un sorriso complice, come se comprendesse bene quel suo bisogno di tabacco forte.
«Posso portarle del tè? O preferisce del rognone, del fegato, o del formaggio? Abbiamo tutti i piatti tipici meccani.»
«No, grazie.»
Ahmad aveva lo sguardo perso nel vuoto e non dormiva da giorni. Per un’ora rimase seduto a fissare la brace ardente diventare cenere sul fornellino del narghilè, senza fare neanche un tiro.
Il tubicino del narghilè era come un cadavere tra le sue mani, come il suo corpo maciullato sotto le ruote di una macchina.
«Quella maledetta è la mia rovina! Ha sette vite come i gatti.»