Le liste
L’ispettore Nasser fermò l’auto all’imbocco del vicolo, da cui si diramavano tante viuzze e stradine laterali, godendosi il risveglio dei miei abitanti parassiti. Si diresse al caffè, dove un cameriere pakistano gli diede la lista dei tabacchi aromatizzati alla mela. Si sedette al solito posto osservando il cielo sopra La Mecca: i colori al sorgere del sole erano come sbiaditi, contrariamente a quelli del tramonto, così brillanti al punto che ogni sera immaginava Abele librarsi sopra la Sacra Moschea!
Il cassiere sudanese si era appena alzato, riemergendo da sotto la coperta; aveva trascorso la notte dormendo su una sedia, ed era stato svegliato dal profumo del tè che il cameriere pakistano gli aveva lasciato sul tavolo lì accanto.
Nasser non sapeva quale messaggio volesse comunicargli il vicolo, rendendolo partecipe perfino dei propri sogni. A un tratto un frenetico viavai disturbò i suoi pensieri. La giovane africana ferma vicino all’entrata del caffè era saltata in piedi, facendo svanire all’istante la stuoia stesa per terra su cui aveva esposto le sue povere merci, i suoi oggetti insulsi.
«Buon... buongiorno.»
Nasser rise: quella donna non era scappata via, era letteralmente evaporata, come se la terra si fosse aperta e l’avesse inghiottita. Si era volatilizzata in una frazione di secondo, appena aveva visto spuntare, in fondo al vicolo, il camion della municipalità con gli addetti al controllo della qualità dei servizi pubblici nella Città Santa.
I due ispettori, saltati giù dal camion già prima che si fermasse completamente, si lanciarono sulle merci, rovesciando e calpestando mandorle e semi di melone abbrustoliti e gettando nel cassone del camion sacchetti di plastica con dentro dolci al cocco a forma di bastoncino o di lecca-lecca confezionati in locali di fortuna dalle mani di lavoratori clandestini, e radici di liquirizia preparate negli stessi locali e vendute come prodotti multivitaminici, e giocattoli provenienti da Taiwan.
Quando il camion si addentrò nel vicolo, io, Aburrùs, mi sentii febbrilmente vivo; su entrambi i miei marciapiedi le file di bancarelle abusive svanirono come per incanto, le porte e gli scantinati inghiottirono i fuggitivi, i cani e i gatti si precipitarono ad annusare e a leccare il cibo rovesciato. Seduto al caffè, il suo punto di osservazione, l’ispettore Nasser sentì la stessa scarica di adrenalina che aveva fatto correre i lavoratori illegali del locale a chiudersi in bagno e quelli delle locande della zona a rintanarsi nei depositi di carbone. Si sentiva in totale sintonia con quel trambusto. Con un sorrisetto cinico, pensò che il Vicolo delle Teste non avrebbe prestato attenzione nemmeno all’angelo Izraìl, nemmeno se avesse soffiato nella sua tromba annunciando il giorno del giudizio, ma avrebbe continuato a nascondere i lavoratori clandestini e le loro bancarelle abusive, pronto a riprendere le solite attività illegali una volta passata la bufera. La carne avrebbe continuato ad arrostirsi sugli spiedi, il pane a cuocere nei forni e il riso nelle pentole, e tutte quelle pietanze, condite con quantità eccessive di grasso, sarebbero finite nelle pance di uomini che avrebbero poi soddisfatto anche altri appetiti, spendendo tutto ciò che avevano guadagnato durante il giorno!
Non nego che quel pensiero mi lusingava e mi riempiva di orgoglio.
Non so ancora bene cosa pensare del desiderio di Nasser di conoscere in profondità un vicolo come me; non so se mi piace che le sue visite regolari mi facciano sentire come una continuazione del suo corpo, come se lui fosse mio complice piuttosto che un ispettore che deve indagare su ciò che è avvenuto nel mio vicolo. A ogni modo io lo sto ingannando; cerco di farlo sentire a proprio agio, come se fosse una delle mie tante teste, ma in realtà lo tengo ben lontano dai miei peccati segreti. Lo distraggo, offrendogli solo pochi frammenti dei miei pensieri. Lui ormai sa quanti sono i lavoratori illegali che risiedono ad Aburrùs, sa esattamente quante sono le persone che vivono in ogni baracca diroccata dividendo l’affitto e godendo a turno di gioie proibite su luridi materassi. Conosce tutti i piaceri a cui si abbandona la natura umana, anche quelli vietati per legge dalla municipalità. Riesce a contare i sospiri con cui le donne, da dietro le finestre inchiodate, assistono a quei rastrellamenti, più divertenti di qualunque serie televisiva.
Dopo che il camion della municipalità sparì, l’ispettore Nasser si recò dall’imàm Daùd che lo condusse alla moschea. Mentre l’imàm lo precedeva per fargli strada, Nasser ebbe modo di osservarne la figura: l’etiope aveva un corpo compatto e massiccio, la veste bianca stretta in vita che a causa della pancia prominente gli arrivava a metà polpaccio, sandali blu da spiaggia ai piedi, la kufiya bianca che sembrava fissata a un invisibile chiodo al centro della testa e gli scendeva svolazzante sulle spalle come la mantellina di Superman, una barbetta crespa lunga due dita senza baffi, uno sguardo penetrante che bucava le lenti incredibilmente spesse degli occhiali. Nasser, non sapendo da dove cominciare, disse: «Tutti nel Vicolo delle Teste la tengono in altissima considerazione, signore. Tutti i suoi figli sono nati e cresciuti qui. Si è pentito di averli strappati alle loro radici in Etiopia, visto che non hanno ancora ottenuto la cittadinanza saudita?»
«Da un quarto di secolo servo questa moschea. Tutto ciò che chiedo al Signore è di essere vicino alla sua casa. Grazie a Dio ho un regolare permesso di soggiorno, che mi è stato concesso in quanto volontario dell’organizzazione per la diffusione della virtù e la repressione del vizio. I miei fratelli nella fede mi hanno promesso che, con l’aiuto di Dio, riusciranno a farmi concedere la cittadinanza. A me resta poco da vivere. È solo per i miei figli che mi do da fare per ottenerla.»
«Mi spiega la storia delle liste dei candidati all’inferno e dei candidati al paradiso?»
Gli occhi dell’imàm si misero a fissare un punto sulla parete di fronte, come se volessero forarla.
«Si faccia spiegare piuttosto la storia della cassetta! Una vera e propria estorsione, ideata da una donna del vicolo.» Evitò di pronunciare i nomi di Umm Saad e di Tays, come fossero bestemmie. «Che Dio la perdoni! Con quei soldi pagava i funzionari pubblici per far avere la cittadinanza a quel ragazzo.»
Il vecchio condizionatore – che faceva a gara con il ventilatore appeso al soffitto per disperdere le parole pronunciate dall’imàm che avvelenavano l’aria nella moschea – ricordò a Nasser quello del suo ufficio.
«Quella donna è un tizzone ardente dell’inferno, Satana in persona le ha conferito il fascino diabolico con cui irretisce la gente, costringendola a depositare il denaro in quella sua cassetta della beneficenza. Del resto, cos’altro ci si può aspettare da una donna caduta dalla bocca di Izraìl? È capace di qualsiasi perversione.»
«Che strano! Lo sheikh Muzàhim ha usato la stessa identica frase. Anche lui ha detto che quella donna è caduta dalla bocca di Izraìl. Cosa significa?»
«Non strappare la maschera al diavolo se non sei pronto ad affrontare la sua orripilante bruttezza!» Dopo una pausa, l’imàm Daùd continuò: «È una donna diabolica, ha appeso la cassetta della beneficenza alla porta del palazzo della Lega degli Stati Arabi per controllare di persona chi versa e chi si astiene. Ha diviso gli abitanti del vicolo in due gruppi: i malvagi, ovviamente quelli che non versano, e i generosi, quelli che versano il denaro nella sua cassetta.»
L’imàm tacque, pensando che non fosse il caso di fornire ulteriori spiegazioni; del resto, non si aspettava certo che un uomo con un’uniforme di foggia occidentale potesse apprezzare il piano di contrattacco che aveva ideato per contrastare Umm Saad. Facendo appello al principio secondo il quale corrotto e corruttore sono entrambi colpevoli e destinati quindi a finire nelle fiamme dell’inferno, l’imàm Daùd aveva inserito i nomi di coloro che donavano denaro a Umm Saad in una lista di candidati all’inferno e i nomi di coloro che non lo facevano in una lista di candidati al paradiso.
«I primi sono uomini accecati dalla lussuria, infilano nella cassetta monete d’oro e qualche volta anche gioielli d’oro. Ma non dovrò certo essere io a dirle quali desideri perversi li spingano a infilare in quella cassetta le loro donazioni.»
Nasser non capiva di cosa stesse parlando l’imàm, ma fu colpito da quel suo insistere sulla parola “infilare”. Era perplesso, ma l’imàm si era chiuso in un silenzio di tomba, mentre le sue insinuazioni maligne continuavano ad aleggiare nell’oscurità della moschea, lasciando al ventilatore il compito di disperderle.