Caviale

Quella notte lo sheikh si librò nell’aria come un’aquila, spiando dall’alto ogni mossa di Nura, pronto a scendere in picchiata e a ghermirla.

La sua tortura preferita era costringerla a mangiare ciò di cui lui doveva privarsi a causa dell’ulcera. Adorava farle ingurgitare il caviale. La guardava come si guarda un cane o un gatto: fetta dopo fetta, spalmava il caviale sul pane, aggiungendo una fettina di limone, e poi la osservava masticare passivamente. Quando le infilava il pane in bocca, abusando del suo corpo, voltandola e rivoltandola come un guanto, percepiva il rifiuto istintivo di lei, e si placava solo quando la avvertiva sottomessa. Di solito, smetteva di ingozzarla quando lei andava a rannicchiarsi sul divano. Poi continuava stancamente a bere, mentre la distanza tra loro diminuiva; il gusto del caviale gradualmente lavava via quello amaro del risentimento, permettendo alla compassione di farsi strada nel cuore di Nura.

A un certo punto, lui si stendeva sul divano posandole la testa in grembo, e si addormentava. Nura allora si abbandonava a quella tregua seguita alla caduta delle maschere: mentre dormiva, lo sheikh sembrava un ragazzino dei quartieri popolari, con la fronte imperlata di sudore e un vulcano che gli ribolliva dentro. La inteneriva, come un figlio la madre.

Anche quella notte, quando il suo respiro si fece pesante lei gli spostò pian piano la testa sul cuscino e si alzò.

Chiuse tutte le porte della sua stanza, anche quelle del guardaroba e del bagno, e andò alla finestra, a guardare le statue e gli alberi del giardino pubblico lì di fronte, da cui si sentiva spiata. Era inquieta, non aveva sonno e non riusciva a stare ferma, ma non era paura, era iperattività. Era come se nel suo cervello si fosse aperto un solco dal quale, come la lava dalla crosta terrestre, si sprigionavano lingue di fuoco i cui bagliori si accendevano e subito si spegnevano, senza tradursi in immagini coerenti.

Decisa, si mise in testa il fazzoletto, ma non prese la pelliccia. Uscì senza fare rumore, passando dal guardaroba alla stanza della cameriera, si infilò il suo cappotto e uscì nel corridoio.

Guardò di sfuggita la porta della stanza di Rafa, sempre accostata anche quando dormiva. Era contenta di non averlo tra i piedi: quella notte voleva affrontare il mondo da sola.

In strada, quando l’aria fredda la avvolse, avvertì una certa ansia. Era consapevole del rischio che correva uscendo senza guardia del corpo a quell’ora della notte, ma continuò a camminare, concentrata solo su ciò che dentro di lei minacciava di esplodere a ogni istante. Era la prima volta che contravveniva alle regole dettate dallo sheikh.

Si lasciò alle spalle la fontana di Nettuno, addentrandosi nel dedalo dei vicoletti che portavano al centro storico, pieni di caffè e di ristorantini, di risate e di frasi galanti che i giovanotti le rivolgevano. Uno, grande e grosso, si mise a ronzarle intorno, le cantò una canzone struggente e si inginocchiò platealmente ai suoi piedi, finché non arrivò l’amica a trascinarlo via sparendo con lui nella notte. Poco più avanti, una donna rise fragorosamente e lei si voltò a guardarla. Tutto la incuriosiva, così non si accorse dell’ombra furtiva che la seguiva da quando aveva lasciato l’albergo. Improvvisamente, dal buio spuntò un uomo con un enorme cane nero al guinzaglio. Mentre le passava accanto, il cane le leccò l’indice con la lingua umida, e lei ebbe un sussulto. Si girò ma non vide più nessuno. L’indice bagnato di saliva un po’ la disgustava. Avrebbe dovuto lavarsi sette volte con l’acqua e una volta con la sabbia, come stabiliva un hadìth, una tradizione attribuita al Profeta.

Si affrettò, seguendo dei colpi di tacco e una chitarra lontana: era attratta dalla tristezza di quella musica. Si ritrovò in plaza Mayor, la piazza porticata a pianta rettangolare con nove porte di accesso, chiusa da quattro edifici di tre piani con duecentotrentasette balconi, progettata nel 1790 dall’architetto Juan de Villanueva, incaricato della sua ricostruzione dopo che era stata distrutta da un incendio.

Nura si lasciò coinvolgere da quel flamenco trascinante e dall’esuberanza degli spettatori che si erano messi a ballarlo. I caffè e i ristoranti sotto i portici erano pieni di turisti. Sul palco al centro della piazza, un ballerino gitano piroettava intorno alla sua compagna, imitato da alcuni spettatori. Qualcuno stava incoraggiando i presenti a ballare; si sentivano urla, risate e conversazioni animate in tante lingue, spagnolo, inglese, tedesco, un fiume di lingue sulle cui rive Nura aveva sostato nel suo passato.

A destra, dai portici, spuntò un’altra ballerina gitana che trascinò Nura con sé. I presenti le rivolgevano sorrisi di incoraggiamento. Un giovane le si avvicinò con movenze che cercavano di imitare quelle di un ballerino, anche se in realtà sembravano più che altro quelle di un matador, e le chiese di unirsi a lui nella danza.

In quel momento di totale abbandono, Nura sentì che stava tagliando i ponti con il passato, e che si era avventurata fin lì solo per sperimentare quella situazione, per provare quella suprema nostalgia in cui si coagulava tutto ciò che dentro di lei era andato perduto. Avrebbe voluto spandere il suo corpo su tutta la piazza, lasciando che tutta quella gente scoprisse ogni suo più segreto desiderio.

Questo spazio sei tu!, diceva una voce interiore alle sue cellule, e quelle continuavano: «Stenditi, occupa tutta la piazza, allunga braccia e gambe fin dove puoi arrivare... il tuo corpo è una goccia grande quanto la notte e le stelle.»

Improvvisamente, il giovane la trascinò in un vicolo buio. Lei cercò di divincolarsi, ma lui la strinse forte, trattenendola e soffocando il suo grido di protesta, e proprio in quel momento una mano afferrò il suo aggressore e gli diede una spinta poderosa che lo fece cadere a terra tramortito. Quella stessa mano, poi, afferrò rabbiosamente anche lei e la trascinò via. Quando Nura guardò il suo salvatore, ebbe un sussulto.

«Rafa!»

«Spendi pure tutti i miei soldi per qualsiasi tuo capriccio, ma non azzardarti a comprarti degli amanti!»

Al risveglio, il mattino seguente, Nura trovò sullo specchio del bagno quell’avvertimento scritto con il suo rossetto dallo sheikh, prima di andarsene. Notò la grafia tremolante, e un brivido le corse lungo la schiena.

Il Collare Della Colomba
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