Gihayman
Il martedì era il giorno di riposo di Muadh, che andò quindi a casa del fotografo Lababidi, ma questa volta prendendo delle stradine secondarie, più lunghe rispetto al tragitto solito, perché voleva essere sicuro che nessuno lo seguisse.
Yusuf, aprendo la porta, fu avvolto dall’odore piacevole del pane shurìk, fatto con farina di grano e di ceci e condito con il finocchietto. Muadh lo aveva comprato al forno di Shaldùm, che lo impastava ancora secondo l’antica ricetta.
Muadh invitò Yusuf a salire con lui, ma evitò di fermarsi al primo piano, tirando dritto fino alla parte del terrazzo in cui si trovava la colombaia. Arrivato lassù, disse: «Yusuf, puoi dormire qui nelle notti più calde.»
Yusuf fu infastidito dal tono della voce dell’amico: si comportava come il padrone assoluto di quel mondo, che gli stava facendo una concessione permettendogli di girare nei suoi possedimenti e di dare un’occhiata alle sue foto.
A un tratto, lo sguardo di Muadh cadde sul lucido oggetto di metallo appeso al collo dell’amico.
«Sei un demonio!» gridò, e si avventò come una furia su Yusuf che, preso alla sprovvista, crollò a terra sotto il peso del suo aggressore e si vide costretto a difendersi. I due corpi rotolarono sul pavimento, ansimanti. Si sentivano i colpi di Muadh parati da Yusuf, che non capiva cosa stesse accadendo, perché l’amico lo avesse aggredito. Quando riuscì a immobilizzare Muadh, con il fiato grosso gridò: «Sei impazzito? Che ti è preso?»
Per tutta risposta, Muadh gli sputò in faccia, accecato dalla rabbia!
«Hai preso la chiave... Come hai osato? Queste sono le mie chiavi... Non avevi il diritto di separarla dal mazzo!»
«Oh, questa! Ma non apre nessuna porta, qui dentro, non c’è nessuna serratura così grande.»
Muadh era fuori di sé.
«Le hai provate tutte? Tutte le porte?»
«No, naturalmente no! Mi interessa perché i tre mihràb mi hanno ricordato una chiave che ho visto in un manoscritto sulla Kaaba che Mushabbab conservava nel suo giardino. Mi piacerebbe sapere se vi è un legame tra le due chiavi. Per questo l’ho separata dalle altre, per portarla con me quando avrò modo di tornare nel giardino di Mushabbab.»
«Che diritto avevi di lucidarla? Era un pezzo raro e tu hai cancellato i segni del tempo dal metallo. Ora è come se fosse nuova, mentre io... io non avevo osato neanche fotografarla... Mi hai derubato perfino di questo piacere... sei proprio un Caino!»
«Non farla così tragica. Volevo solo cercare di stabilire la data di fabbricazione. Scusami se mi sono concesso questa libertà... ma ho pensato che, se mi era stato permesso di entrare in questa casa, era per uno scopo... Lo sai che io e Mushabbab raccogliamo tutte le chiavi che vengono recuperate dal pozzo di Zamzàm, nella Sacra Moschea, o vengono ritrovate nelle antiche case... perché crediamo che, al momento giusto, queste chiavi ci aiuteranno a trovare alcune delle risposte che cerchiamo.»
Yusuf, però, non aveva detto tutta la verità, aveva taciuto che era destino che quella chiave giungesse fino a lui. Era la sua, e lui l’aveva riconosciuta al primo tocco.
Muadh si divincolò per liberarsi dalla pressione del corpo di Yusuf ancora sopra di lui, poi andò a sedersi in disparte, imbronciato, sul pavimento nudo del terrazzo, a osservare la città che si stendeva ai suoi piedi, evitando di guardare Yusuf.
Né Muadh fece il gesto di riprendersi la chiave né Yusuf quello di consegnargliela: era un destino che si era compiuto!
Dopo un po’, Muadh, per mettere fine a quella situazione imbarazzante, scese in cucina a preparare una tazza di Nescafé, uno dei piaceri mattutini a cui Marie, la moglie del fotografo Lababidi, lo aveva iniziato sin da quando lo aveva accolto in quel mondo.
Sciolse il latte in polvere e il Nescafé (come faceva ogni mattina, quando c’era Marie) e tornò sul terrazzo con le due tazze fumanti e del pane shurìk. Lui e Yusuf si sedettero sul bordo del parapetto di legno intarsiato, sorseggiarono il Nescafé e vi inzupparono il pane, respirando l’intenso aroma di burro, finocchietto, cumino e sesamo e gustando quel semplice pasto che creava tra loro un senso di intimità e li invogliava a proclamare una tregua.
Muadh osservava Yusuf come un tempo era solito osservare Marie, mentre lei, posizionata dietro l’obiettivo dell’apparecchio, fotografava dall’alto la Sacra Moschea. Ripeté ad alta voce, perché Yusuf sentisse bene, le esatte parole che Marie aveva pronunciato la prima volta che lo aveva invitato a guardare attraverso l’obiettivo: «Ti sto invitando a entrare non in una casa, ma in un mondo che sta morendo, un mondo in agonia.» Poi sbirciò Yusuf per vedere che effetto gli avessero fatto quelle parole, così come Marie aveva osservato lui in quel mattino ormai lontano.
Sentiva la presenza di Marie lì con loro, sentiva che lei lo stava osservando. Del resto, lei lo osservava sempre, come se riuscisse a vedere dentro di lui qualcosa che sfuggiva a tutti gli altri; come se, attraverso Muadh, guardasse dentro una sfera magica che le permetteva di conoscere il futuro. In un’occasione gli aveva detto: «Ti rendi conto di ciò che è custodito qui dentro?» Poi gli aveva preso la mano e l’aveva aperta, come un foglio su cui scrivere la shahàda, la testimonianza di fede, o le ultime volontà, e su quella mano aveva posato il mazzo di chiavi con i mihràb. E, indicando le foto appese alle pareti, aveva detto: «Sei tu il più degno custode di questo tesoro.»
«Le ultime immagini del cortile della Sacra Moschea che Lababidi ha scattato da questo terrazzo risalgono al 1400 dell’egira. Più precisamente, al giorno in cui Gihayman ibn Said Utaiba, insieme con i suoi uomini, quattrocento militanti islamici, ha fatto irruzione nella Sacra Moschea, sbarrando tutte le porte e barricandosi all’interno, impedendo lo svolgimento dei riti religiosi. In questa casa sono custodite foto rarissime delle gabbie funerarie, solitamente poste sui corpi delle donne defunte, che, nei giorni precedenti l’assalto, Gihayman usò per introdurre all’interno della Sacra Moschea le armi di cui poi i rivoltosi si servirono.»
Muadh non sapeva dire se fosse la sua voce oppure quella di Marie a rievocare quegli eventi dolorosi.
«All’interno di quelle gabbie fu introdotto nella Sacra Moschea un vero arsenale, che fu occultato nei sotterranei, insieme a sacchi pieni di datteri e altre provviste che dovevano aiutare gli insorti a resistere all’assedio.»
Yusuf e Muadh salirono fianco a fianco, preceduti dal fantasma di Marie, i pochi gradini che conducevano a una stanzetta ben nascosta, a cui si accedeva dal terrazzo. Lì dentro si ritrovarono davanti alle foto scattate, dall’alto di quella casa, dalla stessa Marie, che aveva voluto conservarle in quel luogo appartato come sua personale testimonianza di quei giorni feroci. Le foto ritraevano corpi fatti a pezzi, in avanzato stato di decomposizione, che giacevano dappertutto nel cortile della moschea, in mezzo a datteri e tappeti da preghiera.
La voce di Marie si era fusa con quella di Muadh, non era più lui a parlare ma lo spirito di lei.
«Credevamo di fotografare l’alba di una nuova era, in cui il Mahdi, il Salvatore atteso, sarebbe apparso, trasformando la terra in un paradiso, ma subito dovemmo ricrederci, quando udimmo il rumore degli spari che fecero alzare in volo stormi di colombi terrorizzati; volteggiavano intorno alla Kaaba, come se tentassero di difenderla con le loro fragili ali. Lababidi cadde morto quando sentì il primo sparo nel cortile della moschea. Fu fortunato perché gli vennero risparmiati gli orrori che furono commessi in seguito! Mio marito Lababidi non era un semplice fotografo, era un asceta, che trasmetteva alle sue foto l’anima stessa della Mecca. Il suo obiettivo rincorreva i volti di coloro che arrivavano in città per essere vicini alla casa di Dio. In quei volti, con pazienza e reverenza, cercava di cogliere i segni premonitori della comparsa sulla terra del Mahdi. Io mi ero votata, anima e corpo, a un uomo il cui cuore palpitava all’unisono con quello della Mecca. Ogni suo scatto pompava sangue per la città morente, erano le sue stesse vene che portavano quel sangue alla casa di Dio tenendola in vita, e quando i proiettili dei rivoltosi attraversarono quel cuore Lababidi cadde morto. Fu impossibile trasportarlo al cimitero perché il tragitto che si segue in occasione di un funerale era presidiato: gli fu impedito di ricevere l’ultima benedizione nella Sacra Moschea, e poi di godere per l’ultima volta degli aromi di quei mercati che tutti i defunti della Mecca attraversano per raggiungere la loro ultima dimora, il cimitero di Mualàt. Fu quindi privato anche delle espressioni di cordoglio dei suoi concittadini. Non poté neanche passare per l’ultima volta davanti alla prigione in cui, in vita, finiva ogni volta che veniva pizzicato a fotografare di nascosto il monte della Misericordia ad Arafàt, oppure le file di persone in preghiera nel cortile della Sacra Moschea: fotografarle voleva dire rubare loro l’anima, per questo veniva accusato di sacrilegio e condannato! E quando morì, in circostanze così drammatiche che non si poté pregare per la sua anima nella Sacra Moschea, le malelingue dissero che era stato castigato per la sua sfrontatezza. Fu sepolto come fosse maledetto, e la comunità dei fedeli non poté accompagnare la sua anima. A causa del coprifuoco, con i cecchini appostati su tutti i minareti, che sparavano su tutto ciò che si muoveva, fummo costretti a seppellirlo dietro casa, in cima al monte Hindi, sotto quelle che io chiamo le macerie del suo cuore!»
La voce di Marie continuò a riecheggiare ancora a lungo intorno a Muadh e a Yusuf. Nella luce fioca della stanza, le foto appese alle pareti li guardavano. Poi quella voce si affievolì, sovrastata da un rumore assordante, proveniente dalle stesse foto: il cortile della Sacra Moschea era tutto imbrattato di sangue e coperto di cadaveri, e altri corpi venivano ammassati su dei camion che poi si allontanavano in fretta verso sud, in direzione del pozzo di Yakhùr.
«Questo fu l’orribile spettacolo che si presentò agli occhi di coloro che entrarono nella moschea dopo l’irruzione degli uomini del reparto antiterrorismo, che avevano fatto una strage: duecento morti, tra rivoltosi, ostaggi e gli stessi militari» disse Muadh. «Le immagini scattate da Marie volevano essere la sua personale testimonianza di quell’immane tragedia, un’anticipazione del giudizio universale!, che ci ha raggiunti, nel secolo passato, al posto del Mahdi, il Salvatore, che noi tutti aspettavamo.»