Una mezza luna di henna
Non è che io, Aburrùs, il Vicolo delle Teste, non sia abituato a una temperatura di quarantanove cinquanta gradi, anzi, il caldo è la mia droga preferita, solo che di recente il mio leggendario sesto senso ha cominciato a tradirmi. Chiudo forte gli occhi appannati e aspiro con voluttà l’odore di sudore e di grasso che aleggia tutt’intorno predisponendomi a dormire, ma la curiosità di Nasser, che va a ficcare il naso dappertutto, mi impedisce di godermi un pisolino.
Stando fermo su un lato della strada, l’ispettore stava infatti conversando con Halìma, la madre di Yusuf, che se ne stava affacciata al terrazzo – il suo posto d’osservazione preferito, da cui può spiare ogni mio capriccio e metterlo in piazza. Da sopra, lei gli aveva passato un pugno di datteri.
«Da quando è scomparsa, non ho più bevuto un caffè delizioso come quello di mia zia Itra.»
Il sorriso illuminò gli occhi di Halìma. Preparò con estrema cura le dosi della miscela che poi fece bollire a dovere, per strappare un sospiro di piacere e un complimento a chi avrebbe gustato il suo caffè.
Il velo nero le arrivava al petto, coprendole solo una parte del viso e lasciando vedere i suoi occhi ridenti. Viveva in uno stato di precarietà: ogni mattina si aspettava di veder spuntare lo sheikh Muzàhim, che le avrebbe chiesto di sgombrare la stanza e il terrazzo. Eppure era sempre allegra, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo.
La mezza luna disegnata con la henna sulla sua mano brillava quando gesticolava. Nasser sospettava che vedesse suo figlio Yusuf di nascosto, ma evitò di chiederglielo direttamente, preferì ascoltarla, per cercare di raccogliere qualche indizio che lo conducesse a lui.
«Mio padre era originario delle oasi di Qasìm, ma si era fatto conquistare dagli agi della Mecca. Mi sembra di vederlo con il sarong, il gonnellino a strisce tipico degli indonesiani residenti alla Mecca, seduto sulla panca dove è lei adesso. Anche il suo accento beduino si era guastato: quando parlava, non c’era nessuna differenza tra lui e i nativi della Mecca.»
Halìma, con i denti bianchi e piccoli, morse un dattero, ne tenne una metà in mano e ne masticò l’altra metà e poi lanciò il nocciolo contro il corvo che volteggiava sopra la giara. L’uccello volò via e andò a posarsi sul parapetto, guardandola con occhi di fuoco, mentre lei riprendeva a lucidare il samovar con polvere di terracotta per farlo risplendere. Le sue storie fluivano frammiste alle sue risate.
«Questa casa apparteneva a mio padre, che la vendette a Muzàhim quando la siccità distrusse i nostri orti nella valle di Fatima, fuori della Mecca, e noi perdemmo tutti i nostri averi. Ma per mio padre i soldi non contavano niente, lui investiva i suoi riyàl nelle persone, dando a coloro che non possedevano niente la possibilità di migliorare la propria esistenza. La nostra casa era un ricovero per pellegrini poveri. A uno di loro, un giovane yemenita, mio padre affidò la vendita dei datteri dei nostri palmeti nella valle di Fatima. E a lui mi diede in sposa, esattamente come Giacobbe aveva fatto con Mosè. Mio padre era stato attirato non tanto dall’onestà di quel giovanotto, quanto dalla sua affermazione di appartenere a una famiglia della Mecca. Quando lo diceva, levava in alto la mano, per far intendere che si trattava non di una famiglia qualsiasi ma di una delle più nobili. Era però deciso a mantenere il segreto su quel nome finché non fosse stato in grado di dimostrare che era la verità.»
Dalla soglia del suo negozio, lo sheikh Muzàhim ascoltava, intervenendo di tanto in tanto ma cercando di non far innervosire troppo Halìma. «Ma quale famiglia nobile della Mecca! Suo marito, che Dio ci protegga!, era solo un discendente di Salomone e Bilqìs, la regina di Saba, ed era stato allevato dai ginn al servizio di quei sovrani nella terra felice dello Yemen. E fu maledetto perché aveva osato venire alla Mecca e proclamarsi discendente di una delle sue famiglie più nobili.»
Halìma era troppo ansiosa di riprendere il suo racconto, perciò non si curò del sarcasmo dello sheikh Muzàhim.
«A me interessava lui, non mi importava niente della sua famiglia. Bastava un suo sguardo per farmi venire il batticuore. Ma gli anziani di Aburrùs erano invidiosi e lo mettevano in ridicolo, ripetendo che nel corso della storia c’erano stati tanti ebrei, cristiani ed eretici che si erano introdotti alla Mecca fingendosi musulmani, per spiare la casa di Dio, e che erano stati tutti maledetti e puniti per il loro ardire.»
Lo sheikh Muzàhim sibilò sarcastico: «Ah, le donne. Che cervelli da galline!»
«Ma mio padre aveva preso quel giovanotto sotto la sua protezione, così lo presentò a due hafizat al-ansàb, i memorizzatori di alberi genealogici, Qurashi e il figlio di Naib Haram. I due, basandosi sull’esame dei tratti somatici, riconobbero in lui un rampollo della nobiltà meccana e si dichiararono pronti a confermarlo ufficialmente. La prova definitiva l’avevano avuta quando aveva raccontato loro della madre e della voglia a forma di mezza luna sul suo palmo.»
Halìma rivolse uno sguardo velato di malinconia alla mezza luna di henna che aveva sulla mano, con cui sfidava ogni logica di Aburrùs, il Vicolo delle Teste.
«A mio marito questo disegno piaceva, perché gli ricordava la voglia sulla mano di sua madre!» esclamò mostrando il palmo a Nasser, incurante dei sospiri di compatimento di Muzàhim.
«Nel poco tempo in cui rimanemmo insieme, venni a sapere soltanto che era il discendente di uno dei khuddàm, gli uomini pii della Mecca che erano stati al servizio dei luoghi sacri e che poi erano partiti per lo Yemen in cerca della chiave.»
«Quale chiave?»
«Mio marito aveva portato con sé un disegno della più antica chiave della Kaaba, che centinaia di anni prima era stata rubata e portata di nascosto nello Yemen da un pellegrino persiano. Nel corso del tempo, diversi membri della famiglia degli Shayba, custodi della Kaaba, e diversi altri uomini devoti si erano recati laggiù per ritrovarla. Ma erano stati tutti rapiti dalla felice terra dello Yemen: si erano sposati e avevano messo al mondo dei figli, e non erano più tornati.»
«Ma, precisamente, suo marito cosa aveva a che fare con quella chiave?»
«Non tutti i dettagli di quella storia mi sono chiari; so però che lui era convinto che si trattasse della suprema chiave, descritta nei libri degli Shayba come l’unica che può aprire qualunque porta. Non mi chieda in che modo! Le porte della Kaaba sono cambiate molte volte, ma quella chiave era benedetta e le apriva tutte! Gli storici riconobbero all’istante la suprema chiave nel disegno che mio marito aveva ereditato da suo padre, il quale a sua volta lo aveva ereditato dal proprio padre, fino al primo della famiglia degli Shayba giunto nello Yemen.»
«Ma suo marito cosa doveva fare con quella chiave?»
«Gli era stata affidata una missione, quella che tutte le famiglie devote della Mecca, le famiglie dei khuddàm, tramandavano di generazione in generazione: ciascun padre votava i propri figli a cercare la chiave perduta per riportarla alla Mecca. Mio marito diceva che suo padre, che era appunto uno degli uomini devoti trasferitisi nello Yemen, lo aveva esortato a tornare alla Mecca per ottenere il riconoscimento dell’appartenenza a quella nobile famiglia, e a rimettersi poi subito in viaggio in cerca della chiave rubata. Erano tutti convinti che la chiave suprema, o una sua copia esatta, fosse finita in Andalusia. Un antico viaggiatore andaluso era arrivato fino al villaggio di Salomone, nello Yemen, dove però si era verificato un disastroso terremoto che aveva distrutto tutte le case lasciando in piedi solo le porte. Il viaggiatore ne aveva raccolte alcune e le aveva portate in Andalusia: si diceva che fossero le porte incantate che si spalancavano al cospetto di re Salomone, e si aprivano con un’unica chiave. Utilizzando le toppe di quelle porte, il viaggiatore forgiò una chiave che era l’esatta copia della chiave suprema della Mecca, andata perduta.»
Lo sheikh Muzàhim si schiarì la voce.
«La testa di questa donna è piena di fantasie assurde. Crede a tutte le sciocchezze che raccontava suo marito. Quegli yemeniti hanno una rotella fuori posto, al tramonto masticano foglie di qat e poi farneticano di una chiave che apre tutte le porte, perfino quelle che separano il mondo dei ginn dal mondo degli umani.»
Io, che sono il Vicolo delle Teste, ammetto che quelle schermaglie tra Halìma e Muzàhim mi divertivano molto e mi elettrizzavano.
Halìma continuò: «Mio marito non era venuto alla Mecca per mettervi radici; questa città era solo una tappa nel suo viaggio. Ritrovare quella chiave era il suo unico obiettivo, in testa non aveva altro: un’ossessione che gli aveva trasmesso suo padre. Purtroppo, fu ucciso prima di poter comparire davanti al giudice incaricato di accertare la sua appartenenza a quella nobile famiglia. Il giorno della sua morte, Yusuf scalciò annunciando la sua presenza nel mio grembo. L’ho chiamato come suo padre perché, in lui, mio marito rivivesse.»
«Lei sospetta che suo marito sia stato ucciso da qualcuno del Vicolo delle Teste?»
«All’epoca, alcuni uomini dissero di aver visto il suo cadavere, sbranato dai cani selvatici! Ma la sua morte non è mai stata dimostrata. Non è mai stato ritrovato un corpo su cui io potessi piangere.»
«Lei non crede che sia morto?»
Halìma esitò prima di rivelargli ciò che pensava. Era riluttante a confidarsi con lui.
«No, non lo credo. Si trova da qualche parte nell’immensa terra di Dio. Ho sempre avuto la sensazione che fosse vivo. Gli uomini ossessionati non muoiono, perché a causa della loro ossessione non hanno mai vissuto.»
L’espressione scettica di Nasser la convinse ad aggiungere altri dettagli.
«La notte in cui scomparve, e naturalmente dividevamo lo stesso letto, io mi svegliai nelle tenebre più fitte. Nei giorni precedenti erano circolate voci su navi di pirati portoghesi che solcavano il mar Rosso e uomini che erano stati rapiti e portati a lavorare su quelle navi, e lui aveva interpretato la cosa come un segno del destino, un invito a ripartire.»
Lo sheikh Muzàhim rise tanto da mettersi a tossire, spargendo tutt’intorno una pioggerella di caffè al cardamomo. Poi esclamò: «Deve sapere, signor ispettore, che le allucinazioni degli abitanti della Mecca sono più salde delle loro montagne! Non si sono più liberati dal terrore di essere rapiti dai portoghesi da quando, nel 948 dell’egira, lo sharìf Muhammad Abu Namà radunò gli abitanti della Mecca e le tribù beduine del circondario per respingere l’assalto della flotta portoghese, ben ottantacinque navi da guerra arrivate a Dawair, vicino a Gedda. Da allora, se un giovanotto sparisce, tutti dicono che è stato rapito dai portoghesi, imbarcato sulle loro navi e spedito nella lontana terra d’Andalusia. Non è facile ammettere di avere come parente un demonio, che si è allontanato di sua spontanea volontà da questo luogo sacro! Chi altri, se non uno scellerato, o Satana in persona, potrebbe infatti decidere di abbandonare questa città in cui si avverte la presenza del sacro e si gode della vicinanza del Signore?»
Nel cuore di Halìma si risvegliò un antico dolore. Davanti ai suoi occhi passò la scena che si era svolta nella sua camera da letto: un rumore nel buio l’aveva svegliata, e lei, sposa novella, aveva cercato il calore del corpo del marito. «Pensai di scuoterlo, ma non riuscivo a muovermi, ero letteralmente paralizzata dalla paura. Così rimasi ferma, al buio, con gli occhi spalancati, a osservare quelle sagome nere che si aggiravano nella stanza. Strisciarono fino al letto e con un movimento repentino afferrarono mio marito, che non si era svegliato, gli misero un bavaglio sulla bocca, lo infilarono in un sacco e se lo portarono via. Io restai prigioniera di quell’incubo fino all’alba, quando trovai la forza di urlare, squarciando l’aria e facendo accorrere i vicini. Le loro mani si tesero per calmarmi, e mi trattennero quando cercai di correre in strada per inseguire mio marito. Tutti mi rivolgevano sguardi pietosi. Ma presto si rincorsero voci maligne secondo le quali gli angeli vendicatori avevano fatto a pezzi lo yemenita, dando in pasto il suo corpo ai cani, perché aveva avuto l’ardire di cercare la suprema chiave della Kaaba. Quella notte era scomparso anche il disegno della chiave, e non venne mai più ritrovato.»
Halìma tacque, e si girò verso il caffè, lì sotto nel vicolo: sul teleschermo scorreva il video clip di una canzone di Abd al-Magìd Abdallah. Per un momento io, Aburrùs, il Vicolo delle Teste, fui tentato di approfittare di quel silenzio per intervenire e spiegare come si erano svolti realmente i fatti quella notte, ma poi ci ripensai, non volendo facilitare troppo il compito di Nasser fornendogli indizi ulteriori per annodare i vari fili di quella storia.
«Ma qual è il nome della famiglia a cui suo marito diceva di appartenere?» chiese Nasser più per dovere che per vera curiosità.
«Per qualche motivo, mio marito aveva attirato su di sé la maledizione, e io ero terrorizzata al pensiero che potesse ricadere anche su mio figlio Yusuf. Perciò non ho mai tentato di scoprire il nome di quella famiglia. Siccome mio padre era solito chiamare mio marito Hugiubi, fu quello il cognome con cui decisi di registrare mio figlio all’anagrafe. E poi Yusuf, quando ha dovuto cercarsi uno pseudonimo per firmare la sua rubrica sull’Umm al-Qura, ha scelto quel nome stranissimo: Yusuf ibn Anaq, come omaggio al gigante Awag ibn Anaq.»
Le donne ciarlano, e mi mandano in bestia. Le trovo irritanti! Ho l’impressione che le mie teste si spacchino a causa del loro insopportabile chiacchiericcio!
È scesa la notte; per zittire Halìma cerco di rendere lo spettacolo già cupo delle mie case ancor più tetro.
Halìma rimase a osservare Nasser che usciva di scena abbandonando Aburrùs, non prima però di aver effettuato il consueto giro di ispezione intorno al giardino di Mushabbab. Poi anche lei abbandonò la sua postazione di eterna vedetta per dedicarsi ai consueti preparativi per una festa di nozze.
Appese come al solito lo specchio sulla porta della stanza, per truccarsi sfruttando la luce dei lampioni del vicolo. Le ciglia dell’occhio sinistro batterono in modo comico mentre passava il bastoncino del kohol, poi, a un tratto, ebbe la sensazione che qualcuno la stesse osservando nel buio. Non ebbe il coraggio di guardarsi intorno, atterrita al pensiero che, lì appostato, potesse esserci l’assassino venuto per ucciderla: lei sarebbe stata la prossima vittima!
Restò con il bastoncino del kohol a mezz’aria, e intanto le passava nella mente come una successione di fotogrammi il suo stesso funerale. Grazie a Dio, quel pomeriggio si era lavata: i capelli, raccolti sulla nuca, odoravano di sapone all’olio di oliva. Aveva anche fatto le abluzioni prima di infilarsi la divisa che le era stata inviata dall’organizzatore della festa, abbottonata fino al collo, nera, con due ali bianche da pinguino che le scendevano dai fianchi fino alle ginocchia.
Quindi, sul versante del rituale non aveva niente di cui preoccuparsi, era pronta ad affrontare la morte. Però, se l’assassino in agguato nel buio le avesse dato la possibilità di recitare la preghiera della notte, a cui avrebbe aggiunto due prostrazioni per il trapasso, e l’avesse uccisa mentre era inginocchiata, lei avrebbe incontrato il Signore pulita fuori e anche dentro. Il pensiero di morire in quella posizione scandalosa, come un animale, le faceva venire i brividi: i poliziotti l’avrebbero vista con il sedere per aria. Ma era proprio quella la via più breve per giungere in paradiso!
«O Dio, prendici quando siamo pronte!» Era la massima aspirazione delle sue nonne, e adesso capiva perché!
Halìma voleva pentirsi di tutti i suoi peccati, ma in quella circostanza, in cui una linea più sottile di un capello la separava dalla morte, non sapeva di cosa pentirsi. Ed ecco riaffiorare nella sua mente l’ombra apparsa ad Aburrùs nelle notti precedenti il ritrovamento del cadavere della donna, che lei aveva rimosso. Respinse subito quel pensiero molesto per concentrarsi sui suoi peccati di lingua. Ricordava bene quel che sua nonna diceva: «La lingua è una trappola che si apre sotto i piedi di noi esseri umani, facendoci precipitare nell’inferno più profondo.»
Le sarebbe stato impossibile pentirsi di tutte le parole sarcastiche che si era lasciata sfuggire. Invece, a un tratto, chissà perché!, si ricordò delle scarpe con i tacchi alti che le aveva donato una donna arrivata a bordo di un’auto di lusso, costata probabilmente più di tutte le case del vicolo messe assieme.
«Prega per Khàlid, il figlio di Nura» aveva detto la donna a Halìma, che in quel momento stava vendendo pezzi di ceretta fatta in casa con lo zucchero davanti all’ingresso del centro commerciale Ibn Daùd. La donna, dopo averle sussurrato quella frase all’orecchio, aveva fatto cenno all’autista di consegnarle una borsa, piena di scarpe, tutte numero 39.
Il piede piccolo di Halìma – un trentacinque – ballava dentro quelle scarpe, ma lei, senza perdersi d’animo, le aveva riempite di ovatta, e ora le indossava per andare alle sue feste di nozze, ancheggiando come un pavone. Ed era diventata la fornitrice ufficiale di scarpe delle ragazze del Vicolo delle Teste, alle quali le prestava senza alcun problema.
Halìma si chiese perché continuassero a venirle in mente pensieri così assurdi in quel momento supremo, in cui l’unica cosa sensata da fare era pronunciare una frase, un’unica, semplicissima, frase: la testimonianza di fede.
Improvvisamente, dal buio spuntò un uomo.
«Non c’è altro Dio all’infuori di Dio e Muhammad è il suo Profeta!» La testimonianza di fede esplose come un grido, prima che Halìma riconoscesse Muadh.
«Che Dio ti punisca, Muadh, mi hai spaventata.»
Lui non rispose. Fissava le ciglia folte e nere della madre di Yusuf rese ancor più scure dal kohol.
«Yusuf è in un posto sicuro e mi ha chiesto di badare a te!»
«Sia ringraziato Dio mille volte! Ha da mangiare, da bere? Dorme abbastanza?»
Tutti nel vicolo sapevano quanto Halìma fosse ossessionata dalla paura che il figlio non dormisse abbastanza.
«E la protesi al ginocchio come va? Quando lo vedi, dagli questo flacone, è acqua benedetta del pozzo sacro di Zamzàm su cui sono stati recitati i versetti del Corano, lo aiuterà a sentirsi più sereno e a dormire... E dagli anche questo...» Con tre dita tirò fuori da sotto la divisa un rotolo di banconote e lo infilò nella mano di Muadh.
Lui, notando come era vestita, la prese benevolmente in giro.
«Oh, zia Halìma, hai le ali e i tacchi alti!»
«Sono gli obblighi del mestiere.»
«Prestami un’abaya e un velo, voglio venire con te, fammi passare per una tua assistente.»
«I maschi non sono ammessi a questo matrimonio.»
«Fammi venire, non dirmi di no! Ti porto il samovar e tutto l’occorrente per il tè, do solo una sbirciatina dalla porta.»
«Ma come? Tu chiami i fedeli alla preghiera, hai memorizzato tutto il Corano e vuoi metterti a spiare le ragazze?»
«Ti accompagno solo fino alla porta. Voglio vedere come sono fatti questi alberghi a cinque stelle, voglio vedere La Mecca dall’alto dei suoi grattacieli. Ti prometto che terrò gli occhi bassi, a terra, non li alzerò per nessuna ragione.»
«Ah, Aburrùs è proprio finito, ormai le cose vanno tutte al contrario! Perfino voi, i figli dell’imàm della moschea, non siete più gli stessi!»
Muadh fissò lo sguardo implorante in quello di lei. Per la prima volta la vedeva come la tristezza personificata, con quegli occhi spalancati come due tombe che custodivano il marito, il figlio e l’intero vicolo. Lui sarebbe volentieri morto pur di giacere in quegli occhi accoglienti, facendo indietreggiare tutta la tristezza fino ai seni: fotografare quei seni, per Muadh, avrebbe voluto dire fotografare il paradiso promesso ai credenti, attraversato da fiumi di latte e di miele.
Halìma si abbassò il velo sul viso, senza dire né sì né no, e Muadh la seguì, lui nel buio totale e lei con quelle vistose e luccicanti fibbie sulle scarpe. In silenzio, attraversarono il vicolo tra il latrato dei cani randagi e la musica assordante dei video clip.
Salirono sul taxi di Khalìl, dietro, lei preceduta dall’odore del sapone all’olio di oliva. Con un sorriso maligno, Khalìl guidò nella notte della Mecca cercando una frase a effetto per provocare Muadh. Ma Halìma lo precedette.
«Come va il matrimonio? Tutto bene?»
Halìma aveva formulato la domanda che assillava tutto Aburrùs, il Vicolo delle Teste, da quando aveva assistito al matrimonio di Khalìl con Ramziya, la figlia di Yàbis lo Svuotafogne.
La domanda di lei lo turbò, non se l’aspettava. Pensò che quella donna era una roccaforte inespugnabile. Niente poteva abbatterla, né il ritrovamento di un cadavere, né la sparizione del figlio o del marito potevano distoglierla dai suoi doveri quotidiani: eccola lì, in bilico sui tacchi e con gli occhi truccati, che andava a una festa di nozze e chiedeva notizie del suo matrimonio.
Khalìl rise.
«Zia Halìma, da quando l’ho rispedita a casa di suo padre, non ho più posato gli occhi su Ramziya. E da allora vivo in questo taxi.»
Stavano attraversando il quartiere di Zàhir. Nella voce di Khalìl si avvertiva un certo rammarico.
«Comportati da uomo, Khalìl. È peccato tenerla sulla corda. Ricordati che Dio potrebbe maledirti per questo!»
«Per favore, zia Halìma, non rendermi la situazione ancor più difficile parlandomi di maledizioni... del resto, io sono invincibile, ho sconfitto perfino la malattia. I medici negli Stati Uniti hanno gridato al miracolo. Mi avevano dato per spacciato dopo che il cancro mi aveva distrutto lo stomaco, nonostante l’intervento e la chemio.»
Nello specchietto retrovisore Khalìl si guardò i capelli, diventati, dopo la chemioterapia, ispidi come paglia.
«Ma io ero determinato a lasciare Izraìl a mani vuote. L’ho combattuto con latte e aglio, aggrappandomi alla vita come una pulce alla schiena di un toro. Bevevo boccali interi di quella magica pozione, e una mattina mi sono svegliato e il cancro era sparito: quello è stato il mio miracolo! Quando c’è voglia di vivere, perfino il latte con l’aglio può fare miracoli. Ma adesso niente ha più senso, perché Azza mi ha fatto riammalare. Anche se Ramziya mi desse da bere un intero pozzo di latte e aglio, non servirebbe a niente. Azza distrugge tutte le mie cellule, seppure risanate.»
Il viso di Khalìl assunse un’espressione amareggiata. Era di dominio pubblico che la chemioterapia a cui si era sottoposto negli Stati Uniti lo aveva reso sterile. Lui si era sentito come gli eroi coraggiosi del cinema quando aveva confidato quel segreto al padre di Ramziya, il giorno in cui era andato a chiedere la mano della ragazza. Gli aveva detto: «È tua figlia che deve scegliere! Se vuole dei bambini, allora non è giusto legarla a un uomo come me. I medici mi hanno tolto questa possibilità. Avrebbero potuto prelevarmi dello sperma e congelarlo, così avrei avuto almeno la speranza di avere figli in futuro, e invece non l’hanno fatto. Mi hanno sottoposto alla chemio senza nemmeno informarmi degli effetti collaterali. L’ho saputo dopo!»
Con quei capelli così sottili e fragili aveva l’aria di un bambino indifeso. Faceva tenerezza. Era un miracolo che gli fossero ricresciuti dopo la chemioterapia, e da allora lui li trattava come fossero i suoi bambini; ogni notte, prima di andare a letto, li ammorbidiva con l’olio e li massaggiava con il Minoxadil. E per non danneggiarli evitava di portare lo shimagh, il tradizionale copricapo. Spendeva per quei pochi capelli molto più di quanto spendesse per tutto il resto del corpo. Corpo che lo aveva tradito accogliendo quel mostruoso cancro.
Quel giorno, in piedi di fronte alla casa dello Svuotafogne, con tutto il vicolo che origliava, Khalìl aveva descritto minuziosamente il modo in cui il suo sperma avrebbe potuto essere congelato, pur sapendo che lo Svuotafogne non avrebbe capito niente di quella spiegazione così dettagliata. Quell’uomo semplice aveva detto soltanto, conciliante: «Conosco mia figlia, so che non farà obiezioni. Del resto, chi siamo noi per opporci alla volontà divina? E poi, non si può mai sapere! Una donna indiana di settant’anni è rimasta incinta. Se Dio vuole, perfino da una mammella di pietra può scorrere il latte.»
Quelle parole avevano fatto infuriare Khalìl, e gli avevano fatto desiderare di punire il padre e anche la figlia per una tale sottomissione fatalistica al destino. Aveva sposato la ragazza, ma la prima notte di nozze, mentre Ramziya avanzava verso la camera da letto, lui l’aveva fermata sulla porta.
«Tu entrerai in questa stanza con me. Ed entrerai nella tomba senza aver avuto un figlio, come un legno rinsecchito. Io non posso dartene, la tua presenza qui non significa niente per me, sei solo un giocattolo con cui voglio divertirmi!» le aveva detto, sentendosi oltraggiosamente stupido.
«Sarà come Dio vuole. Sia fatta la volontà di Dio» aveva replicato Ramziya. Una risposta che sapeva di marcio, e che lo aveva mandato letteralmente in bestia. Anche lei ripeteva sempre quelle parole come un disco rotto, esprimendo la stessa fede cieca del padre e la sua stessa totale sottomissione alla volontà divina.
Halìma disse: «Non mostrarti ingrato, Khalìl. Non prendere a calci la fortuna. Come dice il proverbio, prima raggiungi il fondo e poi potrai dire che è catrame.»
Khalìl si sentiva a disagio in presenza di Halìma, così, per distrarla, le indicò un complesso di grattacieli sulla destra.
«Guarda lì, sono le quarantaquattro torri Sayf, astronavi gigantesche piene di luci, che hanno preso il posto del monte Dabba e del castello turco.»
Muadh intervenne: «È l’ossessione di Yusuf. Da quel monte, che oggi è completamente spianato, uscirono i cavalli all’inizio dei tempi, e dalle sue viscere dovrà spuntare, alla fine dei tempi, la bestia che, con un colpo di coda, distruggerà la terra, dando così inizio al giudizio universale. Yusuf scrive continuamente di come quel castello, costruito in cima al monte dai turchi ottomani un centinaio di anni fa, sia stato spazzato via dal progresso, malgrado le proteste ufficiali della Turchia e gli appelli rivolti da quel paese all’Unesco e ad altre organizzazioni internazionali deputate alla difesa del patrimonio storico.»
Khalìl aveva l’aria di essere stato punto da uno scorpione.
«Tu, brutto figlio di un... imàm! Sei in contatto con Yusuf?»
Muadh ignorò l’insulto e disse con tono di superiorità: «Non leggi i suoi articoli? Ha scritto che hanno promesso di ricostruirlo su un altro monte, esattamente com’era, con i sotterranei e i passaggi segreti, e con le casse di munizioni degli ottomani chiuse con catene di ferro e giganteschi lucchetti. Hanno detto che rimetteranno a posto anche gli armamenti, compresi i cannoni arrugginiti che da tre quarti di secolo non sparano un colpo e ospitano colonie di topi.»
Khalìl fissò Muadh, irritato per quella risposta evasiva. Cercando di provocarlo, domandò: «Azza è con lui?»
Quell’insinuazione mandò su tutte le furie Halìma, che esplose. «Mio Dio, proteggici! Sei proprio un demonio, Khalìl. Tieni a freno la lingua. Non rovinare sempre tutto!» Ma, subito dopo, guardò Muadh negli occhi in cerca di una risposta. Perché non aveva considerato quell’eventualità?
Muadh mise fine a quei sospetti, dicendo freddamente: «La principessa è ancora addormentata nella cassa di legno di sandalo in cima alla torre del castello, da dove faceva l’occhiolino al principe intrecciandosi i capelli e profumandoli con rose e canfora.»
«La canfora fa diventare sterili» replicò Halìma.
«No, la canfora è menzionata nel Corano come uno dei profumi delle fonti del paradiso. La principessa, dicono, sta ancora aspettando il pasha turco che l’ha imprigionata lassù per costringere suo padre, lo sharìf, ad arrendersi.»
Halìma continuò: «Ogni figlio di Adamo è sempre stato libero di scegliere se cercare la sua Eva nelle fortezze dei turchi, o nei seminterrati dei sensali, o nelle torri dei colombi.»
Per una frazione di secondo, Khalìl sospettò che volesse alludere alla sua relazione clandestina con la sarta turca. Halìma aggiunse: «Credimi, noi figlie di Eva, alla fine, siamo tutte uguali: fortunato chi ottiene la nostra tenerezza di giorno e divide con noi il letto di notte.» E concluse: «Quanto alle casse, solo Dio sa cosa c’è dentro!»
Khalìl si girò verso Muadh e, sempre a titolo di provocazione, gli chiese: «Continui ancora a cercare nelle tombe? Cosa ti confessano i morti quando gli punti il flash addosso?»
Alludeva alla sua attrazione per le foto antiche. Muadh rispose a tono: «Che i nostri rifiuti aumentano in modo esponenziale, attraendo i corvi. Si dice che ospitiamo la più grande colonia di corvi esistente sulla terra.»
Halìma si intromise per allentare la tensione.
«Volete sapere una cosa? L’ispettore Nasser diventa ogni giorno più sospettoso, è sempre lì nel vicolo a fare il ficcanaso... e vi sta cercando!»
Si pentì immediatamente di quella frase. Provava pietà per Khalìl, che si era fatto scuro in volto. Lei non riusciva neanche a immaginare che qualcuno dei ragazzi del vicolo potesse avere a che fare con l’omicidio. Per cancellare l’effetto di ciò che aveva detto, esclamò: «Sono i miracoli che avvengono in questo 2007! Guardando la televisione, gli uomini possono tranquillamente assistere a un omicidio, come se si trattasse di un intrattenimento qualunque, possono godersi lo spettacolo sedendo al caffè e fumando il narghilè.»
Ma il disappunto di Khalìl era evidente. Ovunque andasse, si sentiva ripetere quella frase: «L’ispettore ti sta cercando.»
Nel taxi scese un silenzio triste, ognuno di loro rincorreva le proprie paure.
Muadh pensava ai significati nascosti dietro parole solo in apparenza chiare, se li sentiva sulle labbra densi come miele.
La macchina affrontò la salita di Hafair. Khalìl si sentiva vuoto e nudo come il monte Omar, che sorgeva alla sua sinistra, ed era stato spogliato delle sue antiche case, tutte rase al suolo da quei bulldozer giallo fosforescente acquattati in attesa del mattino, in attesa che atterrassero i dischi volanti sui grattacieli svettanti nel cielo.
«Che Dio ci salvi!» esclamò Halìma «Non passa giorno, alla Mecca, senza che sparisca un’intera montagna. Dove sono finite le case che un tempo sorgevano su questa? È diventata irriconoscibile!»
«Il progresso le ha spazzate via... e poi erano così tristi! Al loro posto sorgerà il Billion Ground. Dicono che sui monti della Mecca svetteranno i grattacieli più alti del mondo.»
«Più alti dei minareti della Sacra Moschea?»
Muadh si accorse dello sguardo turbato di Halìma.
«Ci sono formidabili piani di sviluppo per questa zona. Miliardi e miliardi di riyàl vengono pompati fin qui ogni santo giorno che Dio manda sulla terra. Le multinazionali sono stati nello stato, non soggetti alle leggi nazionali. L’ultimo contratto firmato dalla Elaf Ltd prevede investimenti per tremila miliardi su questo monte, solo per cominciare. Quando tutto sarà completato, lo spettacolo che si offrirà agli sguardi offuscherà persino il fulgore di Manhattan: la valle di Ibrahim risplenderà di luci. Credimi, se qualcuno di Aburrùs si avventurerà fuori dal vicolo, in futuro, non riconoscerà il resto della città e penserà di essere finito a New York.»
«Che eresia! Paragonare una città di Bush con la Città Santa. Gira a destra, gira!»
Khalìl girò a destra, verso il tunnel che portava al palazzo reale.
«Questa è la globalizzazione, zia Halìma!» Poi aggiunse ironico: «Prendi me, ad esempio! Ho un brevetto di pilota conseguito negli Stati Uniti, sono qualificato a livello internazionale, eppure sono il genero di uno svuotafogne costretto a guidare un taxi. Le compagnie di volo private Sama, Ama e Nas sono la mia unica speranza...»
«Che Dio ci assista e rafforzi la nostra fede!»
Muadh puntò il suo sguardo a raggi X sul cranio di Khalìl. Se gli avesse scattato una foto da dietro, sarebbe apparso enorme, e per Khalìl quella sarebbe stata la conferma che lui era molto più in alto e aveva molto più cervello rispetto a tutti gli altri del vicolo.
Quell’uomo era convinto che un solo computer a bordo di un aereo valesse più di tutti i cervelli di Aburrùs messi assieme. Gravava la tecnologia di una responsabilità enorme, in un vicolo di analfabeti, che in ogni caso avrebbero continuato a ridicolizzarlo. «Khalìl! Ha un brevetto di pilota per volare in cielo, e fa il tassista!»
«Chi è la cantante che si esibisce? Discovery o Qamari Hafair?» chiese Khalìl a sorpresa, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano.
Halìma rispose ridendo: «Questa notte va di scena l’élite della Mecca. Il ricevimento è in cima all’Hotel Sulgiàn. Lo sposo è il segretario dello sheikh Sabkhani.»
«Lo sheikh Sabkhani? Il presidente del consiglio di amministrazione della Elaf Ltd...? Quella società possiede tre quarti della Mecca e fa parte di una rete di investitori che ha il potere, appellandosi al progresso, di far sgombrare e abbattere persino le antiche case che sorgono all’interno della cintura sacra, intorno alla Grande Moschea.»
Muadh, captato il nome dello sheikh Sabkhani, capì che quella era la direzione giusta.
«Per l’occasione hanno ingaggiato Ahlàm, la cantante del Bahrein, e il suo gruppo» spiegò Halìma eccitata.
«E a una festa così prendono un personaggio folkloristico come te, zia Halìma, per versare il tè e il caffè?»
«Cosa c’è di meglio del moderno mescolato alla tradizione? Io sono il folklore in mezzo a un esercito di cameriere efficienti abituate a servire negli alberghi a cinque stelle.»
Khalìl fermò il taxi proprio davanti all’ingresso dell’albergo. Con l’abaya svolazzante che copriva la divisa, Halìma scese per infilarsi svelta nella hall, seguita da Muadh. Respirò profondamente prima di entrare nell’ascensore e permettere all’addetto, in uniforme rossa e bianca, di schiacciare il bottone: quell’angusto contenitore la metteva in agitazione. Salendo i trenta piani del grattacielo, Muadh pensò che stavano ascendendo verso un cielo a cui le persone come lui non avrebbero potuto aspirare neanche dopo morte. Piani su piani e suite su suite che si affacciavano sul cortile interno della Sacra Moschea, con prezzi che oscillavano dai venticinque ai cento milioni di riyàl. Raggiunto l’ultimo piano, Halìma si avviò verso il paravento di legno che nascondeva la porta aperta della sala del ricevimento, fulminando con lo sguardo Muadh, che si fermò a malincuore: sapeva che lì dietro c’era un paradiso proibito, e non osò avvicinarvisi.
Si rammaricò di non aver preso con sé l’abaya di una delle sue sorelle, con cui avrebbe potuto introdursi nella sala, ma poi pensò che, comunque, non avrebbe avuto il coraggio di entrare, per paura che Halìma si arrabbiasse. Non riusciva a decidersi ad abbandonare quel paradiso. Senza farsi notare dalla guardia della vigilanza, una donna velata, fece qualche passo indietro e andò a piazzarsi in un angolo appartato, da cui riusciva a osservare, non visto, le donne che arrivavano. Avevano acconciature complicate e risplendevano come bambole di porcellana. Le osservava attentamente, cercando non un volto quanto piuttosto un segnale, un gesto del corpo che fosse riconoscibile. Come tutti gli uomini, anche lui era in grado di leggere il linguaggio dei corpi di quelle donne, nascosti sotto le abaya. Si era allenato con le sue sorelle. Era in grado di riconoscere Saadiya tra mille altre ragazze velate. O Azza mentre fuggiva pensando di essere al sicuro sotto la sua abaya nera. Molte volte l’aveva incrociata nel vicolo durante una di quelle sue fughe notturne, ma non lo aveva mai detto a nessuno. All’inizio pensò di averla solo immaginata, ma poi capì che non si trattava di quello. Era Azza in carne e ossa! L’aveva riconosciuta dal dito indice sollevato come la coda di uno scorpione. Era il gesto che faceva quando disegnava, oppure quando si sentiva al sicuro, padrona della situazione.
La sua sparizione era un nervo scoperto per il vicolo, e lui, Muadh, non riusciva a smettere di chiedersi dove potesse essere finita, nell’infinito spazio tra la nostalgia, l’obitorio e il vasto mondo di Dio! Muadh ripensò al cadavere della donna ritrovato nel vicolo. La sera prima della scoperta, una Cadillac nera, con a bordo un’assistente sociale, si era fermata all’imbocco del Vicolo delle Teste. Quante nuvole nere si erano fermate all’ingresso del vicolo quella notte?
Muadh era ipnotizzato dal rullo dei tamburi, ma anche dallo scintillio dei vetri colorati e delle pietre preziose. Da dove proveniva tanta magnificenza? Perfino il giardino di Mushabbab, il gioiello di Aburrùs, sfigurava davanti a tutte quelle cose preziose! Dove nascondeva quelle donne seminude, La Mecca? Donne fantastiche, visioni più che corpi in carne e ossa. Si stavano materializzando sotto i suoi occhi le fate delle fiabe delle nonne. Ricordava ancora la frase con cui in quei racconti si esprimeva la propria ammirazione al cospetto di una bella donna: «Sei un’apparizione divina o una creatura vera?»
Muadh, inebriato dalla vista di quelle donne fantastiche, non si accorse subito di quella che era spuntata da dietro il paravento e stava andando incontro alle altre che arrivavano. Nel passargli accanto, sollevò un lembo del velo che le copriva il viso, lasciando vedere la bocca. Poi si girò, e quel movimento repentino fece sì che i capelli si sciogliessero, ricadendole sulla guancia sinistra: a Muadh venne in mente la colomba che piega il capo su quello del compagno.
Un secondo dopo, la donna era sparita, ma lui aveva immagazzinato la sua immagine.
Quando arrivò la guardia a scuoterlo, Muadh si girò incamminandosi verso gli ascensori. Fu allora che vide un piedino, che calzava una scarpa con il tacco alto, sparire oltre una porta in fondo al corridoio. Senza pensarci su, corse verso la porta, tutto concentrato sulla scarpa con la fibbia di cristallo, ma quando fu nella stanza che si apriva dietro quella porta si trovò avvolto dal silenzio più totale.
Avanzò fino a un’altra porta e la aprì, e fu accolto dal silenzio di un’altra sala. Seguendo la traccia di una luce soffusa e la sottile scia di un profumo che conosceva anche se non ne ricordava il nome, entrò in un ascensore foderato di damasco rosso. Mentre l’ascensore saliva dall’ultimo piano all’attico, Muadh si sentiva il cuore in gola e le tempie che gli scoppiavano; tutto il suo essere era concentrato sullo spettacolo che presto gli sarebbe apparso davanti ma, quando l’ascensore si aprì, fu attratto da un’orchidea, al centro della sala, un cubo di ghiaccio che assorbiva tutte le sue energie. Il lento pulsare delle cose intorno a lui gli dava la sensazione di muoversi non nella sala bensì nel grembo della donna che lo aveva attirato in quell’attico. Pallido come un morto, si avvicinò a una vetrata che si affacciava sul cortile interno della Sacra Moschea. Una porta laterale, che aveva pensato conducesse all’esterno, lo introdusse in un grande studio.
Lo sguardo di Muadh si concentrò su un tavolo. Tra alcuni aspersori di acqua di rose giaceva, come se aspettasse proprio lui, l’amuleto d’argento. Lo conosceva bene, quell’amuleto: una scatola a forma di mezza luna su cui erano incise delle losanghe. Altroché se lo conosceva! Mushabbab lo aveva incaricato di andare a portarlo nella cassetta di sicurezza numero 27 nel deposito accanto alla Sacra Moschea. Muadh era sbalordito. Come era finito in quel posto? Forse Mushabbab aveva ragione: c’era qualcosa in quell’amuleto, per trovarsi lì doveva per forza avere un ruolo in un complotto!
Certo, poteva essere una copia, ma Muadh ne era rapito, come la prima volta che il suo sguardo si era posato su quell’oggetto. Con un gesto suicida, afferrò l’amuleto e scappò via, andando a sbattere contro porte e pareti sino ad arrivare a infilarsi nell’ascensore. Quando ne uscì, si ritrovò nella hall, immersa nel silenzio, con il condizionatore al massimo. Come in trance, Muadh uscì in strada, stringendo l’amuleto nella mano.