Madrid 2007
«Nura!»
Quel lieve tremore, quell’attimo di esitazione che la coglieva sempre prima di rispondere, lo spinsero a dubitare che si chiamasse davvero così. Un eccitante alone di mistero circondava quella ragazza, accendendo la sua immaginazione che correva alle donne passionali dell’antica Andalusia e ai loro amori segreti. C’era qualcosa, nel viso di lei, che lo ossessionava anche dopo che aveva terminato il suo turno come guardia del corpo. Per lui si trattava di un diversivo, una variazione nella monotonia dei suoi clienti abituali. Quella ragazza non poteva certo essere paragonata ai personaggi per i quali era solito lavorare, che spesso usavano nomi falsi per nascondere un passato insondabile di crimini o di atti di eroismo.
I suoi colleghi più anziani raccontavano incredibili storie di persone che, per fingersi importanti, assumevano una guardia del corpo, o che, con una lunga storia alle spalle, rischiavano in ogni momento di finire ammazzati da qualcuno che aveva con loro antichi conti da regolare.
L’agenzia per cui lui lavorava era conosciuta perché ingaggiava il meglio del meglio: uomini con un fisico gigantesco, come il suo, che avevano superato un accurato esame del loro passato. Certo, i crimini di guerra erano difficili da rintracciare, ma una fedina penale pulita era una condizione imprescindibile, come anche la massima competenza in fatto di arti marziali e armi automatiche.
Lui – un arabo immigrato in Spagna con una laurea in filosofia conseguita a Beirut – era riuscito ad acquisire tutte queste competenze grazie alla lunga guerra civile nel suo paese. Era fuggito dal Libano, dove i titoli accademici erano il miglior modo per morire di fame, ma si era trovato ad affrontare lo stesso destino in occidente, dove, oltretutto, aveva dovuto cambiare nome. Si faceva chiamare Rafa perché nessuno riusciva a pronunciare il suo vero nome, Rafi’, con quella lettera finale così particolare, la ayn, caratteristica della lingua araba e da alcuni descritta come un conato di vomito. In Spagna si era ben presto reso conto che ciò che aveva studiato all’università non gli sarebbe servito a niente, in mezzo a tutti quei milioni di immigrati. Aveva capito che doveva cambiare pelle, sangue, nome e identità per andare incontro alle esigenze degli altri.
In quella mattina piena di sole, con tante persone nel giardino e sul terrazzo del Ritz Hotel dove le poltroncine bianche di bambù e i tavoli immersi nel verde rendevano più luminosa e allegra l’atmosfera, Rafa si sistemò vicino alle scale che portavano alla hall, per avere una visuale perfetta. La sua cliente, Nura, seduta di fronte alla propria cameriera personale, assaggiava tapa e sorseggiava caffè, guardando distrattamente le piante ornamentali e gli altri ospiti dell’albergo. Il suo viso gli ricordava il proprio, quando si guardava allo specchio. Ogni mattina rimaneva sbalordito davanti a quella faccia estranea, a quella maschera che nascondeva i suoi lineamenti libanesi: ogni volta gli sembrava di guardare uno sconosciuto, con quei muscoli perfettamente scolpiti, i capelli tagliati come quelli dei marines e quel lampo negli occhi che lo faceva sembrare più giovane dei suoi quarant’anni, nonostante tutte le delusioni vissute.
Ma quel nome, Nura, era molto più di una maschera. Dal suo punto di osservazione, gli sembrava di vedere il passato di quella donna allungarsi come un’ombra, che dalla tempia le scendeva fino al collo e ai seni. In qualche modo, Rafa sentiva che stava guardando non una ma due persone, ognuna delle quali era impegnata in un’operazione di distruzione dell’altra; la perfezione di quella donna consisteva nella totale inconsapevolezza della sua duplicità, nell’istintiva volontà di ribellione sotto una parvenza di sottomissione.
Sembrava provenire da un’altra era, come il prezioso mosaico greco, databile tra il terzo secolo avanti Cristo e il quinto secolo dopo Cristo, che decorava la parete lungo le scale, dietro di lei; come se, per qualche oscura ragione, fosse stata catapultata in quell’albergo – il più lussuoso di Madrid – in un’epoca a lei estranea, e ora aspettasse soltanto un cenno per rituffarsi nel passato.
Rafa, constatando l’interesse che Nura suscitava negli altri ospiti, pensò che le donne arabe possedevano un incredibile fascino, affinatosi nel corso di migliaia di anni. Erano stravaganti e nello stesso tempo nobili, eppure inavvicinabili per la maggior parte degli uomini: i loro principi e i loro re vivevano ormai soltanto nelle fiabe. Nel mondo odierno non riuscivano più a trovarne, per questo gli arabi erano diventati una razza maledetta, molti di loro in tutto il mondo avevano perso l’aureola che in passato li aveva resi speciali ed erano diventati ordinari, o meno che ordinari.
Rafa distolse lo sguardo da Nura; se fosse stata solo lei, con la sua presenza, a dominare la scena, avrebbe smesso di essere la persona minacciata, da proteggere, e sarebbe diventata lei stessa una minaccia, come era accaduto qualche giorno prima, quando aveva perso conoscenza, o meglio, non si era svegliata al mattino, passando direttamente dal sonno al coma. Avevano dovuto chiamare un’ambulanza e portarla in ospedale, dove era rimasta in coma per settanta ore, dopodiché si era svegliata come se non fosse successo niente. I medici avevano constatato l’assenza di conseguenze ed escluso la possibilità di qualsiasi complicazione, e l’avevano dimessa. Era semplicemente tornata indietro dalla morte.
Ora sembrava il ritratto della salute, fresca come una rosa come quando riemergeva dalla sua Jacuzzi, senza nessun legame apparente con il fantasma che solo qualche giorno prima avevano dovuto ricoverare d’urgenza.
Nura si alzò di scatto e Rafa si affrettò a seguirla, fedele al suo compito di guardia del corpo, anche se era più simile a un inutile accessorio. Non la perdeva di vista un istante: a volte le andava dietro, a una certa distanza, altre volte invece le si avvicinava per coprirla, oppure la precedeva, facendole largo tra le persone che affollavano gli spazi comuni dell’albergo, creando intorno a quella semplice ragazza un alone di mistero.
Lungo il corridoio che conduceva alla suite royal dove Nura alloggiava, Rafa rivolse un’occhiata ai fiori, ai quali era allergica, che le mandava, senza alcun bigliettino di accompagnamento, un amante assente, e tuttavia presente in ogni sguardo di lei, nel suo modo di schiudere le labbra voluttuose e di abbassare dolcemente le palpebre davanti al mondo: un ripiegamento in se stessa, o una fuga in qualche irraggiungibile rifugio interiore, da cui riemergeva con uno sguardo smarrito che dava la misura del senso di estraneità che provava di fronte alle cose che aveva intorno.
Rafa si chiedeva se il coma non fosse stato un tentativo di sottrarsi proprio a quel senso di estraneità, una pausa di riposo che si era presa da tutti quei mazzi di fiori che le arrivavano in continuazione, dai camerieri e dalle guardie del corpo che assillavano una ragazza poco più che ventenne che occupava una suite da almeno cinquemila euro a notte. Un albergo lussuosissimo nel cuore dell’antica Madrid, a pochi passi dai più importanti musei della città, il Prado, il Reina Sofia e il Thyssen-Bornemisza, dal Teatro Español e dal Teatro Real.
Rafa attese pazientemente nel corridoio, davanti alla propria stanza, adiacente alla suite di Nura, pronto a scattare non appena lei fosse apparsa e a seguirla poi come un’ombra nella lunga passeggiata mattutina per le vie di Madrid. Lavorava per lei già da due mesi, e non gli era difficile compiacerla, del resto era abituato agli arabi del golfo che si muovevano tutti insieme, in corteo, per non passare inosservati.
Appena l’aveva vista, e si era reso conto della sua giovane età, aveva capito di essere stato ingaggiato per recitare in uno show, dove la ragazza avrebbe interpretato il ruolo della persona importante... ma anche lui recitava alla perfezione la parte che gli era stata affidata. In macchina si sedeva davanti, senza mai perdere d’occhio la strada, e scendeva prima che si fossero fermati, per andare ad aprirle la porta, e quando lei passeggiava o entrava in un negozio o in un locale lui la precedeva per controllare che tutto fosse in ordine.
Questo fino alla mattina in cui, con un semplice sorrisetto, Nura gli aveva strappato la maschera.
Arrivati al Prado e scoperto che era chiuso, lei si era seduta sul basamento di una colonna e lui era rimasto a una certa distanza: alla sua destra il traffico intenso, alla sua sinistra il verde, il silenzio e Nura. Guardandola senza farsi notare, Rafa si era chiesto: perché sto qui a fare la guardia a questa donna, cos’ha di così prezioso? No, non si trattava di quello, Nura non mostrava di avere una passione particolare per i gioielli, lei era diversa da tutte le altre donne dello sheikh – l’Imperatore, come lo chiamavano tutti, perché era a capo di un impero finanziario che si estendeva in tutto il mondo – a cui Rafa aveva fatto da guardia del corpo in precedenza. La solitudine di cui si circondava lo aveva colpito: sembrava una piccola gazzella imprigionata in una teca di cristallo!
Quel giorno era di umore scivoloso. Nura cambiava di continuo; come una goccia di mercurio, che non può essere afferrata, anche lei non poteva essere imprigionata in uno stato d’animo definito. Ma Rafa riusciva a decifrarla, anche dietro la sua solita risatina, anche in quel momento, mentre, lì seduta, dominava la scena lasciando il Prado sullo sfondo.
Non ci sarebbe stato niente di male se Rafa si fosse seduto vicino a lei, tuttavia aveva preferito rimanere in piedi. Il suo sesto senso gli diceva che era meglio tenersi sulla difensiva. La osservava, fingendo di guardare altrove: aveva un viso delicato, da adolescente, e sopracciglia folte dall’arco perfetto.
All’improvviso, Nura era uscita dal suo mutismo e gli aveva chiesto a bruciapelo: «Rafa, lei è fuggito dalla guerra ed è venuto qui per fare la guardia a noi?»
Era la prima volta che gli rivolgeva la parola. Sentire il proprio nome, così come lo pronunciavano gli stranieri, gli aveva fatto uno strano effetto.
«In realtà mi chiamo Rafi’» aveva detto, e poi aveva aggiunto: «Sono sopravvissuto alla guerra civile, ma ho preferito partire dopo aver perso l’ultima cosa che mi legava al mio paese, il Libano.»
Subito aveva distolto lo sguardo, imbarazzato. Aveva parlato troppo, e si era reso patetico! Per poco non le aveva detto anche che era stata la morte di sua madre – che aveva lottato per anni, con lui al fianco, contro un cancro – a spezzare quell’ultimo filo. Sarebbe stato un errore gravissimo, dal punto di vista professionale. Nura, comunque, non aveva insistito, e la cosa era finita lì.
Dopo quella domanda e quella risposta, lo show della guardia del corpo e della signora da proteggere era stato interrotto. Tacitamente si erano accordati sul fatto che lei non aveva bisogno di niente del genere. Rafa la lasciava girare liberamente e mescolarsi tra la gente e la seguiva a una certa distanza, senza perderla di vista ma senza dare nell’occhio. E, dopo la solita lunga passeggiata, quando lei si fermava a un caffè, come stava facendo ora, lui sceglieva un tavolo alle sue spalle, non troppo vicino, per avere la situazione sotto controllo.
«Crede davvero di proteggermi stando seduto laggiù?»
Il suo secondo attacco lo colse di sorpresa.
Constatando l’imbarazzo di Rafa, Nura aggiunse: «Da cosa mi protegge?»
«Lei di cosa ha paura?»
I loro sguardi si incrociarono per un attimo, ma lei abbassò immediatamente gli occhi, ricordando a Rafa un uccellino che una volta era andato a sbattere contro la sua macchina e si era spezzato il collo. Si affrettò a scusarsi.
«Mi perdoni, signora... Non intendevo...»
Lei rivolse lo sguardo altrove, e a lui morirono le parole sulle labbra.
«Solitamente per che tipo di persone lavora?»
Con riluttanza, Rafa rispose: «Politici, personaggi facoltosi... proteggo i loro beni.»
«E i criminali?»
Che razza di domande fa?, si chiese Rafa. Cosa significano?
«Ci sono anche quelli!»
«E da cosa li proteggete?»
«Dal loro passato, principalmente.»
La risposta gli era uscita spontanea. Il sorriso ironico di lei lasciò il posto a un sospiro, che lo fece sentire in imbarazzo. Dopodiché, Nura si chiuse in se stessa assumendo la sua consueta espressione assorta.
Come sarebbe bello se, incontrando il proprio passato per caso, in strada, tu potessi semplicemente salutarlo per poi girarti e andartene, invece no, il passato è come una raffica di mitragliatrice o una cintura imbottita di tritolo, che se non ti uccide ti devasta, pensava. Non sarebbe tutto più semplice se invece ti voltasse le spalle e se ne andasse, fingendo di non averti visto?
«Mi scusi...» Rafa si sentiva ridicolo. Probabilmente, avrebbe passato l’intera mattinata a scusarsi perché si era permesso di parlare.
Lei lo interruppe chiedendogli: «Le guardie del corpo devono essere pronte a morire per difendere il loro cliente?»
Quella domanda lo indispettì.
«Per fortuna, di solito non c’è bisogno di arrivare a tanto!» Avrebbe voluto dire: è come girare una scena di un film. Invece aggiunse: «L’ideale sarebbe preservare sia la nostra vita sia quella del cliente.» Ma quelle parole suonavano così retoriche! Allora precisò: «In realtà, io penso che la nostra presenza accanto a una persona serva più che altro a trasmettere un messaggio: attenzione, signori, questa persona è protetta da professionisti pronti a reagire a qualsiasi aggressione. Generalmente, il messaggio giunge a destinazione, ed è sufficiente a tenere lontani i malintenzionati.»
«Quindi la vostra presenza è un indicatore dell’importanza della persona?»
Rafa rifletté, prima di rispondere.
«Forse più una dichiarazione di possesso... o di tutela.»
Quelle parole, “tutela” e “possesso”, sembravano alludere alla sua relazione con lo sheikh, e la cosa non le piacque.
«Voi proteggete dalla morte?»
Rafa sorrise.
«Ronald Reagan venne colpito nei quattro metri che lo separavano dalla sua auto superblindata, mentre era circondato dalle guardie del corpo meglio addestrate del pianeta. Kennedy fu assassinato nel corso di una parata che si svolgeva sotto strettissima sorveglianza dei servizi di sicurezza. E anche Anwar Sadàt fu assassinato durante una parata militare. Rafìq Harìri è morto saltando in aria con la sua auto, equipaggiata con rivelatori di missili. E a Benazir Bhutto hanno sparato in testa a distanza ravvicinata mentre era, anche lei, circondata dalle sue guardie del corpo... Dire che noi proteggiamo dalla morte è solo usare una frase a effetto, poiché gli omicidi più incredibili avvengono nei luoghi meglio protetti. Forse è impossibile difendere una persona dalla rabbia o dall’odio di un nemico!»
Rafa stesso era turbato, e si affrettò a scusarsi.
«Mi perdoni, signora. Ci sono delle regole che non possiamo permetterci di trascurare... una di queste è di non importunare i clienti con le nostre chiacchiere.»
«Lei ha una laurea in filosofia e fa un lavoro che le impone di restare muto?»
Lo disse alzandosi in piedi. Lui la seguì.
Nei giorni seguenti Nura si chiuse nel più assoluto riserbo. Così Rafa, per cercare di capire chi fosse veramente, cominciò a prestare più attenzione alle conversazioni che aveva con la cameriera, oppure con lo sheikh nel corso delle sue visite fugaci. Ogni sguardo di quella ragazza era una sfida. Se n’era reso conto dopo averla osservata a lungo, chiedendosi da cosa dovesse proteggerla, cosa la minacciasse.
«Oggi andremo a quest’indirizzo!»
Rafa rimase stupito nel vedere la brochure in mano a Nura.
«Il cimitero britannico?»
La riluttanza di lui accrebbe la sua voglia di visitarlo.
«Perché no?»
Due giorni prima, quella brochure con la foto di un minareto a base quadrata aveva attirato l’attenzione di Nura. Notando il suo interesse, lo sheikh l’aveva infilata sotto una pila di volantini pubblicitari, ma Nura, approfittando dell’arrivo del barbiere con il quale lo sheikh si era chiuso nel bagno, l’aveva presa e nascosta nella borsetta.
Il tempo era piovoso, e Rafa si ricordò delle parole di un’amica americana: «Le dita delicate della pioggia picchiettano sui nostri volti.» O forse: «I teneri baci della pioggia sfiorano i nostri volti.»
Quella pioggerella insistente rese ancor più malinconica la visita al cimitero. L’erba impregnata di acqua crocchiava allegramente sotto i passi leggeri di Nura: attraversò svelta calle Goya, imboccò calle Velázquez e arrivò in calle Núñez de Balboa, all’angolo con calle Hermosilla. Lì c’era il cimitero attiguo alla chiesa di San Giorgio: un’oasi di quiete, ombreggiata da cipressi, cedri e platani, circondata da un alto muro di mattoni che impediva al frastuono della strada di penetrare all’interno.
Rafa era riluttante a entrare, mentre Nura si mise a correre, come incantata, in direzione del campanile della chiesa, che sembrava un minareto a pianta quadrata, con gli angoli in mattoni rossi e gli astragali bianchi sormontato da tre bifore con i vetri smerigliati su ciascun lato.
Rafa si avvicinò lentamente, contemplando la chiesa disegnata dall’architetto spagnolo Teodoro de Anasagasti, che aveva mescolato elementi del romanico spagnolo con forme specificamente anglicane, aggiungendo alcune sue idee, moderne, come la luce che raggiungeva la navata da una cappella. Rafa aveva familiarità con quella chiesa, poiché aveva abitato per tre anni in calle Goya, ma non si era mai interessato al cimitero finché lo sheikh non aveva espresso la volontà di visitarlo. E ora era di nuovo lì con Nura.
Lui e la cameriera dovettero affrettarsi per starle dietro. Quando la raggiunsero, Nura era appoggiata al tronco di un cedro secolare, ed era tremendamente pallida, ma istantaneamente mascherò quella fragilità con un’espressione grave. Se ne stava là, completamente assente, come se la sua anima fosse stata risucchiata da tutte quelle immagini di morte. Nella pioggerella leggera, le lapidi prendevano vita: nomi, date, volti emergevano dal granito per condividere quel silenzio. E Nura non aveva il consueto sguardo assorto, sembrava piuttosto una donna in bilico tra due mondi, perfettamente consapevole della distanza che li separava.
Quando, un’ora dopo, tornò in sé e si avviò verso l’uscita del cimitero, un’ombra grigia si allungò alle spalle sue e dei suoi due accompagnatori.
L’indomani mattina, Nura si alzò presto per tornare con Rafa al cimitero. All’ingresso, furono accolti da mazzi di fiori gialli che sembravano fluttuare in quella morte assolata.
«Potrei suggerirle cimiteri più interessanti da visitare!»
Nura avvertì come un’urgenza nella voce di lui, come se volesse spingerla fuori da quel luogo. Davanti al suo sguardo interrogativo, Rafa si affrettò a giustificarsi.
«Qui sono sepolti solo degli emarginati.»
«E allora?»
«Voglio dire che, dal punto di vista architettonico, non c’è niente della grandezza e del mistero di tante altre chiese e di tanti altri cimiteri europei. Qui ci sono solo persone morte in terra straniera, che non potevano essere rispedite in patria e neppure essere seppellite negli altri cimiteri, per ragioni culturali o religiose. La Spagna postriformista, in sintonia con il resto dell’Europa, rifiutava a coloro che non appartenevano alla chiesa cattolica una sepoltura in terra consacrata. In seguito, però, furono stipulati degli accordi tra il governo britannico e quello spagnolo, che consentirono di destinare alcuni cimiteri ai non cattolici: questo venne aperto nel 1854, e nel corso degli anni accolse anglicani, luterani, ortodossi, ebrei e musulmani morti in città.»
Guardandola negli occhi, Rafa comprese esattamente il significato della parola “emarginazione”.
«Su questa lapide c’è una scritta in arabo: “Che il tuo passo sia leggero, poiché la terra che calpesti è fatta di cadaveri.”»
«È un verso del nostro antico poeta Abu al-Alà al-Maarri.»
Come una bambina, Nura era attratta da quelle tombe, e lui non aveva altra scelta che seguirla. Più cercava di convincerla a mettere fine a quella visita e più quel luogo sembrava affascinarla.
Nelle mattinate seguenti, la sorte di quei reietti di ogni razza e religione diventò come un affascinante puzzle per Nura. Rafa si univa a lei in quel viaggio alla scoperta delle lapidi di quasi un migliaio di tombe, scavate nel corso di circa centocinquant’anni. Su quelle lapidi erano scolpiti messaggi d’amore e di dolore, in tutte le lingue del mondo. Quel cimitero era un libro, ogni lapide una pagina di granito, e Nura una lettrice appassionata che si muoveva in completa sintonia con quelle persone, innamorate dell’avventura, colte da una morte improvvisa lontano dalla patria. Si sarebbe sentita a casa, se fosse morta lì; la sua vita somigliava a quel sonno eterno.
La visita al cimitero divenne un rito quotidiano, per Nura. Ogni mattina sceglieva una tomba diversa su cui sedersi, come se stesse cercando un vestito della taglia giusta. A volte, come in quel momento, si immergeva nel suo passato con sguardo trasognato, per tornare subito indietro appena quel passato cercava di risucchiarla. Ma il vero cambiamento d’umore avveniva quando tentava di comunicare con quelle lapidi, di decifrare i messaggi scritti in tantissime lingue, dal latino all’inglese, dal francese allo spagnolo, al tedesco, al croato, all’ebraico.
«Rafa, non senti anche tu questa urgenza? L’urgenza di queste anime di lasciare un messaggio dopo la loro morte, o di trasformare la loro morte in un messaggio? È stupefacente quanto siano espressive queste brevi frasi, quanto dicano di coloro che le hanno volute. Non ti stupisce questo bisogno di continuare a dialogare anche dopo la morte?»
La domanda di Nura sembrava rivolta a lei stessa più che a Rafa.
Lui le rispose con le parole di Pablo Neruda incise su una lapide lì accanto: «Lentamente muore chi evita una passione, chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle I piuttosto che un insieme di emozioni.» Sulla lapide c’erano anche altre citazioni, di Sofocle, dall’Antigone e dall’Edipo re, e di Zaratustra.
Vicino all’uscita, Nura notò una lapide con un’iscrizione in arabo: «Qui giace un poeta iracheno che affrontò molti inverni imbottendo i suoi abiti con giornali arabi che parlavano di infinite sconfitte, e che ancora sogna qui, tra le ceneri dei reietti, un paese in cui poter riposare e in cui poter portare le ceneri dei suoi figli.»
Nura aveva imparato a conoscere il dolore inciso sulle lapidi di quegli stranieri di ogni ceto e categoria. Musicisti, giornalisti, intellettuali, avvocati, diplomatici, ma anche persone umili, accomunati dal fatto di essere stati colti dalla morte all’improvviso, mentre erano di passaggio a Madrid.
Di solito concludeva il suo giro andando a riposarsi sotto un piccolo cipresso; lì aveva scoperto una tomba seminascosta, una lastra di pietra grigia che si distingueva appena dal terreno, tra l’erba. Più che altro sembrava il corpo di un uomo che si fosse steso lì, con la testa appoggiata al tronco dell’albero come a un cuscino, e che fosse stato trasformato in pietra. Su quella lastra grigia, proprio in corrispondenza del cuore, era fissata con due ganci una chiave antica. C’era anche un’iscrizione: «Hàmil al-miftàh. Il portatore della chiave.» Il nome del defunto era nascosto sotto il fitto reticolo delle radici del cipresso, e Nura non aveva mai avuto la curiosità di leggerlo.
«Non si può seppellire più nessuno qui dentro, perché il cimitero è saturo, c’è spazio solo per le ceneri di quelli che si fanno cremare.»
«L’idea di una terra satura di morti che si chiude di fronte ai nuovi morti è orribile. Nel mio paese, le tombe sono riempite e vuotate di continuo, come cesti, perché possano ricevere i nuovi arrivati.»
«Qui ognuno possiede il proprio luogo di sepoltura.» Nello stesso momento in cui lo disse, Rafa avvertì l’assurdità del fatto che un morto possedesse un pezzo di terreno.
Fissò Nura: sembrava perfettamente a suo agio tra quelle tombe, conversava intimamente con quelle anime esiliate, e in quei momenti il mondo dei vivi non trovava spazio in lei.
Rafa si era reso conto del cambiamento avvenuto in Nura dopo che avevano preso a frequentare il cimitero, come se una porta si fosse aperta mettendola in comunicazione con quelle creature, che la spingevano ad affacciarsi su un mondo che lei si era lasciata alle spalle.
«Tu sei cresciuto orfano. Come ci si sente, senza un padre?»
La domanda suonava del tutto naturale, in quel clima di intimità, e lui rispose con la stessa naturalezza. «Da che mi ricordo, ci siamo sempre stati solo io e mia madre, con il cancro come fedele compagno... una triade indivisibile! Ma, dovendo studiare e provvedere ai bisogni di mia madre, non avevo la minima possibilità di autocommiserarmi. A un certo punto, la mia unica preoccupazione era che la chemioterapia fosse sufficiente per fermare l’avanzata del cancro nel fegato di mia madre, ma alla fine fummo costretti a ricorrere al trapianto.»
«È stato facile trovare un donatore?»
«Le trapiantarono un pezzo del mio fegato. È stupefacente come si possa rigenerare.»
«Come la voglia di vivere: ogni volta che la si taglia, germoglia di nuovo.»
Intorno a loro le lapidi ascoltavano.
«È durata a lungo la sua malattia?»
«Siamo stati vicini a lungo. Quelli sono stati anni non di malattia, bensì di vicinanza... Mia madre era una parte di me. Conoscevo lei più di quanto conoscessi me stesso. Il fegato trapiantato resistette dieci anni, prima di dare problemi.»
Le tombe sembravano inquiete, i colombi volavano via, i morti ascoltavano le storie dei vivi per alimentare i loro ricordi e la loro nostalgia.
«Ci pensi mai ai tormenti che i morti patiscono nelle tombe? Io sono cresciuta considerando la morte nient’altro che un appuntamento con la tortura.»
Guardandosi intorno, Rafa vedeva la mappa della sua vita: i sogni che si era lasciato alle spalle, i figli che aveva sperato di mettere al mondo e invece non aveva avuto.
«Semmai, tutto questo mi ricorda i tormenti della vita.»
La sua risposta confermò a Nura che i confini della morte e della vita erano senza soluzione di continuità, che i morti non interrompevano la loro relazione con i vivi.
«A volte penso che la morte sia una decisione presa dai nostri occhi...» disse, e poi aggiunse: «Seguiti poi dal cuore e dal resto del corpo!»
Le nuvole erano state spazzate via dai raggi del sole mattutino, e il mondo, lavato dalla pioggia, appariva luccicante. Distrattamente, Nura arrotolava una ciocca di capelli intorno all’indice, la avvicinava al naso e la annusava. I suoi capelli avevano acquisito l’odore dell’erba che cresceva in quel cimitero, riscaldata dal tepore del sole, immersa in una quiete che nessuna vita turbava.
Un barbone si era inginocchiato davanti a una tomba, stringendo tra le mani un mazzo di fiori gialli. Nura lo osservò: si spostava da una tomba all’altra, con il mazzo di fiori tra le mani, si inginocchiava davanti a una e bisbigliava qualcosa, forse versi di poesie, poi si alzava e passava a quella accanto, come se volesse unire idealmente tutti i morti con quella sua preghiera fiorita di giallo. Di fronte a lui c’erano alcune tombe che sembravano essere state scavate da poco, a dispetto del fatto che nessuno poteva più essere seppellito lì dentro.
Come gli usignoli che cinguettano per i morti, anche Nura sembrava incapace di tacere.
«Sarebbe stata una benedizione, se mio padre si fosse ammalato di cancro... ma mio padre era al di sopra del cancro... non poteva permettere che le sue cellule proliferassero. Per lui, qualunque eccesso era peccaminoso.»
Rafa non riusciva a credere che Nura avesse davvero pronunciato quelle parole. Il vento sollevò alcune foglie, Nura ne afferrò una al volo e la schiacciò tra le dita. Poi riprese: «Mi ricordo ancora la foglia di limone che la donna che mi ha allevata mi strofinò dietro le orecchie e sotto le ascelle per profumarmi, prima di mandarmi da mio padre, all’alba della festa per la fine del mese di ramadàn. Avevo sette anni. Quella donna mi spazzolò i capelli e me li raccolse in una coda di cavallo, poi mi fece indossare un vestitino ricamato e mi spedì a salutare mio padre. I fili dorati del ricamo mi graffiavano la pelle del petto e della schiena. Io andai da lui, mi sedetti in un angolo e rimasi a osservarlo: il silenzio, come una montagna, mi separava da lui. Lì nella penombra, sapevo cos’era che non andava: mio padre non mi aveva mai guardata in faccia, non mi aveva mai davvero vista, io ero solo l’erede maschio che non aveva avuto. Non avrebbe mai portato alla preghiera che si sarebbe svolta di lì a poco nella moschea una bella bambolina come me, eppure io lo desideravo tanto. A un certo punto si mise a sonnecchiare, e io mi sentii morire, era come se mi stesse cancellando dalla sua vita. Quella notte volevo che mi vedesse. Presi la lanterna e mi avvicinai, scrutando i suoi occhi chiusi. Quando la fiammella diede fuoco alla sua barba, lui fece un balzo e io mi spaventai a morte: gli spensi la barba a mani nude mentre lui mi guardava con occhi pieni di odio.»
Nura tese le mani per mostrare a Rafa i segni delle scottature. Le linee della testa, della vita e del cuore erano cancellate!
«Credo che mio padre non mi abbia mai perdonata... L’immagine del suo viso pallido e della sua barba bruciacchiata mi perseguita ancora, come un incubo.»
Rafa guardava Nura negli occhi, che però si erano già persi altrove; avevano attraversato confini oltre i quali lui non poteva raggiungerla né allungare la mano per scuoterla. Si sedette in silenzio aspettando che lei riemergesse dal suo mondo. Quando lo fece, la sua voce uscì esile come un filo che un alito di vento avrebbe potuto spezzare.
«Fino a quel giorno, io e la donna che mi ha allevata eravamo solite guardare mio padre dal terrazzo. Qualche volta lui mi mandava un dolcetto, dopo averlo segnato nel registro delle vendite, con accanto il prezzo, e nella lista delle merci da acquistare. L’unica cosa che condividevo con lui era il pranzo della festa per la fine del mese di ramadàn, un pranzo a base di olive e formaggio: quando mi faceva segno di pulire la tovaglia di plastica su cui avevamo mangiato, voleva dire che la nostra occasione di incontro era finita, per quell’anno. Dopodiché, io correvo dalla donna che per me era una seconda madre.»
Nura continuava a evitare di pronunciare i nomi di quelle persone, quasi volesse affacciarsi sul suo passato da estranea. Aggiunse: «Le persone muoiono non perché la vita finisce, ma perché loro stesse hanno tagliato ogni legame con la vita. Come ha fatto mio padre!»
«Se la vita è una ragnatela di fili che ci unisce a coloro che amiamo, allora io posso credere che mia madre mi proteggerà per sempre... La sento ancora, vicino a me, nonostante sia morta da tempo.»
«Una guardia del corpo protetta dai morti?»
Rafa pensò che Nura stesse scherzando, ma quando alzò lo sguardo si accorse che era assolutamente seria. E avvertì nei suoi confronti una profonda simpatia.