Rotatorie

Cercando nel diario di Yusuf un qualche indizio su Muflih Ghatafàni, Nasser si imbatté in quella parola folle, scritta a caratteri cubitali.

5 giugno 2006

Oggi sono MORTO!

Aburrùs, il Vicolo delle Teste, è rimasto tramortito, come se una tempesta di sabbia lo avesse travolto e seppellito; è accaduto quando lo sheikh Muzàhim, in modo del tutto imprevisto, senza che nessuno avesse mai sospettato niente, ha condotto Azza nel giardino di Mushabbab e l’ha data in sposa a quell’uomo alla presenza di due testimoni. Poi, mentre gli angeli scendevano sul nostro vicolo per coprirlo di sabbia, lo sheikh Muzàhim se n’è andato con i testimoni, lasciando quei due soli. Maledetto sia questo diario... e il vicolo.

Yusuf

E-mail urgente

Mio Dio, quale destino attende Azza nelle mani di Mushabbab?

Suo padre, lo sheikh Muzàhim, gliel’ha ceduta quando è venuto a sapere dei suoi favolosi guadagni realizzati sul mercato azionario. E lei ha seguito suo padre senza battere ciglio. O forse i suoi grandi occhi vedevano qualcosa che noi non vediamo? Un giorno tu mi dicesti: «Non depilarti le sopracciglia. I tuoi occhi diventerebbero immensi e potrebbero inghiottirmi!»

Neanche Azza si depila le sopracciglia scure, i suoi occhi sono così grandi che potrebbero inglobare l’intero vicolo! Intanto Yusuf se ne va in giro per Aburrùs come un pazzo, zoppicando.

Aisha

Fu come se una bomba gli fosse esplosa nella testa. Incredibile! Azza sposata con Mushabbab! Perché nessuno nel vicolo gliel’aveva detto? Un evento di quella portata... Perché nessuno aveva ritenuto necessario comunicarglielo? Avevano complottato per tenerglielo nascosto! Perché? Halìma, Muzàhim, Muadh e Khalìl, nessuno di loro aveva pronunciato quella breve, semplice frase: lo sheikh Muzàhim aveva acconsentito a che Azza e Mushabbab si sposassero in segreto. Avevano omesso di riferirgli quel colpo di scena, emerso comunque dalle carte ma con fatica e dopo tutto quel tempo. Lo avevano fatto apposta!

Nasser ebbe paura: sapeva di essere cambiato, e che lo scenario era cambiato, doveva ricominciare da capo con le indagini, strappando i veli che fino ad allora gli avevano offuscato la vista, eppure non si sentiva pronto per quel gioco.

Sentì un gusto amaro in bocca, si considerava tradito dal matrimonio di Azza. Si tuffò nelle e-mail di Aisha e nel diario di Yusuf in cerca di altri dettagli su quel colpo di scena.

8 giugno 2006

Tu dici: «Lui mi copre, ma non con parole, bensì con la mia abaya nera.»

E io non ti ascolto.

Salendo dalle punte dei piedi, la seta sfiora il tuo ventre nudo, trema sul tuo petto, al dischiudersi delle tue labbra, e si posa sulle tue trecce sciolte.

Mushabbab è il demonio in persona, che depone la seta dell’abaya sul tuo corpo nudo, per coprirti.

Nell’attimo in cui il tuo viso sparisce, il mio inchiostro diventa secco e mi giunge questa voce sferzante: «Che tu sia maledetta, Azza. Non scriverò più di te. Che tu possa morire! Dalla testa ai piedi! Che Dio non abbia pietà di te!»

Yusuf

Le parole di Yusuf si susseguivano colme di rancore.

9 giugno 2006

Ma senti quella maledetta bugiarda cosa dice!

«All’alba mi sono svegliata tra le sue braccia, bruciando d’amore per te, Yusuf. Ah, se potessi tornare indietro ai giorni della nostra vecchia radio, quando correvo, sempre mezza addormentata, per prendere i biglietti che tu mi scrivevi, e di colpo il sonno mi passava. Erano scritti con quella tua grafia antica.

«Tu dicevi che a scrivere era la mano del condottiero Zayd ibn Thabit, e non la tua.

«Sei pazzo!

«Ci stai guidando alla follia. Tu che scrivi di me che mi addormento tra le braccia di Mushabbab. Io che leggo e ripeto quello che hai scritto, per rivivere tutto da capo.

«Mi hai mutilata, Yusuf. Sono incapace di godere della vita a meno che non sia scritta con il tuo inchiostro sui tuoi fogli.

«Tra le sue braccia, all’alba ho scoperto che tu, Yusuf, scrivevi me, non il mondo o te stesso. O forse io ero la pagina su cui tu scrivevi te stesso.

«Io sono il tuo inchiostro e i tuoi scarabocchi.

«Mushabbab non è in grado di scrivere, e questa notte è più grande di me: eri tu quello più adatto a scriverla. Ah, se tu scrivessi e io gustassi il piacere di leggermi!

«Faccio dei cerchi intorno alle sue bugie.

«Firmato: Yusuf e Azza.»

Poi spuntarono quelle parole gigantesche, oscure.

12 giugno 2006

È l’ottava notte.

Scriverla o non scriverla?

Non so!

Smetterò di scrivere perché lei muoia nel sonno.

Yusuf

Tutto quello sdolcinato sentimentalismo irritò Nasser, a lui interessava scoprire quale crimine fosse stato architettato a causa di quel disastroso matrimonio.

Nondimeno, non aveva altra scelta che passare, come un forsennato, da Aisha a Yusuf e da Yusuf ad Aisha, le sue due uniche fonti di informazioni sul vicolo, entrambe precipitate in uno stato di depressione. Il crollo psicologico di Yusuf e quello di Aisha coincidevano, come si evinceva dalle carte. Azza aveva fatto un salto verso Mushabbab, assestando un colpo mortale a entrambi e preparando una reazione a sangue freddo.

Il matrimonio di Azza con Mushabbab rappresentava un punto di rottura, il fatidico colpo di scena. Un detective con una certa esperienza avrebbe dubitato delle doti investigative di Nasser, giunto a quella scoperta con tanto ritardo, solo dopo avere deciso di considerare il diario e le e-mail come un’unica testimonianza, un solo testo, senza soluzione di continuità.

15 giugno 2006

Lui è come una pietra che rotola, non in lei bensì nel pozzo di Zamzàm, nel punto in cui si incontrano le tre sorgenti che lo alimentano.

Beve non come i colombi, i gatti e le altre bestie, ma come le piante e le pietre.

In quel centro vulcanico, la terra è diventata salata, con un sapore metallico.

Ogni volta che Mushabbab cerca di penetrare in quel centro, ne è impedito dalla sua impotenza! (Mio Dio, come si fa a coniugare il desiderio e l’incapacità di realizzarlo?)

Non c’è nessuno nel Vicolo delle Teste che non abbia gioito sentendo la notizia: «Quel demonio di Mushabbab è impotente!»

Aburrùs se la gode un mondo nel vedere la barba tinta di henna dello sheikh Muzàhim nella Mercedes: lo hanno fatto salire su quell’auto di lusso che lo attendeva all’imbocco del vicolo e lo hanno condotto chissà dove, per realizzare chissà quali loschi affari!

Più tardi è stato ricevuto da uomini che avevano accesso ai conti bancari aperti a nome suo e di suo genero Mushabbab; quegli uomini gli hanno parlato della disastrosa situazione finanziaria in cui erano finiti, ma gli hanno anche indicato possibili vie d’uscita e soluzioni. Brevi incontri decisivi che si sono conclusi con l’annullamento del matrimonio dell’impotente Mushabbab con Azza, celebrato qualche giorno prima in quel giardino ormai in rovina: allo sheikh Muzàhim è stato consegnato un documento ufficiale che certificava quanto era avvenuto.

Rescisso il contratto di matrimonio, annullati gli atti di vendita e di affitto. E anche l’accordo speciale, il patto supremo che tu avevi stretto con me!

Yusuf

E-mail n. 27

«Dio non può fare a meno dell’uomo» aveva detto un grande teologo francese, ma Birkin pensò che di certo questo era falso. Dio può fare a meno di lui come fece a meno dell’ittiosauro e del mastodonte, mostri che non potevano dare alcuna risposta alle sollecitazioni dell’evoluzione, così Lui, il Mistero della Creazione, fece senza di loro. Parimenti potrebbe fare a meno dell’uomo se fallisse nel corso della sua evoluzione, potrebbe sbarazzarsi di lui e sostituirlo con un essere migliore, proprio come il cavallo ha preso il posto del mastodonte. Il gioco non ha mai fine. L’impenetrabile mistero della creazione, infallibile, inesauribile, è eterno. Le razze vanno e vengono, talune specie scompaiono, ma al loro posto ecco avanzare quelle nuove, più o meno valide, sempre incomparabilmente meravigliose.

(Da Donne innamorate, di D.H. Lawrence.)

Non è assurdo che, se io non riesco a evolvermi, i miei fratelli vengano sostituiti?

In cinese la parola “crisi” si scrive unendo due ideogrammi: “pericolo” + “opportunità”, intendendo che una crisi equivale a un pericolo foriero però di opportunità; un vaccino per attivare in ciascuno gli anticorpi del cambiamento.

Tu sei tutti gli anticorpi che neanche mi sognavo di possedere. Tu mi comunichi un’energia che mi permette di affrontare qualsiasi cosa, anche la morte.

La mia voce è cambiata, la mia faccia è gonfia, il mio alito non è più fresco come un tempo.

P.S. 1

In questo momento gli altoparlanti della vicina moschea diffondono l’invito urgente a pregare per l’eclissi lunare. Il rituale prevede che non si smetta finché non rispunta di nuovo la luna. «Egli creò la morte e la vita per provarvi, e sperimentare chi fra voi meglio opera» recita l’imàm Daùd.

Noi siamo convinti che siano i nostri peccati a oscurare il volto della luna, e che le nostre preghiere di pentimento la rischiarino.

Quale preghiera potrebbe rischiarare il mio volto?

P.S. 2

Diverse volte mi hai aiutata – superando perfino il mare – a riparare il mio computer, come un assistente che opera a distanza, ma ieri mi hai implorata: «Apriti a me, mostrami il tuo passato e quel che sei ora, svelami i segreti della tua anima e quelli delle persone con cui condividi il dna. Introducimi di nascosto nella tua Mecca.» Mi sono venuti i brividi, perché questo vorrebbe dire strappare il velo dal viso di Aburrùs.

Yusuf è impazzito a causa di Azza. Ha aggredito i fedeli nella moschea, poi è stato selvaggiamente picchiato e trasportato a Taif, all’ospedale per le malattie mentali di Shihàr. Sul vicolo è sceso un silenzio di tomba. Sembrava incredibile: era stata spedita al manicomio l’unica voce – quella di Yusuf – che ne svelava i sogni.

È stato Ashi a prendere il coraggio a due mani e ad andare a Shihàr a liberarlo. Ma ormai lo si vede raramente in giro. Lo senti anche tu, ora, mentre cammina zoppicando sul suo terrazzo? Ascolta! Ha strappato i suoi documenti e i suoi articoli: il vicolo, sotto la mia finestra, era tappezzato delle sue parole, della sua rabbia e perfino della sua carta di identità e del suo diploma di laurea.

Alla fine, quando non gli era rimasto più niente da strappare, si è messo a girare per il vicolo, ha raccolto il pane bruciato dalle case, dai cassonetti dell’immondizia e dai forni, lo ha portato sul suo terrazzo e, ammucchiando i pezzi uno sull’altro, ha costruito qualcosa di spaventoso, una creatura mostruosa che odorava terribilmente di bruciato e che perfino i colombi evitavano. La gente, per scherzare, ha detto che quello era il corpo di Aburrùs, il Vicolo delle Teste, bruciato a causa dei nostri peccati, e lo ha chiamato l’Immangiabile.

Io mi sono incuriosita, e sono andata sul mio terrazzo: a vederlo sotto il sole mi è venuta la pelle d’oca, stillava una sostanza gialla, infetta, come la vita che si decompone.

Muadh ha detto che quella creatura era Satana in persona, che dal terrazzo di Yusuf ci avrebbe spiati tutti e non ci avrebbe persi di vista un istante.

In Yusuf c’è un vuoto. Quella creatura era lui stesso, ciò che era rimasto del suo cervello dopo l’elettroshock a cui lo avevano sottoposto. Dopo qualche giorno, l’ha schiacciata sotto i piedi riducendola in polvere e lasciando che il vento ce la soffiasse in faccia.

Cos’altro gli restava da schiacciare?

Schiacciava Azza.

La stava impietosamente boicottando, non scrivendole più neanche una parola, nonostante lei fosse tornata sconfitta sotto il tetto del padre.

Nessuno sa come sia andata tra Mushabbab e Azza. Yusuf si è rifugiato nella stanza di Tays, sopra la trattoria di Ashi. Solo Dio sa cosa faccia, chiuso lì dentro! Aburrùs ha perso l’equilibrio. Senza le parole di Yusuf, Azza è perduta!

Aisha

Nel diario di Yusuf, Nasser aveva trovato anche delle pagine scritte con una grafia diversa dalla solita, che sembravano attribuibili a un’altra mano. Si era insospettito in particolare davanti a quelle scritte in un elegante stile naskhi, ornato di tanti ghirigori, e solitamente utilizzato per trascrivere il Corano e gli antichi manoscritti. Valutò l’ipotesi che potesse trattarsi della grafia di Muadh. Quando però lo affrontò esprimendogli quel sospetto, Muadh negò ogni coinvolgimento.

«Yusuf si diverte a recitare la parte del hakawati, del cantastorie. Assume l’identità di tutti noi per smascherarci, in modo che, non avendo più alibi, siamo costretti ad ammettere le nostre colpe.»

Come poteva l’ispettore Nasser immaginare che un vicolo come me fosse in grado di scrivere?

Il punto è che io, benché abbia affrontato la follia di Yusuf con un certo senso dell’umorismo, considerandola un divertente passatempo, non mi sono però mai fatto cogliere alla sprovvista. La sua pazzia ha avuto su di me l’effetto di un ictus cerebrale, i capelli delle mie tante teste hanno cominciato a ingrigirsi, e se non fosse stato per il cuoco Ashi, che ha l’anima del salvatore, io mai e poi mai lo avrei fatto tornare indietro. Avrei lasciato marcire quel mostriciattolo nel manicomio di Shihàr. E, dopo che è tornato, non ho smesso un attimo di tenerlo d’occhio, spiando ogni sua mossa. Guardatelo: la ruga profonda che ha tra le sopracciglia mi turba profondamente e mi mette di cattivo umore. Forse sto gradualmente perdendo la voglia di vivere, ma, in ogni caso, sono più furbo di lui e non gli permetterò di ingannarmi.

Un raggio di luna filtrava, attraverso le sbarre della finestra, nella stanza di Tays, dove Yusuf si era rifugiato. La luce opalescente si posava sui volti delicati dei manichini che, con sguardi languidi, fissavano la figura scura stesa sul letto che occupava quasi tutto lo spazio nella piccola stanza. Per intere notti Yusuf non era riuscito a chiudere occhio; come un corteggiatore innamorato si era sforzato di leggere quello che i loro sguardi vacui non dicevano.

Sopravviveva bevendo l’acqua di Zamzàm e mangiando cinque datteri al giorno, che Muadh trafugava per lui dalla cassetta delle elemosine nella moschea. Yusuf avvertiva su di sé lo sguardo adorante di Muadh: il figlio dell’imàm Daùd vegliava su di lui da dietro la porta accostata, senza trovare il coraggio di spingerla per entrare. Tante volte si erano seduti sulla soglia della stanza, come una foto e il suo negativo: uno dentro e l’altro, come la sua ombra, fuori, appoggiati con le schiene alla stessa porta, ciascuno avvertendo il calore dell’altro attraverso il legno tarlato.

Affamati entrambi, condividevano i pochi datteri che avevano a disposizione, diventando sempre più eterei e cercando di emulare i primi credenti della comunità musulmana, che avevano combattuto e vinto memorabili battaglie mangiando magari solo un dattero. I raggi della luna, posandosi sul materasso, rendevano più intensi gli odori di cui era impregnato, che erano poi gli odori di Tays: un miscuglio di sangue e grasso di pessima qualità. Adesso, aveva addosso lo stesso odore di cibo di Tays. Era così eccitato dalla scoperta di quel mondo segreto che non provava nessun senso di colpa per aver assunto l’identità del suo migliore amico, o per aver usurpato quell’harem di plastica: aveva solo cambiato le parti agli attori che recitavano sul palcoscenico di Aburrùs, quel dedalo di vicoli miserabili.

Muadh fu il primo a rendersi conto che Yusuf aveva cominciato a essere posseduto dalla personalità di Tays. Tutto cominciò quando Yusuf violò la consegna del silenzio, che io, Aburrùs, avevo imposto, disturbando la preghiera in moschea. L’imàm Daùd dovette affrontarlo recitando il Versetto del Trono, con cui si scacciano i demoni, e chiedendo al demonio che si era impossessato di Yusuf di farsi riconoscere.

«Quale demonio sei?» gli chiese. «Come ti chiami?»

Una voce diabolica salì dal petto di Yusuf.

«Sono Sàlih.» Questo nome, Sàlih, significa letteralmente il Sano, il Buono.

«Sàlih, chi?»

«Sàlih li’l-Ghaya, l’infinitamente Buono, o meglio, il Buono che non ha scadenza.»

La risposta era frustrante, perché né l’imàm né gli sheikh avevano mai sentito parlare di demoni senza data di scadenza. Quindi non sapevano di quali straordinari poteri disponessero tali creature destinate a vivere per l’eternità. Non sapevano come neutralizzarle.

Era notte fonda e Nasser era stufo di essere intrappolato tra le allucinazioni di Yusuf, gli inganni di Aburrùs e le e-mail schizofreniche di Aisha: i loro destini... anzi no, le loro scelte di vita erano un’offesa per un tradizionalista come lui, che, ad esempio, non aveva mai sentito parlare del mestiere di dj che tutti i ragazzi del Vicolo delle Teste sognavano di fare: per quanto lo riguardava, dopo essersi documentato, un dj era una specie di ruffiano che manipolava le donne servendosi del potere di convincimento della musica, una specie di istigatore alla prostituzione.

Nasser aveva la sensazione che l’occhio, che sin dall’inizio delle indagini lo spiava guidando tutte le sue mosse, lo stesse guardando con sarcasmo.

Spinse lontano, sotto il cuscino, la manica dell’abito da sposa di Aisha; poi, quando la rabbia sbollì, andò a frugare tra i vestiti nell’armadio. Non cercava niente in particolare, solo un segno della sua appartenenza a ciò che lo circondava, un’ancora di salvezza!

Che rapporti aveva lui con il mondo esterno? L’unica cosa che trovò, tra gli oggetti della sua infanzia e della sua adolescenza, fu una cintura di cuoio con una fibbia di metallo a forma di pugnale. L’odore del cuoio gli ricordava sua nonna e i cibi succulenti che gli preparava. Per il resto, in quell’armadio non c’era traccia del Nasser di un tempo, quello che era stato – come già il padre prima di lui – a capo di una gang che seminava il terrore nel quartiere.

Tirò fuori le uniformi da poliziotto, due per ogni anno di servizio. Le stese sul pavimento, dalla prima all’ultima. All’inizio erano più piccole (quando si era arruolato era magro come un’acciuga), poi erano diventate sempre più larghe, man mano che la pancia cresceva e le spalle si incurvavano, come fossero slegate dal resto del corpo. Per quelle uniformi, che faceva lavare a secco in lavanderia, spendeva una fortuna! Ne era schiavo!

La camera sembrava un campo di battaglia coperto di soldati sgozzati, decine di uomini in uno solo. E sembrava più grande del solito, con la finestra per la prima volta aperta con noncuranza su un cimitero interiore pieno di cadaveri che diventavano sempre più bianchi.

Nasser si addormentò, e dormì profondamente, cullato dal rumore delle automobili in sottofondo: quando si svegliò, non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse trascorso in quel cimitero interiore, privo di sensi. Era consapevole soltanto delle ciglia di Aisha che gli avevano accarezzato il corpo, in silenzio. Aveva dormito a lungo, ma non sapeva se per ore o per giorni!

Un profumino di carne, proveniente dall’appartamento accanto, lo risvegliò del tutto, strappandolo alle carezze di Aisha. Si accorse di avere una fame spaventosa. Non si ricordava quando aveva mangiato per l’ultima volta.

«Farnetichi, e non ti curi dei lupi affamati che ti ululano nella pancia, e così facendo vai in malora» si disse.

Strascicò i piedi fino al frigorifero, ma non osò aprirlo; da quando era stato all’obitorio, il pensiero di prendere qualcosa da mangiare da quella cella lo disgustava. Si accontentò della scatola di mamùl che aveva lasciato accanto al fornello. Mangiò voracemente quei dolcetti rotondi, farciti di datteri, per tentare di riempire il buco che sentiva nello stomaco. Lo zucchero, pompato fino al cervello, stimolò i centri cerebrali responsabili dello stato di veglia. Ma guardando fuori, attraverso gli occhi velati e i vetri appannati della finestra, Nasser non riusciva a capire se fosse ancora notte o se quella fosse un’alba grigia e triste.

Dal comodino tirò fuori cinque flaconi di profumo Dunhill ancora sigillati, made in China. Erano gli ultimi rimasti di uno stock di dodici, comprato a prezzo di favore da un amico, che lo aveva introdotto nel paese di contrabbando nascondendolo nella sua ventiquattrore, contando sul fatto che alla dogana non veniva mai controllato essendo un vip.

Nasser andò a vuotarli nel gabinetto, poi tirò lo sciacquone e aprì la finestra per disperdere l’odore rancido di pesce ammuffito.

«Vuoi sposarmi?»

«Sì, ti prendo come mio legittimo sposo» dissi io scandendo le parole perché arrivassero chiare ai due testimoni, che ci guardavano raggianti, interessati a ogni più piccolo dettaglio.

Li stupii ancor di più aggiungendo: «Ma ti prendo a una condizione, voglio anch’io il diritto al divorzio.»

I due testimoni applaudirono entusiasti, come se stessero assistendo alla rappresentazione di una commedia, in quel mattino radioso.

«Volete essere testimoni del nostro patto davanti a Dio?» chiedesti a quei due stranieri che suonavano il violino, nei giardinetti vicino alla stazione ferroviaria. Loro ci strinsero vigorosamente le mani. In quel viale assolato dei giardinetti, noi dichiarammo di essere marito e moglie, e i nostri testimoni sottolinearono il nostro impegno verbale con una sviolinata.

«Lei è la mia seconda moglie, ora ne ho due, e anche l’altra vive in questa città. Come è bello l’harem!»

Lo dicesti ridendo, apposta per farli rimanere di stucco e indurli a rimettersi a suonare la loro musica ballabile. Ti comportasti per tutto il tempo come se si trattasse veramente di una commedia.

All’inizio eri scettico, ma io ti dissi: «Un matrimonio è un contratto verbale. Uno chiede e l’altra accetta davanti a due testimoni. Basta che tu dica: “Mi vuoi?” E che io dica: “Sì.” Una divorziata come me, per risposarsi, non ha nemmeno bisogno di un tutore.»

Allora tu gridasti: «Che bella la vita senza scartoffie! Che Dio mi fulmini se tradirò questo contratto evanescente!»

Attirasti su di noi tutti gli sguardi. Mi stringesti forte, spezzandomi almeno un paio di costole e strappando un sorriso di simpatia alle persone intorno.

E io volai su quei sorrisi: tu non notasti nessun cambiamento, ma io mi ero scrollata dalle spalle una montagna di sensi di colpa.

P.S.

Una pietra lanciata in aria, così ero io quella mattina.

Poi mi venne la pelle d’oca, pensando a quando si sarebbe schiantata a terra.

Aisha

Ora Nasser aveva un modo differente di guardare La Mecca. Yusuf era riuscito a stravolgere l’immagine di quella formidabile città per la quale si era sacrificato, attribuendole un’identità femminile. E Nasser era stato catturato da quella rete di matrimoni e divorzi che c’erano stati ad Aburrùs, il Vicolo delle Teste. Non riusciva a togliersi dalla mente alcune parole di Yusuf, che gli davano il capogiro.

Ogni volta che, nel corso della sua storia, La Mecca è stata sul punto di morire di sete, è venuta fuori una donna per dissetarla. Per cominciare, l’acqua è sgorgata nel deserto grazie alle preghiere di una donna, Agar, madre di Ismaele; poi è venuta Zubayda, la moglie del califfo Harùn al-Rashìd, che ha realizzato un sistema di canali per convogliare l’acqua della valle di Numàn fino alla Mecca, attraverso il deserto, perché la città non avesse più sete; poi è arrivata Fatima, la figlia del sultano ottomano Suleyman, che ha ripristinato la rete idrica voluta da Zubayda.

E c’erano anche le parole di Aisha a confonderlo.

E-mail n. 0

Ascolta!

Sono posseduta dal tubare dei colombi.

Non so perché, ma sono ossessionata dalle scene del mio ritorno a casa dalla Germania. Era la fine di ramadàn, il mese in cui si digiuna dall’alba al tramonto. Alle undici di sera lasciai l’aeroporto Abdulaziz, a Gedda. L’autista non si accorse del cartello che indicava la superstrada per La Mecca, e fu quindi costretto a proseguire lungo la strada per Medina, che taglia Gedda da nord a sud.

Presto ci ritrovammo imbottigliati in mezzo al traffico e alla folla. Era il 23 settembre, festa nazionale in Arabia Saudita.

Impiegammo cinque ore per compiere un tragitto che normalmente richiede non più di quindici minuti. La nostra macchina fu inghiottita da un fiume di altre macchine, berline e utilitarie, coperte di bandiere verdi con la spada e la testimonianza di fede: «Non c’è altro Dio all’infuori di Dio.» Ovunque si vedevano facce verdi, abiti e copricapo verdi, ragazzi e ragazze che si affacciavano ai finestrini o spuntavano dai tetti apribili: una gioventù che esultava, bloccando le arterie principali, girando follemente intorno alle rotatorie e lanciandosi in sfrenati hip-hop alternati a danze tradizionali del golfo.

La città di Gedda è conosciuta per il suo profondo sentimento patriottico. In un paese come il nostro, allergico alle parate pubbliche e ai cortei, quello è l’unico giorno in cui le autorità chiudono un occhio e permettono di festeggiare per le strade. I ragazzi sfidano la polizia religiosa – che per una volta lascia correre – e si concedono qualche piccola libertà in pubblico, ad esempio togliere i veli alle ragazze e danzare sui tetti delle macchine.

Aprii il finestrino. Avvertivo un senso di paura, come per una minaccia incombente, ma anche di libertà. L’autista si lanciava in spericolate manovre alla James Bond, approfittando delle deviazioni per cercare di sfuggire a quella folla e uscire il prima possibile da Gedda. Era fantastico ascoltare le musiche ballabili del golfo sparate a tutto volume dagli stereo delle macchine, mentre gli altoparlanti delle moschee, ben più potenti, diffondevano i versetti del Corano.

Come avrei voluto che tu fossi lì, mio caro *, per gustare con me quel cocktail saudita, una sorta di saudi champagne.

P.S.

C’è qualcosa che non ho il coraggio di dirti...

Se Azza facesse il grande passo, non mi resterebbe più niente a cui aggrapparmi!

«Che passo? Di quale passo parla?»

Nasser stava diventando isterico a furia di scavare in quelle e-mail.

Il Collare Della Colomba
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