Banca dati
«La Western Ltd, controllata dalla Elaf Ltd, ha firmato un accordo per l’acquisto di un’area di cinquantamila metri quadri a sud della Mecca, dove in futuro sorgerà, come ha dichiarato in un’intervista il responsabile del settore investimenti e sviluppo, Salìm Murìti, un polo industriale dotato di linee di produzione all’avanguardia e di depositi per lo stoccaggio delle merci. Tutto ciò per soddisfare la domanda crescente di cibo da parte dei pellegrini provenienti da tutto il mondo e presenti sul nostro territorio per tutto l’anno ma in particolare nel periodo del pellegrinaggio.»
Yusuf rimase paralizzato, sentiva uscire puzza di bruciato dallo schermo del computer.
Come ogni mattina, aveva lasciato furtivamente la casa del fotografo Lababidi ed era entrato nel primo internet café, aveva pagato i cinque riyàl che gli garantivano due ore di navigazione in internet e aveva scelto la postazione più isolata. Questi internet café, che spuntavano ovunque come funghi, facevano la fortuna dei loro proprietari: bastavano due tre computer sistemati in un ambiente anche angusto, e nasceva un’attività commerciale da cui ricavare soldi a palate.
Yusuf controllò la posta e non trovò nessuna e-mail da parte di Mushabbab.
Allora entrò nel sito della Elaf Ltd e poi nelle pagine dei giornali locali e dei blog, per cercare notizie sulla vasta rete di società controllate: fabbriche per produrre cemento, plastica, tappeti da preghiera, per imbottigliare l’acqua di Zamzàm, per inscatolare la carne degli animali sacrificati durante i riti del pellegrinaggio, nonché interi complessi residenziali destinati a famiglie sia a reddito fisso sia più agiate.
Quella mattina Yusuf sembrava sprigionare un’intensa energia che non lo faceva passare inosservato, persino l’impiegato pakistano dell’internet café gli offrì, con un sorriso, una tazza di tè in segno di benvenuto. Nel tentativo di mettere ordine nei suoi pensieri, Yusuf decise di scrivere l’articolo che aveva in mente da tempo. Quella mattina si era svegliato con scene spaventose in testa, e non capiva se si trattasse dell’effetto degli incubi che aveva avuto o di presagi di eventi che dovevano ancora accadere ad Aburrùs, il Vicolo delle Teste. L’incipit del suo articolo voleva essere beffardo, un modo per vendicarsi di tutto quel disfacimento a cui assisteva dal terrazzo di casa Lababidi.
Dio incaricò gli angeli di portare sulla terra per Adamo uno degli smeraldi del paradiso. Così, i primi a costruire qualcosa alla Mecca furono gli angeli, furono loro che insegnarono ad Adamo come costruire la casa di Dio.
Gli sembrava di avere mille tamburi nella testa.
All’inizio dei tempi la terra era abitata da demoni e da bestie feroci, perciò gli angeli scesero a proteggere la casa di Dio: la circondarono, rivolgendo le spalle alla Kaaba e il viso al deserto, per impedire l’ingresso agli intrusi. Anche a Eva era vietato l’accesso, e Adamo era costretto ad avventurarsi fuori del circolo sacro della Kaaba ogni volta che voleva generare un figlio con lei.
Yusuf cercava parole che potessero neutralizzare l’incubo che aveva avuto quella notte e cancellare gli uomini che lo avevano perseguitato nel sonno: manager senza volto, in finissime abaya nere ricamate d’oro, che si incontravano con uomini in eleganti completi neri e cravatte inamidate alla moda, tutti senza nome, facce e stelle del cinquantesimo, cinquantunesimo, cinquantaduesimo stato... più una donna con i tacchi a spillo e una faccia carica di trucco, che si candidava a governare il mondo.
Yusuf si era fatto scuro in volto. Nascondersi in casa del fotografo Lababidi aveva fatto sì che i suoi movimenti fossero diventati più lenti, come di uno che dovesse trascinarsi dietro l’intero palazzo.
Cancellò quelle righe e rinunciò a completare il testo, tanto sapeva che sarebbe stato censurato: avrebbe potuto infastidire qualche lettore, o fornire indizi per spiegare il mistero della scomparsa di Azza!
Si mise allora a rileggere alcuni suoi vecchi articoli.
22 gennaio 2003
Ieri notte – non penso fosse un sogno! –, mentre camminavo nel cortile della Sacra Moschea, ho trovato dei paraventi di legno sistemati intorno alla Kaaba: mi sono mescolato agli operai e, lì dietro, per tutta la notte, ho scavato e cercato insieme a loro gli smeraldi con cui gli angeli costruirono le fondamenta della Kaaba.
Quando quell’enorme smeraldo, grande quanto una casa, è venuto alla luce, ho perso il lume della ragione. Nel delirio, ho visto gli operai recuperare anche gli altri e caricarli sui camion, per andare a buttarli nel mar Rosso in modo da evitare che fossero venerati nelle ere future.
Ho dovuto lottare con me stesso per non correre da quegli operai a chiedere perché stessero strappando l’ultimo segno del paradiso dalla nostra terra!
All’inizio dei tempi, Dio destinò la sua casa, la Kaaba, ad Adamo perché vi abitasse. Poi vi abitò Ismaele, che fece della parte scoperta dell’edificio un riparo per le sue greggi. Poi, gradualmente, è cominciato il nostro estraniamento dalla casa di Dio. Sì, è cominciato quando abbiamo spinto fuori dalla Kaaba le greggi di Ismaele.
Dopo avere letto quelle parole, Yusuf si sentiva privo di forze. Gli sembravano vagamente minacciose, anche se non avrebbe saputo spiegare perché!
Era mezzogiorno, quando comparve ad Aburrùs. Il sole era alto nel cielo, la temperatura sfiorava i quarantanove gradi e il Vicolo delle Teste sembrava frutto di un miraggio. Cercando di non dare troppo nell’occhio, si avviò verso il giardino di Mushabbab, mescolandosi alla folla degli operai che stavano andando a pranzo. L’intenso viavai cominciava di solito dopo la preghiera del mezzogiorno e continuava fino alle due e mezza, dopodiché la scena che si presentava era quella di un vicolo sommerso da sacchetti di plastica unti contenenti residui di riso e di pollo, l’eterna pietanza di quei lavoratori!
Yusuf cercava di non farsi notare, ma comunque si sentiva abbastanza al sicuro, mai e poi mai l’ispettore Nasser poteva immaginare che lui si presentasse lì in pieno giorno!
Si infilò nel giardino attraverso un buco nel muro di cinta, sul retro, puntando dritto alle scale che portavano al diwàn, dove si tenevano i ricevimenti. Su quelle scale, però, si accasciò, improvvisamente, incapace di muoversi, vinto dalla disperazione. Si fermò lì, incurante di tutto, con lo sguardo rivolto al giardino.
Mushabbab dormiva sulla terra. Nudo e immobile com’era, sembrava una scultura nera ultramoderna, lasciata in quel giardino da un artista di passaggio. Poi però, colpito da un raggio di sole, cominciava a muovere le dita delle mani per sfiorare l’unica corda della sua ribeba, un antico strumento ad arco. Il cortile si animava di una musica simile a un lamento, che saliva dal suo corpo più che dalla ribeba, un canto che gli aveva insegnato una donna in un passato ormai lontano, di cui aveva dimenticato tutto tranne quelle parole: «O Dio, soccorri questa tua creatura che anela a esserti vicina e che soffre nel restare lontana da te... O Signore, mio Dio, io anelo a te, con tutta la mia anima e con tutto il mio cuore...»
A quel punto Mushabbab copriva il corpo nudo, color ebano, con la sua giubba africana a strisce bianche e argentee, e si accovacciava per accendere il fornellino e preparare il suo magico elisir di zucchero di canna, narciso, zenzero e timo selvatico, che liberava le corde vocali e l’apparato respiratorio. Dopodiché, si metteva a strisciare come un serpente per sentire sotto il ventre le cripte nelle viscere di quel giardino in cui si snodava un labirinto di cunicoli che accoglieva un’infinità di oggetti rari provenienti dal mondo agonizzante della Mecca. Mushabbab rivolgeva un pensiero ai viaggiatori che giungevano nel suo giardino approfittando dell’oscurità della notte e all’alba se ne andavano furtivamente come erano venuti, dopo aver consegnato a lui e alle sue cripte tesori inestimabili: andavano da lui per lasciargli una parte di sé e poi svanivano senza lasciare traccia. Era fiero di quel suo tesoro sotterraneo che cresceva ogni giorno di più! Ogni tanto Mushabbab si dirigeva verso una porticina chiusa, sulla sinistra del diwàn. Girava la chiave arrugginita nella toppa, entrava, dopo essersi tolto la giubba e averla lasciata sulla soglia, e si chiudeva la porta alle spalle. Lì dentro c’era il suo hammàm. Solo una volta Mushabbab aveva permesso a Yusuf di entrare in quello spazio proibito che eccitava la curiosità di tutti – grandi e piccini – nel Vicolo delle Teste: il pavimento era rosso vivo, come se le mattonelle fossero appena uscite dalla fornace, e le pareti erano ricoperte da un mosaico turchese per un paio di metri e da mattoni a vista da lì al soffitto, sul quale si rifletteva il turchese del mosaico.
Mushabbab aveva rimesso a nuovo quell’antico bagno turco, facendolo rinascere dalle macerie; aveva sistemato le piastrelle staccate e lucidato il pavimento, riparato le condutture dell’acqua e liberato la grande vasca centrale dal terriccio da cui era stata riempita. Lì dentro si dedicava a un rito quotidiano, evitando però di guardare al di sopra della linea turchese del mosaico che decorava le pareti: sollevava una mattonella a destra della porta e tirava fuori una sigaretta arrotolata, piena di un’erba giallina, poi la accendeva e si immergeva nella vasca, dove si rilassava aspirando avidamente il fumo.
Sul bordo della vasca erano allineate alcune giare di terracotta piene di piante selvatiche essiccate e di fango asportato dal fondo del sacro pozzo di Zamzàm. Il tempo si fermava mentre lui si perdeva in quel torpore: avvolto da nuvole di fumo immaginava di raccontare ai suoi seguaci la storia di come si era calato nel pozzo e di come ne era stato tirato fuori.
«Oltre un quarto di secolo fa, mi calai con una muta da sommozzatore, insieme ad altri due sommozzatori professionisti, un pakistano e un egiziano. Erano stati ingaggiati per asportare i detriti che ostruivano le sorgenti. Io invece mi calai per accogliere quelle sorgenti nel mio petto. Mi immersi in quel pozzo, che l’erudito musulmano Yaqùt al-Hamawi nel suo Mugiam al-buldàn, Il dizionario dei paesi, dice essere profondo sessanta braccia e per metà scavato nella roccia compatta, e mi affrettai a raggiungere il fondo. Il pozzo sorge nel punto esatto in cui si incontrano le tre possenti sorgenti che lo alimentano: la prima proveniente dalla pietra nera della Kaaba, la seconda dai monti di Abu Qubais e di Safa, la terza dall’altura di Marwa. Safa e Marwa sono le alture sulle quali Agar, la madre di Ismaele, andò per far sgorgare dal terreno l’acqua che potesse dissetare lei e suo figlio.» A quel punto della storia, gli occhi di Mushabbab si annebbiavano, e la sua voce diventava fievole come se arrivasse dal fondo del pozzo di Zamzàm. «Quando il vapore acqueo mi avvolse, sentii quell’odore particolare, l’odore della prima morte, dell’inferno e del paradiso mescolato a un soffio... e il soffio entrò nel mio petto... un soffio fluì in quel sacro vapore creando la vita intorno... e io mi strappai la muta e mi immersi nel punto più profondo della sorgente che scaturiva dalla pietra nera della Kaaba, offrendo il mio petto al getto violento. Spinsi il mio corpo contro la roccia, incurante degli altri sommozzatori che scavavano e asportavano i detriti, non dal pozzo bensì dal mio petto. Raccoglievano le chiavi arrugginite e gli altri oggetti di metallo finiti lì dentro nel corso degli anni, insieme al fango. Riempivano secchi su secchi e li mandavano su... io stesso fui l’ultima cosa che quell’egiziano, Muhammad, e quel pakistano, di cui oggi mi sfugge il nome, fecero uscire dal pozzo. Quando mi adagiarono nel cortile della Kaaba, avvertii una tristezza infinita squarciarmi il petto, come la tristezza di Adamo – che fece piangere gli angeli! – quando fu scacciato dal paradiso. La ferita che si aprì allora nel mio petto non si è più sanata.»
E-mail n. 20
Mio caro *,
un gatto schiacciato sull’asfalto caldo, così mi sento io stamattina, schiacciata sotto il peso della mia solitudine.
Se la tua mano non viene presto a massaggiarmi... se non si tende attraverso lo schermo del computer... attraverso la luce o l’aria, allora io... ah, cancella tutto ciò che ho detto! Da Aburrùs a Bonn, in un battibaleno! Ti immagini un simile trasferimento superveloce? Più rapido di una freccia, come dice zia Halìma.
Ripensando a me stessa stesa su una barella nell’ospedale di Bonn, mi sono vista piccola e indifesa, sotto l’effetto di quel potente anestetico, circondata da facce nordeuropee, bianche e con le guance rosse. Laggiù, non solo la lingua mi era straniera, ma anche il linguaggio del corpo mi risultava incomprensibile.
Sai bene, mio caro *, quale lunga serie di interventi io abbia subito nel vostro ospedale (o Signore, ma come mi hai creata?), con quel camice che mi arrivava poco sotto le ginocchia e mi lasciava scoperta tutta la schiena. Senza una sorella o una madre che si prendesse cura di me e si affrettasse a coprirmi quando mi giravo di spalle, per evitare che mi trovassi esposta a sguardi indiscreti... Ricordo ancora l’infermiera che prendeva nota del mio peso perché i medici potessero somministrarmi la giusta dose di anestetico.
Arabi o non arabi, siamo tutti uguali davanti ai punti di sutura, davanti ai tagli del bisturi – verticali, orizzontali, diagonali, a croce, che segnano la nostra carne; in quell’ospedale c’erano volti africani e asiatici, tutti con i lineamenti tirati, e sale d’attesa affollate di parenti che leggevano libri per non pensare al dolore dei loro malati, o si stordivano con la musica dei loro iPod per far tacere le voci del mondo esterno, o si scambiavano biscotti e caffè presi alle macchinette.
Una miriade di volti mi sfrecciava accanto mentre la barella veniva trasportata nella sala operatoria, senza nessuno che mi seguisse con apprensione, mormorando una preghiera o anche solo non riuscendo a trattenere un tremito delle labbra.
Passavo veloce, trasparente come un fantasma, un malato di nessuno, accolta da ascensori che aspettavano silenziosamente dietro un angolo o in un inaspettato slargo alla fine di un corridoio. Mancava solo un cartello che avvertisse che si trattava di capsule di non ritorno. Erano grandi quanto la mia stanza ad Aburrùs, ma con pareti di metallo su cui nessuna emozione poteva aderire, rese lucide e brillanti da dolori mai provati. Con una sola, improvvisa scampanellata, mi espellevano per accogliere nel loro grembo un altro sconosciuto. Ebbi l’impressione che quegli ascensori non si aspettassero il mio ritorno dalla sala operatoria o dalla terapia intensiva, e che non se ne rammaricassero!
Quanto tempo sono rimasta nel vostro ospedale? Il primo giorno fu un’eternità. Nei tre mesi successivi, il tempo tornò a scorrere secondo un ritmo regolare. Gli ultimi sei passarono veloci come un fulmine. Insieme a te!
Adesso posso solo rievocarli.
I calendari sono un’invenzione ingannevole, ci impediscono di misurare il tempo con il cuore. La divisione in mesi, settimane, giorni e ore è un modo per prolungare il vuoto o contrarre l’eternità.
Mio marito Ahmad ha sempre lavorato come guardia del corpo di personaggi in vista, con tanto potere e tanti capricci. È rimasto a lungo al Cairo come guardaspalle di un milionario; i segreti orribili di cui è venuto a conoscenza in quel periodo gli hanno fatto venire i capelli bianchi prima del tempo.
«Chi era quello che piangeva al telefono?»
Con la mente offuscata dal Rovinac, Ahmad inciampò e cadde. La sua paura si tagliava con il coltello nella mia stanza rubata.
«L’uomo per cui lavoravo» mi disse «è stato stroncato da un infarto mentre era solo in casa, hanno scoperto il suo cadavere dopo giorni. Aisha, promettimi che quando sarò in punto di morte tu rimarrai al mio capezzale. Promettimi che mi resterai vicina in quel momento... lo sai... voi donne di Aburrùs siete diverse da tutte le altre donne che ci vogliono forti e in salute, e con tante carte di credito!»
Sotto la doccia calda del mattino, avvolto dall’odore dello shampoo ai fichi d’india fatto da mia madre, sentii che aggiungeva: «Tu sei la mia tomba... non abbandonarmi ai vermi!»
Una lacrima mi cadde sul petto, scottandomi.
In quell’acqua leggermente salata, giurai a me stessa che mai più il mio cammino si sarebbe incrociato con la malattia o la vecchiaia, né nel Vicolo delle Teste né altrove!
Aisha