Catrame
Il più vicino ospedale militare era nel villaggio di Umm Salàm, a metà strada tra La Mecca e Gedda.
Sul pianerottolo di casa, Nasser decise di non aspettare l’ascensore, fermo come sempre tra due piani, inamovibile, nonostante il custode continuasse a battere sulla porta al pianterreno senza però decidersi ad andare a fare un controllo!
Nasser pensò che tutto stava slittando su una viscida lastra incatramata. Si lanciò di corsa giù per le scale buie, coperte di sabbia ormai da una settimana, da quando c’era stata l’ultima tempesta.
Prese la macchina e partì in direzione di Gedda. Costeggiò club, parchi e moderni fishes café illuminati a giorno, poi si lasciò tutto questo alle spalle e affrontò il deserto dove, tra dune e montagne vulcaniche, la monotonia era interrotta di tanto in tanto da giganteschi cartelloni pubblicitari delle società telefoniche Sawa, Mobily e Malaysia.
Gli venne il dubbio che forse non aveva senso allontanarsi così tanto da Aburrùs per rincorrere un estraneo che di sicuro non sarebbe stato in grado di aiutarlo a scoprire i misteri del vicolo, quei misteri che ormai gli interessavano più dell’identità della vittima e dell’assassino.
«Qui da voi è ricoverato un certo Muflih Ghatafàni?»
L’impiegato dell’accettazione diede un’occhiata apatica al suo distintivo. Consultò il computer e disse: «Nefrologia, stanza numero 7.» Dopo una pausa, aggiunse: «Il suo medico ha già firmato la scheda per la dimissione.»
Seguendo i cartelli, Nasser arrivò al reparto di nefrologia e alla stanza numero 7, dove c’erano sette letti, e tirò un sospiro di sollievo quando vide il corpo esile e il viso scavato dagli anni dello sheikh Ghatafàni.
«Signor Muflih Ghatafàni... Si ricorda di me? Ci siamo già incontrati!»
Gli sguardi di tutti i degenti si fissarono su di lui. Negli occhi penetranti del vecchio si accese un lampo: lo aveva riconosciuto.
«È successo qualcosa? Lei è un poliziotto?» La voce si era levata alle sue spalle. «Cosa vuole da mio padre?»
Nasser si girò.
«Stiamo ancora indagando sull’omicidio avvenuto ad Aburrùs» disse. «Andrò subito al sodo, così non vi farò perdere tempo.»
Gli altri degenti tesero le orecchie.
«So che non è il momento più opportuno, ma ho bisogno di informazioni su quell’amuleto d’argento.»
«Ha detto bene, ispettore: non è il momento più opportuno!» rispose con astio il figlio dello sheikh.
«In alcuni articoli di Yusuf Hugiubi si fa riferimento a mappe e antichi atti di compravendita che sarebbero in possesso di suo padre. Vorrei darci un’occhiata.»
Lo sheikh tossì, e solo dopo un po’ riuscì a dire: «La prego, ci tenga fuori da questa storia, non vogliamo essere coinvolti in fatti criminosi o terroristici. Noi...»
Fu interrotto dall’arrivo dell’infermiera che gli consegnò la scheda per la dimissione e una prescrizione.
«Potete andare a prendere le medicine al nostro dispensario, se volete!»
Nasser si rese conto che quell’uomo stava per sfuggirgli. Visibilmente agitato e senza dire una parola, il figlio trasferì il padre sulla sedia a rotelle, gli mise in grembo il sacchetto con gli effetti personali e lo spinse fuori. Voleva allontanarsi immediatamente dalla stanza e sottrarsi agli sguardi sospettosi degli altri degenti, ben sapendo quante reazioni imprevedibili poteva suscitare la parola “terrorismo”.
«Mi scusi se insisto, sheikh Muflih, ma, viste le sue condizioni di salute, sarebbe troppo complicato per lei venire nei nostri uffici per essere interrogato o anche solo per rilasciare una deposizione. Voglio evitarle questo fastidio... La prego.»
Nasser non ottenne risposta.
Nel corridoio, aprì una mappa e la appoggiò sulle gambe dello sheikh Ghatafàni.
«La conosce?» chiese. «L’aveva mai vista prima? Era tra le carte di Yusuf.»
La sedia a rotelle si fermò, e lo sheikh rispose: «L’avevamo data a Yusuf Hugiubi perché stava effettuando una ricerca sulle fortezze presenti in quella che è conosciuta come la zona rurale dello Hijaz, vicino a Medina, alla fine del periodo preislamico. Tutti gli altri documenti li abbiamo consegnati a Mushabbab, quello del giardino di Aburrùs! Lei ha il nostro numero di telefono. Mi convochi pure, quando vuole.»
Nasser seguì la sedia a rotelle lungo gli ampi corridoi dell’ospedale fino al dispensario, e poi fuori, fino al parcheggio, dove diede una mano al figlio a sistemare il vecchio in macchina. Prima di chiudere la porta, si chinò verso Muflih Ghatafàni e lo rassicurò: «Stia tranquillo, non c’è niente di cui preoccuparsi, a me serve solo qualche informazione... è la prassi. Non sto accusando nessuno.»
Muflih Ghatafàni lo fulminò con il suo sguardo penetrante.
«Ma lei per chi lavora? Per lo stato o per quell’Ibn...» gli chiese inaspettatamente.
Nasser non riuscì a sentire il nome, coperto dal rombo del motore: proprio in quel momento il figlio aveva messo in moto ed era partito.
L’ispettore rimase lì impalato, cercando di indovinare quale potesse essere il nome che Ghatafàni aveva pronunciato, ma poi si rese conto che la macchina blu si era ormai allontanata e corse a prendere la sua. Tutto concentrato su quel nome, uscì dal parcheggio. Aveva appena varcato il cancello dell’ospedale, quando un’auto della polizia a sirene spiegate gli sfrecciò davanti. Salendo sul cavalcavia che portava alla superstrada per La Mecca, notò le volanti e il traffico bloccato. C’era stato un incidente: dall’alto vide un camion che si era schiantato contro una macchina blu, ridotta a un ammasso di lamiere. Gli balzò il cuore in gola. Aveva avuto un presentimento.
«L’auto di Ghatafàni!»
Fece un’inversione e si avvicinò il più possibile al luogo dell’incidente. Fermò l’auto e proseguì a piedi, facendosi largo tra la folla di curiosi. Giunto alla macchina blu, vide sangue dappertutto e nessun segno di vita tra le lamiere accartocciate. Il sacchetto con gli effetti personali e le medicine di Ghatafàni giaceva ai piedi di un cadavere. L’autista del camion, rimasto illeso, era seduto sul ciglio della strada in stato confusionale.
I capelli di Nasser divennero ancor più bianchi. La malinconia e la morte che si erano sprigionate dal suo corpo nell’obitorio lo stavano braccando. Avvertiva le fredde dita di Aisha su di sé.