Passi
All’incirca alle quattro del mattino, Nura si svegliò sentendosi osservata. C’erano degli occhi che la scrutavano.
Si sentiva come una marionetta: i suoi piedi, le sue mani e la sua testa erano bloccati da fili legati a chiodi piantati ai quattro angoli della stanza. O come un manichino o un antico idolo: il suo corpo veniva cosparso di unguenti profumati, rivestito di seta e adornato di gioielli da qualcuno. Sentì scorrere qualcosa sui piedi. Cos’era? Grano? Latte? Ogni goccia che sfiorava la sua pelle nuda la incendiava; le sembrava di essere sospesa nell’aria, incapace di ancorarsi a qualcosa di solido, ma anche di tagliare i fili che la tenevano prigioniera e di sottrarsi a quei fremiti di piacere. Lasciò che il suo corpo ondeggiasse abbandonandosi a quell’incanto, e quel dondolio, che niente, neanche la morte, poteva fermare, diventò il suo sonno.
Per la prima volta in vita sua, non aveva avuto paura di dormire da sola, di morire da sola, perché in qualche modo era diventata incapace di morire, si era tramutata in un idolo. Con un movimento deciso, Nura saltò giù dal letto strappando i fili che la tenevano legata alle pareti della stanza. Euforica, indossò dei jeans e una felpa attillata, e il lieve ticchettio della pioggia sulla finestra le suggerì di infilare anche l’impermeabile. Quando entrò nel salotto, la cameriera rimase sorpresa.
«Buongiorno, madame. Esce così presto?» disse, e poi corse a telefonare a Rafa, che si materializzò alle spalle di Nura nel corridoio e si affrettò verso l’ascensore per precederla.
Nura avrebbe voluto dirgli: sei qui per proteggermi o per controllarmi?, ma gettò quella domanda provocatoria in fondo al cervello.
Alla reception, l’impiegato le rivolse uno sguardo di ammirazione. Gli alberghi, pensò Rafa, utilizzano sempre più spesso personale non qualificato per la notte.
Nura lasciò l’albergo scortata dalla sua guardia del corpo, che la seguiva come un’ombra. Voleva fotografare i luoghi che era solita frequentare a Madrid, catturare alcune scene della vita della città che l’aveva liberata dal peso della solitudine provata in quella da cui proveniva.
Si fermò nel giardino pubblico vicino all’albergo, come in attesa, provando un forte desiderio di libertà; avrebbe voluto sedersi su una panchina, come una cosa dimenticata, e osservare la strada e la vita che si risvegliavano lentamente. Ma non poteva farlo, perché le panchine erano occupate da due barboni profondamente addormentati. I due si erano infilati in sacchi a pelo sporchi, tutti macchiati, lasciando scoperto solo il viso, bagnato dalla pioggia.
Alcuni colombi dal collare le svolazzarono intorno per un po’ e poi si posarono, beccando i chicchi di grano sparsi a terra e alzando le code in aria come frecce. Nura li inquadrò, pronta a scattare la foto, ma antiche parole fluttuarono davanti all’obiettivo; tutto si confuse davanti a lei, non riusciva più a distinguere tra l’immagine che vedeva e quella che era affiorata nella testa.
Io guardo i colombi dal collare nel cortile della Grande Moschea, si avvolgono l’asciugamano intorno al collo e vanno a lavarsi.
Poi, al calar della sera, si avvolgono la sciarpa intorno al collo e vanno alle feste di nozze.
Siamo cresciuti guardando i loro stormi volare intorno alla Kaaba, intorno alla casa di Dio.
Siamo cresciuti guardando, tutti vergognosi, le loro danze d’amore, le loro lotte per contendersi una femmina; la loro cacca sulla testa e sui terrazzi era considerata un segno di buon auspicio.
Da piccoli eravamo convinti che quei colombi vivessero soltanto nella casa di Dio, e non si trovassero da nessun’altra parte sulla terra.
Le nostre nonne ci dicevano: «Portateli altrove e moriranno.» E poi ci mettevano in guardia: «Non fate loro del male.»
Ma più tardi, nei film di Hollywood, vidi che quei colombi dal collare si trovavano dappertutto. Quegli uccelli erano emigrati in tutti i luoghi della terra, abbandonando la casa di Dio?
Anche quella mattina, Nura era uscita senza fare colazione, anzi senza nemmeno lavarsi la faccia, lasciando che fosse l’aria frizzante dell’alba a svegliarla del tutto. Era ancora molto presto quando si ritrovarono per caso in pasadizo San Ginés, nel cuore della vecchia Madrid, davanti alla cioccolateria San Ginés, una delle più prestigiose della città, la cui specialità era la cioccolata calda servita con i churro fritti.
Quando li vide, il giovane cameriere si precipitò verso di loro e fece accomodare Nura a un tavolo d’angolo, rivolgendole un’occhiata ammirata. Lei fece cenno con la testa a Rafa di sedersi, e Rafa obbedì, consapevole che Nura aveva bisogno della sua presenza come di una corazza. Il cameriere tornò subito dopo con un piatto pieno di tante cose prelibate: cioccolatini avvolti in carte colorate e deliziosi pasticcini. Lo appoggiò sul tavolo e se ne andò facendo l’occhiolino a Nura.
Poco dopo, il cameriere tornò, si appoggiò con le mani al tavolo, e, chinandosi verso Nura, le disse con tono ammiccante: «Mi dispiace, mia bella signora, qui non abbiamo un vero e proprio menù, abbiamo solo questo...»
Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori un cartoncino con le foto dei vari tipi di cioccolata e di churro.
«La cioccolata e i churro fritti sono la nostra specialità» disse, sempre rivolto a Nura, «ma li deve gustare insieme: scegliere l’una senza gli altri la priverebbe, mia bella signora, del vero piacere della cioccolata spagnola. Le consiglio di provare. È una vera goduria affondare le dita nella tazza. Gli spagnoli imboccano personalmente le loro innamorate... Allora, che ne dice? Vuole provare? Sarà un piacere che non le capiterà più nella vita!»
Il giovanotto continuava a corteggiarla. Nura annuì, sorridendo.
Arrivò la cioccolata calda, in una enorme tazza. Era veramente deliziosa: densa, scura e zuccherata al punto giusto. Nura, bevendo avidamente, si scottò le labbra e la lingua. Poi, inzuppò i churro croccanti e li addentò voluttuosamente. Rafa sorseggiava il suo caffè in silenzio.
Quando lei si alzò per andare via, Rafa si affrettò, come sempre, a pagare il conto. Mentre tendeva i soldi al cassiere, pensò: questa è una donna con i conti sempre pagati e le valigie sempre preparate, sono altri che concludono affari e guadagnano per lei. Lo shopping, però, doveva averla annoiata, era raro che comprasse qualcosa. Di rado prendeva un gelato, e il gusto che preferiva era quello del frutto della passione. Ogni volta che lo assaggiava, le tornavano in mente antiche parole: «Tieni! Prendi questo shampoo fatto con prodotti naturali: camomilla, fichi d’india e frutto del dolore. Così viene chiamato nel nostro paese, emotivamente represso, il frutto della passione, perché la passione qui si trasforma in dolore.»
Nura contemplava assorta le scene di vita della città che si risvegliava, in cui lei svolgeva un ruolo del tutto casuale partecipando, per un breve istante, a quei momenti in apparenza felici: studenti in gita scolastica che saltavano, correvano e gridavano tutti assieme; un ragazzino solitario che se ne stava seduto su una panchina davanti al Prado, scarabocchiando su un foglio degli alberi... Quel ragazzino risvegliò in lei il desiderio ardente – come un fremito sulle punte delle dita – di un foglio o di muro su cui disegnare. Un gruppetto di sei persone, tre uomini e tre donne grassottelle, con il velo islamico, imprimevano baci schioccanti sulle guance di uno sposo, mentre il vento sollevava in aria il corto velo della sposa, che sembrava avere una fontana zampillante sulla testa. Con il cuore che batteva all’impazzata, Nura chiuse gli occhi tornando ad altri due veli e ad altre due spose, che non smettevano di perseguitarla.
Aprì gli occhi. Rafa la osservava mentre tentava disperatamente di immergersi nel tempo di quella città, il cui ritmo frenetico non rallentava mai. Nura si sentiva come un tappo di sughero in balia delle onde, costretta a inseguirla senza riuscire a conoscerla. Invece, se fosse tornata nella sua città natale, regolata da un tempo lento o addirittura congelato, sarebbe stata messa in pausa, come le molte fondazioni pie costituite per attendere all’infinito il nulla.
Ma no, anche questa volta si sarebbe ripetuta la stessa scena, quella della partenza. Lo sheikh avrebbe continuato a portarla da una città torrida a una ghiacciata, lasciandola sempre in attesa. E sarebbe stato richiamato in qualche parte del mondo dai suoi affari, e lei sarebbe tornata al suo albergo e a quel vuoto, ma in qualche modo avrebbe recuperato la sua umanità e le sue passioni. Così avrebbe fatto anche questa volta, comprando dei fogli e dei pennarelli e rifugiandosi nel cimitero britannico per riscoprire quel suo strano attaccamento al disegno. Avrebbe trascorso ore tentando di tradurre in immagini intellegibili ciò che si agitava nella sua testa, mentre Rafa avrebbe sbirciato quelle linee sfuggite a ogni controllo e finite su quelle pagine.
Rafa, dal canto suo, pensava che se fosse stato incaricato di proteggerla dal suo passato avrebbe miseramente fallito... Quando fuggiva lì, finiva fuori dalla portata del suo radar.
Una mattina, scoprì che Nura era mancina.
Facendo uno strappo alla regola, si era avvicinato per osservare i suoi disegni.
«Ma lo sa che è veramente brava... disegna come se scavasse solchi, come se scrivesse in Braille: volendo, uno potrebbe seguirle anche con le punte delle dita, a occhi chiusi, queste linee.»
Lei lo guardò impassibile.
«In questi giorni Madrid ospita molti eventi culturali... Se vuole, possiamo andare al Reina Sofia, che accoglie una ricca collezione di opere d’arte moderne e contemporanee.»
Lei non rispose. La sua mano si muoveva rapida sul foglio, tracciando parole che si trasformavano in immagini.
Le suda la mano, quando è agitata; ecco la ragazza che io amo. È mancina! Cosa significa? Significa che le linee che traccia sono più vicine al suo cuore.
Penso sia un’artista, lo credo sin dal tempo in cui disegnava bambine con le braccia aperte e la treccia svolazzante, ma con i piedi ben piantati nella terra.
Quando le braccia della mia bambina si tesero per abbracciarmi, mi resi conto con imbarazzo che al mio amore erano venute le mestruazioni.
La mia amata si è liberata dalla forza di gravità, attratta dalla forza di gravità del corpo dell’altro, del maschio.
Si è messa a correre spinta dal suo desiderio, fino ad allora sconosciuto.
Qualcuno aveva lasciato quelle parole nella sua testa, e quando tacevano lei si ritrovava a fare i conti con la sua solitudine, con il fatto che aveva trascorso buona parte della sua vita a fingersi muta... mesi interi senza dire una parola: ma era davvero una finzione o era un mutismo del cuore?
Nel cimitero degli emarginati poteva affrontare se stessa, guardare dentro la propria testa per vedere cosa c’era, e cosa aveva dimenticato... qualcuno aveva accumulato lì tutte quelle parole e, se lei ne avesse sfilata anche solo una, tutto il mucchio sarebbe crollato. Ma c’era tanta rabbia, lì dentro, schegge di vetro conficcate in quell’archivio. Perché la rabbia era l’unica scintilla capace di attirare suo padre, solo suscitando la sua rabbia poteva sperare che lui si accorgesse di lei.
Una mattina si era svegliata e aveva scoperto che il suo viso da bambina aveva perso ogni capacità di farlo arrabbiare... e allora aveva spinto il suo corpo fuori dai confini dell’infanzia. Lo aveva costretto a sbocciare: in una notte aveva avuto le mestruazioni, le sue labbra erano diventate turgide e nei suoi occhi si era acceso un lampo di malizia. Lo aveva fatto nella speranza che lui si destasse e sentendosi minacciato da quella femminilità prorompente tornasse ad arrabbiarsi.
Davanti alla vetrina di un parrucchiere, che mostrava tante foto di uomini e donne con raffinate acconciature unisex, ultramoderne, Nura prese su due piedi una decisione. Entrò e scelse un taglio cortissimo, quasi a zero. Ma, quando si sciolse le trecce, il parrucchiere ebbe un sussulto.
«Oh no, señora!»
Con un gesto elegante, le cinse le spalle e la fece girare sulla poltroncina perché si guardasse allo specchio, investendola con un fiume di parole spagnole, che Nura immaginò volessero esprimere la sua ammirazione per quella cascata nera. Probabilmente, le consigliava di non sacrificarla e insisteva per tagliarle solo le punte, svolazzandole intorno come una farfalla e osservandola come un’opera d’arte. Lei scostò i capelli dal viso e non si lasciò convincere. Non avrebbe cambiato idea!
I capelli caddero sul pavimento e la ragazza di bottega li raccolse per deporli sul tavolo come un cadavere. L’unica cosa a cui Nura riusciva a pensare era che così si era preclusa ogni possibilità di tornare... Incise quell’idea sulla fronte della donna nuova riflessa nello specchio.
Uscì spensierata e leggera. Andando incontro a Rafa con un ampio sorriso, gli chiese di accompagnarla al Reina Sofia. Rafa si sentì lusingato che avesse accolto la sua proposta. Lungo il tragitto la osservò di nascosto: con quel taglio alla francese, capelli cortissimi dietro e davanti lunghi fino al mento, non sembrava più lei.
Al museo, Nura si mise a girare, di piano in piano, come una trottola, con Rafa che cercava di starle dietro e di spiegarle ciò che ricordava. Lei si sentiva come una stampante con l’inchiostro quasi esaurito, stentava a imprimere in sé le immagini, a ricordare i nomi e le date, pur volendo conservare una traccia almeno di alcune di quelle infinite creazioni umane. Ciò che si formava nella sua mente era fragile, senza basi, poggiava sulle sabbie mobili della sua inconsistente preparazione. Nura scopriva di essere priva di cultura, di riferimenti, la sua memoria era fatta di quattro pareti spoglie.
Alla libreria del museo comprò un catalogo intitolato Vitamina B per l’arte. Rafa aveva esitato a lungo prima di consigliarle di sfogliarlo, ma lei, dandogli una scorsa veloce, aveva provato un crescente senso di leggerezza di fronte a tutti quegli autori e quelle correnti artistiche: una vera mappa del tesoro, che rendeva ridicola l’unica pagina strappata in cui erano riassunte tutte le sue conoscenze, limitate a un vicolo insignificante, impegnato a risolvere rebus e a nascondere donne a cui faceva difetto la pazienza!
Quella notte, mentre era a letto, Nura sentì una voce flebile, che passò veloce come lo scatto di un obiettivo. Veniva dall’altro cuscino. Si girò, nel sogno, ma non vide nessuno.
Eppure, qualcuno correva verso di lei, più leggero del vento ma anche minaccioso, e anche lei correva per mettersi in salvo, ma continuava a essere inseguita. Se cercava di aggrapparsi a qualcosa, i passi dietro di lei acceleravano e accrescevano il terrore nel suo cuore. Sentiva che i polmoni stavano per scoppiarle. Finalmente, si fermò per riprendere fiato, si guardò indietro e vide un giovane uomo la cui pelle nera era in stridente contrasto con le sue scarpe da tennis bianche e il suo sorriso splendente. Lui non le rivolse la parola, e tutto sembrò congelarsi, ma ormai non aveva più nessuna importanza. Il giovane uomo si accovacciò proprio ai suoi piedi, puntando verso di lei un teleobiettivo e il suo sorriso smagliante. Le rubò uno scatto, poi si mise di nuovo a correre per raggiungere la sua terra remota... Nura si svegliò sentendosi derubata: aveva un vuoto nel petto, proprio là dove il giovane uomo aveva puntato il suo teleobiettivo.