La sepoltura
«Certe notti mi sveglio in preda al rimorso. Per cosa? Non lo so! In quei momenti ho un unico pensiero in testa, sento una voce che mi dice: tu sei una che lotta! Ma è un rimprovero!»
Tacque, ascoltando l’eco di quel rimprovero. Rafa la osservava con attenzione. La sovrapposizione del dipinto di Picasso e di quello di El Greco l’aveva turbata profondamente. «Sarò anche una che lotta, ma non per molte cose. Sicuramente non per un principio, o per una vita migliore, o per una patria. Niente di tutto questo mi ha mai interessata, adesso so che si è sempre trattato di piccoli, stupidi capricci. Ho ingaggiato un’unica vera lotta, che ho perduto, quella per l’amore.»
Fece un gesto con la mano, come per scacciare un sogno.
«L’unico uomo di cui ho cercato di conquistare l’amore invecchiava a una velocità sorprendente, a vista d’occhio, diventando sempre più debole, ma il suo cuore no, il suo cuore non si inteneriva, rimaneva chiuso a doppia mandata. Batteva meccanicamente, ignorando i palpiti dei cuori di carne. Quell’uomo era mio padre, fiero di appartenere alla razza granitica che aveva combattuto con o contro Abdulaziz Al Saùd, il quale, negli anni venti del ventesimo secolo, aveva unificato la penisola araba e fondato il regno saudita. Mi toccava sopravvivere accanto a quel cuore di pietra, prendendo le mie decisioni da sola, senza che i sentimenti interferissero. Il primo sentimento che cancellai fu la paura delle conseguenze. Da allora, niente ebbe più importanza.»
Le tremava la voce, mentre pronunciava quelle parole che riaprivano antiche ferite. Un turista, con un sorriso cortese, le porse il volume su El Greco che le era caduto. Lei se lo posò distrattamente in grembo, aperto a una pagina a caso, quella con l’Adorazione dei pastori, dove pastori e angeli, meravigliati, estatici, celebrano il miracolo della nascita di Gesù. Era l’ultima tela che El Greco aveva dipinto, l’aveva finita poco prima di morire e l’aveva destinata alla propria tomba nella chiesa di Santo Domingo el Antiguo. Di fronte a quella scena Nura si trasformò in un fiume in piena, abbandonandosi alla rievocazione del suo passato, mentre Rafa cercava di non perdersi neanche una parola di quel che lei diceva a bassa voce, quasi in un bisbiglio. La luce che Gesù Bambino emanava sembrava riflettersi anche sul viso di Nura, oltre che su quelli dei pastori scalzi.
«Un giorno ti svegli e ti dici che quella mattina sarà diversa da tutte le altre che hai vissuto... che tu sei sulla vetta del mondo, e tutti i sogni fatti la notte precedente ti stanno aspettando lì fuori, e tu non devi far altro che andare in punta di piedi verso la porta, e socchiuderla, e farli sedere accanto a te sul letto, e lasciare che ti riempiano il grembo di sorprese... ma quella mattina il suo grembo era già pieno, di altro. Apparve e mi fece segno di tacere, il gemito che represse lo sentii nel mio stesso corpo. Era come guardare la mia immagine in uno specchio deformante, mentre lei, in preda al dolore, mi supplicava di aiutarla. Sentii in bocca un gusto di sudore, lacrime e sangue. Non sapevo cosa fare, le doglie aumentavano d’intensità e non ci lasciavano il tempo di pensare! “Come hai potuto nasconderlo per tutto questo tempo?” Uno spasmo di dolore fece cadere nel vuoto quel rimprovero, le acque si ruppero scorrendole tra le gambe, bagnando anche le mie fino ai piedi. Per poco non svenni, sentendo l’odore di quel liquido e del sangue. Mi inginocchiai tra le sue cosce per aiutarla e un diluvio mi investì. Non c’era altro tempo da perdere, non potevo più andare a cercare aiuto. Il tempo a nostra disposizione era scaduto, il mondo si era chiuso su di noi: su di me e su quel ventre che si contraeva. “Nessuno lo deve sapere!” Sprecò del fiato per quell’implorazione, la bocca dell’utero si chiuse sul bambino. Non so per quanto tempo sia rimasto sulla porta della vita, aspettando di essere liberato, ma alla fine le mie mani istintivamente affondarono nel ventre umido, nella carne e nel sangue di quell’utero... Ancora adesso, ogni volta che afferro qualcosa, le mani mi tremano allo stesso modo.»
Le tese, per far vedere a Rafa come tremavano.
«Mi sembra ancora di sentire la vagina che si dilata al passaggio del corpo soffice del bambino. Cercai di liberare un piedino, il destro, che si era incastrato... con la mano spinsi dentro il sinistro, che aveva fretta di venire fuori, cercando di riunire le due gambette perché uscissero insieme. La mia paura era che il bambino facesse del male a sé o a lei. In quelle ore, un unico istante di intenso buio, io affondai dentro la donna che per tutta la vita avevo considerato la mia sola amica... la mia anima gemella, che sapeva leggermi come un libro aperto a dispetto della differenza di età che c’era tra noi. Io sfiguravo di fronte a lei, appassionata e piena di tenerezza verso gli altri, capace di esprimere il suo mondo interiore con le straordinarie parole incontrate nei libri. In quel momento di vita o di morte, non seppi trovare il linguaggio giusto per comunicare con lei, per entrare in sintonia con il suo tempo rallentato. Non aveva fretta di spingere fuori quel bambino, pur con tutta la paura dello scandalo, sembrava che volesse continuare a nasconderlo dentro di sé. Ma una contrazione violenta esplose nell’utero mettendo fine alla sua esitazione. Il bambino uscì, senza un vagito, e io rimasi intrappolata tra due grumi di sangue, aspettando da una parte che la placenta venisse espulsa e dall’altra che i polmoni si riempissero d’aria con il primo respiro. Ero spaventata all’idea che le pareti dell’utero potessero richiudersi trattenendo al loro interno la placenta. Poi però con la coda dell’occhio la vidi mettersi quasi seduta, e vidi la placenta scivolare sul pavimento. Allora mi concentrai sul corpicino scivoloso che avevo tra le mani, chiuso in un silenzio assoluto. Non avevo niente con cui tagliare il cordone ombelicale, così lo chiusi con una delle mie forcine. Misi il bambino a testa in giù e gli massaggiai il petto, per stimolare i polmoni. Il tempo si fermò, mentre quel corpicino tra le mie mani, pensoso ma tranquillo, mi contemplava: i suoi occhi chiusi guardavano nel profondo di me stessa. Con l’indice aprii la sua bocca umida e insanguinata, posai le labbra sulle sue labbra cianotiche, inspirai profondamente: un gusto... non lo si può descrivere a parole, non era salato, non sapeva di sangue... era il sapore della vita. La mia gola si riempì di quel liquido e ancora adesso, spesso, mi sveglio di notte tossendo per espellerlo. Un ultimo disperato respiro soffiato tra le sue labbra ormai blu, e un fremito corse nel suo petto. Emise un vagito. Ero felice, ma anche spaventata, perché qualcuno avrebbe potuto sentirlo. Così quel corpicino, comprendendo la mia paura, fece silenzio... un silenzio definitivo. Era vissuto un momento e ora era morto. Non so per quanto rimanemmo lì, con quella vita morta tra noi. Dopo ciò che avevo provato, non sarei mai stata capace di seppellire quel bambino che giaceva sul mio petto. Il suo sangue si era rappreso sui miei capezzoli. Lei si alzò e si avviò, con il suo passo leggermente claudicante, e io la seguii, ci muovevamo quasi incollate. Scavai con una mano, stringendo forte il bambino al petto con l’altra. Il mio desiderio di maternità era tutto in quel tenero fagotto di carne. Quando la buca fu abbastanza grande, lasciai che lei lo prendesse. Non volle guardare i suoi organi sessuali, voleva lasciarlo al di fuori di qualsiasi genere. Prima che la terra lo sfiorasse, mi girai e me ne andai.»
Ora Nura e la guardia del corpo sedevano in silenzio su una scalinata scavata nella roccia, a Toledo. L’energia luminosa che scaturiva dal volto di Gesù Bambino animava i movimenti dei turisti, simili a passi di danza. Quegli straordinari contrasti di luci e ombre nel dipinto e nel cielo della città enfatizzavano la tragedia. La risata squillante di una ragazza portata sulle spalle dal fidanzato capellone. I balbettii di una signora anziana, che danzava da sola sulle note del violino suonato da un barbone con indosso uno sgargiante costume gitano. La voce di Nura si gonfiò come un’onda sollevata dal vento in un luogo e un tempo lontanissimi. Distrattamente, con le punte delle dita, accarezzava il corpo nudo di Gesù attorniato dai pastori. Poi si alzò e si mise a correre, come se volesse fuggire via da quel bambino, e Rafa le andò dietro.
Sembravano muoversi nei brillanti, dissonanti colori del dipinto, nelle luci e nelle ombre in cui erano immerse le figure. Dopo un po’, si ritrovarono davanti al maestoso ponte gotico di San Martín, uno degli accessi monumentali al centro storico di Toledo, risalente al quattordicesimo secolo, dal quale si godeva di una vista magnifica sulla città e sui più bei tramonti di tutta la Spagna.
«Quella notte mi rifugiai sotto le scale, con i miei fogli e il mio carboncino, e incisi un feto in decine di disegni, ma nessuno fremeva di vita, nessuno emanava il calore di quel bambino appoggiato sul mio petto, morto, nessuno aveva il sapore di quel liquido. Per oltre sette mesi rimasi muta, incapace di dire anche solo una parola, perché non volevo che quel sapore si disperdesse... il grembo di una donna nella bocca di un bambino, ma anche il mio sapore più intimo, senza il quale il mondo sarebbe morto, lasciandomi sola, senza più nessuno che mi conoscesse. Quel bambino avrebbe dovuto uscire dal mio utero, per dissipare tutti i dubbi sulla mia sterilità. Non ebbi mai il coraggio di chiederle cosa aveva potuto spingere una donna sposata a rifiutare una gravidanza.»
Nura tacque, e nell’aria si levò la musica di un violino. Molte persone iniziarono a muovere qualche passo di danza, e si trovarono a ballare febbrilmente. Tutto nell’aria fluttuava in preda all’ebbrezza del tramonto. Sembrava di camminare nella Sepoltura del conte di Orgaz: le forme e le pose strane di quei corpi, accentuate dall’estrema distorsione subita, si confondevano con quelle dei corpi dei turisti, che assumevano posizioni esagerate, tragicomiche, le loro risate erano più squillanti, i silenzi più profondi, il desiderio aleggiava sulle loro teste come una macchia di sangue che tingeva di rosso la città. Tra Toledo e le rosse cime della sua montagna non c’era più alcuna distinzione.
Il disco rosso del sole sembrava fisso, come dipinto all’orizzonte. Alle loro spalle si ergeva la città rocciosa, orgogliosa di sfiorare con la testa il cielo e di bagnarsi i piedi nel fiume Tago.
Il tempo sembrava essersi fermato, Nura appariva come una creatura di un’altra epoca, che, per quanto si sforzasse di fuggire via da quel tempo lontano, era condannata alla solitudine. Davanti a quello spettacolo, sentì una voce interiore che le diceva: noi tutti mettiamo in atto un eterno processo di rimozione, di travestimento... un continuo gioco di mascheramento ovunque... ovunque si sia costretti a nascondere religione, convinzioni, gravidanze, realtà, conflitti, identità sessuale... il fondamentalista si maschera da liberale, il razionale da folle, l’ebreo da cristiano o da musulmano, il dissoluto da timorato di Dio, e questo solo per essere accettati, o per conquistare l’affetto altrui, o per ottenere potere e poltrone, o più semplicemente per essere dimenticati e vivere in pace.
Nura sentì che anche lei, come tutti gli esseri umani, prendeva parte a quel gioco di negazione di sé e di mascheramento. Tutti – uomini, bestie, minerali – non erano altro che maschere dell’onnipotenza divina, che si manifesta attraverso l’estrema miscredenza ma anche attraverso il suo contrario, la fede, attraverso l’estrema ascesi ma anche attraverso la dissolutezza, per manifestare la propria pienezza.
La vita nel vicolo della sua infanzia ruotava intorno a questo mascherarsi. Se ne era resa conto sin da piccola, anche se allora non avrebbe saputo spiegarlo a parole. Quante maschere cadevano in quel vicolo lontano, quando un passante credeva di non essere visto, quando si sentiva al sicuro nell’isolamento e nel totale silenzio! Solo allora aveva il coraggio di mostrarsi per quel che era, rivelando il suo vero volto a Dio perché lo vedesse senza giudicarlo o punirlo, e per un istante non esisteva più differenza tra colui che vedeva e colui che era visto. Una stupefacente varietà di trame di tutti i generi, dal tragico, al drammatico, al comico, con continui colpi di scena, era rappresentata in quel vicolo sperduto. Solo i colombi replicavano all’infinito lo stesso atto, alzandosi in volo ogni volta che sentivano il rombo della motocicletta del suo amore, e disegnando un cerchio nel cielo come per liberarsi del peso insostenibile della nostalgia. In quei momenti, il suo cuore batteva all’impazzata, facendole correre il rischio di essere scoperta. Quante erano le maschere che avrebbe voluto strappare via per mostrare il suo vero volto?
Quel rombo scatenava in lei il desiderio di fuggire, di trasformarsi nei gas di scarico di quella motocicletta per propagarsi ovunque e penetrare in ogni naso e in ogni petto.
«Dio misericordioso, ti ringrazio! Siete qui, per fortuna vi ho trovati! Temevo che foste partiti!»
Il flusso dei ricordi era stato bruscamente interrotto dall’improvvisa apparizione della donna incontrata al mattino.
Era trafelata e respirava a fatica. Rafa era sbalordito. Qualcosa gli diceva che quello non era un buon segno.
«Vi ho cercati in tutta Toledo, poi mi è venuto in mente questo posto... sapevo che vi avrei trovati qui!»
Nura non si scompose quando la donna, che si era asciugata il sudore sulla fronte con la sinistra e poi se l’era pulita sui pantaloni, le afferrò la mano come per leggergliela.
«Da quando ti ho lasciata» le disse, «ho il tuo volto davanti agli occhi. Sapevo di averti già vista da qualche altra parte.»
Il viavai di macchine e persone si era interrotto, il sole era un disco arancione all’orizzonte, e gettava ombre sinistre sui muri dei palazzi e sulle strade. Nura e la sua guardia del corpo trattenevano il respiro. Rafa sentiva di non avere alcun controllo sui destini che si erano incrociati intorno a Nura, conducendola fin lì.
«Vi prego, venite con me. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»
Senza dare loro il tempo di obiettare, la donna si incamminò. A loro non restò altro da fare che seguirla. La donna li riportò alla moschea del Cristo de la Luz, dove tutti e tre fissarono con reverenza la facciata di mattoni su cui si aprivano degli archi che richiamavano alla mente quelli della Grande Moschea di Cordova.
«Questa moschea, consacrata al culto cristiano nel dodicesimo secolo, non ha subito nessun rimaneggiamento. Qui è custodita la statua del Cristo salvato, che era stata murata in una parete, e questo per evitare che l’edificio venisse distrutto. La statua venne scoperta all’epoca di Alfonso VI e del Cid.»
La donna li prese tutti e due per un braccio e li portò a dare un’occhiata all’interno: regnava un silenzio assoluto, il sole al tramonto non riusciva a penetrare con i suoi raggi sotto il soffitto a volte.
«Il transetto e l’abside in stile mudejar furono aggiunti più o meno quando saltò fuori la statua del Cristo.»
Era come se la moschea, che sembrava completamente abbandonata, trattenesse il respiro in attesa di qualcosa. Senza guardie né imàm, a Nura fece venire in mente un giocattolo, con la sua forma cubica e le sue splendide decorazioni.
Rafa tornò fuori per leggere l’iscrizione in arabo sui mattoni della facciata principale: «Nel nome di Dio, Ahmad ibn Hadìdi ha fatto erigere questa moschea a proprie spese, per guadagnarsi in cambio il paradiso. L’architetto Musa ibn Alì l’ha completata, con l’aiuto di Dio, nel 389 dell’egira.»
La donna approfittò del fatto che Rafa era impegnato con la lettura di quell’iscrizione per chiudersi alle spalle il portone. Nura si ritrovò sola con lei in quello spazio vuoto, mentre i colpi furiosi di Rafa sul portone spezzavano il silenzio. Non sapeva cosa fare, pensò di darle una spinta e di fuggire, ma subito rinunciò, non sapendo se a farla desistere fosse stato il lampo di follia negli occhi della donna o il coraggio del suo nuovo io che la spingeva a vivere fino in fondo quella situazione così singolare. Decise che non si sarebbe sottratta. Non le importava del pericolo!
La donna fece fermare Nura sotto ognuna delle nove volte che, come occhi di giganti, seguivano i loro spostamenti. Voleva che guardasse le splendide decorazioni, ma Nura non osava farlo per paura di esserne risucchiata. Sotto una di quelle volte, la donna le mostrò una stella a sette punte, costringendola a guardarla.
«Prima di procedere oltre» le disse, «sappi che ti rivelerò qualcosa che riguarda la rivalità tra i nostri due straordinari antenati, il mio, l’ebreo Samuel ibn Nagrela, grammatico, poeta e talmudista dell’undicesimo secolo, e il tuo, il musulmano Alì ibn Hazm, filosofo e poeta, nato anch’egli nell’undicesimo secolo, a Cordoba, poco prima dell’inizio delle lotte etniche che portarono alla frammentazione del califfato andaluso in tanti piccoli regni in guerra tra loro. Entrambi erano convinti che la caduta dell’umanità fosse avvenuta non per colpa di Adamo ed Eva, bensì a causa della caduta di Cordova e della fine dell’armonia e della convivenza pacifica tra tutte le differenti fedi.»
Solo allora Nura si rese conto del fatto che la donna parlava un arabo classico fluente.
«Sì, il mio antenato possedeva un grande talento per la lingua araba e la calligrafia araba. Fu questo a cambiare in modo sostanziale le sorti della sua vita.»
Nura guardò la donna senza lasciar trasparire alcuna emozione, non voleva che le leggesse negli occhi.
«Dopo la caduta del califfato andaluso e l’inizio delle guerre fratricide tra i reyes de taifas, i destini dei due uomini si divisero, ma entrambi continuarono a essere animati dal desiderio di raggiungere una qualche porta che li riportasse nel paradiso che avevano perduto in terra. Ibn Hazm cercò rifugio vicino a Siviglia, da dove continuò a piangere la fine di Cordova e la distruzione della sua magnifica biblioteca che nel corso dei secoli era stata rifornita di libri straordinari grazie alle carovane che da Baghdad attraverso le piste dell’Africa settentrionale giungevano fino all’Andalus. Rincorse il sogno di riportare in vita il califfato islamico e la civiltà cosmopolita che aveva patrocinato, credendo che quella fosse la chiave per il paradiso perduto. Si schierò in favore di un partito politico, e sperimentò anche la prigione. Dopodiché, la sua vita mutò radicalmente indirizzo: trascorse il resto dei suoi anni scrivendo libri in cui riassumeva la saggezza di quella straordinaria biblioteca andata distrutta, per modellare una chiave che aprisse una porta tra le diverse religioni. Fece una serie di comparazioni tra le tre religioni monoteistiche, che culminarono nel capolavoro intitolato Il collare della colomba. Quella chiave Ibn Hazm la trovò nell’amore che costruisce ponti tra gli esseri umani. Samuel ibn Nagrela, invece, legò la sua sorte al sultano nasride di Granada, che lo accolse a corte. La città andalusa, che all’epoca ospitava una vasta comunità di ebrei e di musulmani, era diventata, grazie ai sultani nasridi, uno dei centri culturali più brillanti della Spagna. Samuel ibn Nagrela visse due vite: la prima, in arabo, come consigliere e ministro del sultano e capo del suo esercito, e la seconda, in ebraico, la sua lingua madre, come autore di poesie. Questi due uomini esaltarono il paradiso dell’Andalus, piansero per la fine del dialogo tra culture e religioni e andarono in esilio predicando la saggezza della Cordova dell’undicesimo secolo, i cui uomini di pensiero erano stati uccisi e la cui magnifica biblioteca era stata distrutta.»
La donna avvicinò il viso a quello di Nura. I suoi respiri avevano l’odore della camomilla.
«Ognuno di loro ci ha dato la sua personale versione della chiave della porta del paradiso: Ibn Hazm lasciò il suo libro, Il collare della colomba, e Samuel ibn Nagrela lasciò suo figlio, Joseph, a cui trasmise in eredità le sue poesie e i suoi ideali, e anche l’ossessione per il paradiso. Joseph credeva che le traduzioni avrebbero strappato i veli che nascondevano la mente assoluta, il paradiso assoluto. Pensava che bisognasse tradurre tutte le opere straordinarie frutto di quel dialogo tra civiltà che si era svolto nel periodo di massima fioritura del regno islamico dell’Andalus, di cui si era alimentata anche la cultura ebraica del nord della Spagna, grazie alla quale le scienze furono poi trasmesse all’Europa. Furono le traduzioni del mio antenato Joseph ad aprire la porta del paradiso al mondo. Ho trascorso gli anni della mia giovinezza con l’ossessione di quell’uomo, Joseph ibn Nagrela, che a un certo punto si pensò fosse stato ucciso. Successe quando centocinquanta famiglie di ebrei vennero crocifisse per le strade di Cordova, e questo in un’epoca in cui ogni contatto tra le diverse religioni era ormai giudicato un crimine, equiparabile all’eresia e punibile con la morte.»
La donna aveva condotto Nura, gradualmente ma con decisione, verso l’abside. I suoi respiri, che sapevano di camomilla, accrescevano in Nura il senso di nostalgia.
«A Joseph però mancava la modestia del padre, e questo gli procurò molti nemici. Tuttavia, in occasione di quel massacro Joseph non morì, scappò da Granada e andò verso la porta che gli era apparsa in sogno, che lui sapeva essere custodita all’estremità meridionale della penisola araba.»
All’improvviso divenne tutto buio, la donna aveva spinto Nura dentro l’abside e aveva chiuso la porta a chiave, e le tenebre le avevano inghiottite.
«Stenditi sul pavimento e osserva il cielo sopra e sotto...»
Nura si stese, appoggiando la schiena a qualcosa che somigliava a una stretta scala scavata nella pietra. La donna sembrava svanita. Nura pensò che l’avesse lasciata lì a morire, ma era troppo frastornata per alzarsi e cercare una via di fuga.
Per qualche istante, l’abside fu risucchiata da strati su strati di tenebre, che attutivano i battiti accelerati del suo cuore... Il freddo del pavimento le penetrò fino alle ossa attraverso il vestito leggero. Improvvisamente, un raggio di sole filtrò da una finestra, illuminando anche le altre finestre dorate che coprivano tutte le pareti dell’abside, che sembrò sollevarsi prendendo vita nella luce soffusa del tramonto. I raggi del sole si riversavano come una cascata all’interno dell’abside e il corpo del tempio si gonfiò come un vortice rosa, nel quale lei riuscì a intravedere una scala a spirale, troppo stretta per salirci e senza corrimano. Le ci volle del tempo prima di riuscire a distinguere le macchie luminose sulle pareti. Dal pavimento al soffitto, l’abside era tappezzata non di finestre bensì di piccole porte colorate piene di incisioni che, illuminate dai raggi del sole al tramonto, abbagliavano la vista, ora rosate, ora rosso sangue, ora minacciosamente scure. Nura chiuse gli occhi e li riaprì, incredula davanti a quello spettacolo. Un istante dopo, tutti quei rettangoli dorati si fusero in uno solo, un’enorme porta aperta sul cielo.
La donna riprese: «Questo è ciò che apparve agli occhi di Joseph, figlio di Samuel ibn Nagrela ed erede del suo sogno, dopo che aveva raggiunto il villaggio di Salomone, all’estremità meridionale della penisola araba.»
In quel momento, il sole si tuffò dietro il monte e l’abside fu inghiottita dall’oscurità; un’oscurità spessa, densa, tangibile come un corpo vivo, che avvolse Nura, la quale non ebbe altra scelta che quella di rilassarsi. Sentiva i muri spessi trasudare respiri al profumo di camomilla. Quell’odore pervase Nura, facendole venire le lacrime agli occhi: era qualcosa di speciale, arrivava dalla sua infanzia, somigliava molto all’odore delle foglie di qat che gli yemeniti erano soliti masticare al tramonto per raggiungere l’estasi. Nura era sicura che quella donna l’aveva drogata!
Aveva le gambe e le braccia pesanti e la vista offuscata, eppure riusciva a leggere attraverso le cose e il suo stesso corpo, che aveva perso densità, trasformandosi in un pulviscolo volteggiante nel buio. Gradualmente, diventando tutt’uno con quell’oscurità, Nura iniziò a sentire delle voci lontane, delle parole in arabo. Forse era la donna, che stava parlando al di là della porta chiusa, o forse quella storia scaturiva da lei stessa, immersa in una mente assoluta che proveniva dal passato, probabilmente la mente di Joseph ibn Nagrela, ritto sul ponte della nave portoghese che aveva fatto rotta verso l’estremità meridionale della penisola araba.
Mentre la nave entrava in porto, si era levato un canto yemenita. Le onde lambivano i piedi di Joseph ibn Nagrela, steso sulla spiaggia del porto di Aden, senza bagaglio e senza effetti personali, soltanto con gli abiti che aveva indosso. La sua mano sfiorava la pergamena nella tasca, con il disegno della porta.
«Fratello, riparati dal sole!»
Quella voce lo svegliò. Aveva dormito per due giorni, lì sulla spiaggia, senza mangiare e senza bere. Lo sconosciuto parlava in arabo, e Joseph si rese conto che stava cercando di strapparlo all’incoscienza in cui era caduto.
Joseph tirò fuori il disegno che aveva in tasca e lo aprì sotto gli occhi dell’uomo. Indicando la porta d’oro, disse: «Sto cercando questa.» Antiche parole arabe, impregnate di salsedine, traboccarono dalle sue labbra. Da quando era salpato, non aveva più parlato con nessuno. Quella traversata durata mesi era stata una discesa nel ventre dell’inferno.
«Mi è apparsa in sogno, è una porta tra il paradiso e la terra. Ho fatto delle ricerche, e ho scoperto che si trova all’estremità meridionale della penisola araba e conduce al villaggio di Salomone, che accoglie tutte le porte esistenti sulla terra. Perciò è chiamato anche Eden.»
Per giorni Joseph viaggiò nello Yemen, ripetendo, in un arabo stentato, quella storia che nessuno era in grado di capire. Tutti però, appena vedevano il disegno della porta, capivano che quello era un uomo ossessionato da un mondo diverso dal loro. Infine, la sua strada si incrociò con quella di un mendicante che, con voce allegra, si presentò.
«Al vostro servizio, sono Sulayman Farhàn, Felice Salomone.»
Davanti al disegno della porta, Felice Salomone tacque. Poi, dopo aver ascoltato i suoi ginn, guardò dritto negli occhi Joseph e gli disse: «Io sono lo schiavo di Dio. Posso decifrare qualunque linguaggio, anche quello degli animali. Mettimi pure alla prova! Sono una replica in piccolo di re Salomone.»
Felice Salomone si consultò con i suoi ginn per cercare di localizzare la porta. Alla fine esclamò: «Tu vai in cerca di qualcosa che i figli di Eva non potranno mai raggiungere! I ginn mi hanno spiegato che ci sono montagne di porte, che però non si aprono davanti a nessuna creatura vivente.»
«E davanti ai morti?»
«I ginn conoscono solo la vita, non si lasceranno confondere dai tuoi enigmi sulla morte!»
Felice Salomone, comunque, accettò di fare da guida a Joseph ibn Nagrela nella valle dell’Hadramaut. Avanzavano a piedi, scalando le montagne della felice terra dello Yemen, ma evitarono la cittadina di Seyùm e il suo famoso mercato di manufatti artigianali. Joseph intravide le donne di Seyùm che, con i loro caratteristici copricapo di paglia a forma di cono e le loro vesti ricamate, accoglievano i viaggiatori con musiche e danze. Lo fecero anche con Joseph, per indurlo a comprare le loro merci.
Evitarono anche Haggiarin, una cittadina arroccata sulle montagne, famosa per la produzione di un miele delizioso. Felice Salomone mise in guardia Joseph ibn Nagrela: «Se ti fai intrappolare dalla montagna di miele di Haggiarin, di’ pure addio alle tue porte! Questo miele è come la nostra progenitrice Eva che allettò Adamo offrendogli le delizie del proprio corpo, ma facendogli perdere il paradiso.»
Evitarono anche Shibàm, nel cuore dell’Hadramaut, e invece scalarono la grande montagna alle spalle di quella cittadina. Da lì, contemplarono gli edifici di mattoni di argilla per cui Shibàm era famosa nel mondo. Alti fino a sette piani, sembravano giganti accalcati in un’area di non più di cinquecento metri quadri. Shibàm, adagiata sul fondo della valle dell’Hadramaut, era avvezza alle distruzioni, soggetta com’era alle piene improvvise che scendevano impetuose dalle montagne e distruggevano i suoi meravigliosi edifici.
«Devi superare il serbatoio delle acque, prima di raggiungere i templi!»
Felice Salomone guidò Joseph ibn Nagrela finché non furono in vista dell’antica città di Marib, famosa per la grande diga costruita sul wadi Dhana e per le rovine di due templi legati a Bilqìs, la regina di Saba. Marib era nota anche perché sorgeva tra due giardini paradisiaci.
«Ti lascio qui perché tu possa portare a termine il viaggio da solo» disse Felice Salomone. «Se sarai fortunato, Salomone, signore dei ginn e degli uccelli, ti permetterà di entrare nel suo villaggio, che porta il nome di Sigillo di Salomone.»
Detto questo scomparve, e Joseph si ritrovò da solo tra i due templi, quello di Bar’an, il tempio del Sole, e quello di Awwàm, il tempio della Luna, dedicati entrambi all’antico dio Ilumquh.
La prima notte, Joseph fu avvolto da tenebre così fitte che diventò invisibile, mentre un lago di ombre aleggiava nel cuore della valle e sul tempio di Awwàm e mostrava a Joseph il luogo in cui gli innamorati di tutta la penisola araba andavano a morire.
Con l’avanzare della notte, il tempio, cinto dal cosiddetto muro ovale, a forma di mezza luna, ricavato da un monolite di calcare bianco alto nove metri, prese vita. Si levò dalla sabbia protetto dalle otto colonne a est, invitando Joseph a entrare, allettandolo con la vista dei pilastri rivestiti di madreperla e di pietraluna della camera sacra, ornata di marmo trasparente intarsiato con argento, oro e pietre preziose.
Joseph trascorse quella notte e le successive, come stregato, nella camera sacra, tra i quattro pilastri centrali, ascoltando i due pannelli ai lati dell’ingresso che mormoravano preghiere invocando amore e prosperità, sollecitando la regina di Saba, Bilqìs, ad apparire, sorgendo dalla sabbia del colore del latte.
E Bilqìs, eterea come la luce della luna che la rischiarava, attraversò nuda il tempio in punta di piedi, per andare a indossare l’argentea veste rituale, che non le copriva né le braccia né le spalle e aveva due spacchi laterali che le arrivavano alle cosce. Con la corona sul capo, scalza, avanzò regale fino agli scranni scavati nel marmo che circondavano il tavolo di pietra, e restituì la vita al padre Sole e alla madre Luna, assisi alla destra e alla sinistra di Venere, luminosa stella del mattino. Poi Bilqìs evocò il suo amato, il dio Ilumquh, a cui quel tempio era dedicato. Con la sua luminosa presenza, Ilumquh fece risplendere il marmo delle colonne che luccicarono come specchi, riflettendo i volti degli innamorati che risorgevano dalle tombe ai lati dell’ingresso della camera sacra. Joseph era tormentato dal desiderio di Bilqìs, che aveva sgombrato la sua anima da ogni affanno, tranne che dalla nostalgia per quella porta.
Infine, quando la luna scomparve Joseph la seguì. In mezzo a un fiume di innamorati risorti, vivificati dai respiri di Bilqìs, camminò per tre chilometri verso ovest, attraversando campi di henna e di caffè; lo guidavano come un faro i sei pilastri, ricavati da monoliti e ornati con capitelli, della camera sacra del tempio del Sole. Lì giunto, varcò l’ingresso principale, percorse il vestibolo dove ancora risuonavano gli echi degli antichi festeggiamenti al dio Ilumquh, e degli scongiuri per tenere i ladri lontano da quel luogo sacro, e salì i gradini che conducevano all’altare, dove il toro sacro affondava le sue zampe per quattro metri nella terra, inseminandola e imbrattando di sperma gli amanti.
Per giorni Joseph raccolse e tradusse le suppliche che gli innamorati rivolgevano al dio Ilumquh, e le incise, in caratteri cuneiformi, sui pilastri della camera sacra, illuminati dal sole. Ricevette lui stesso le offerte portate da ogni parte della terra: vasi pieni di spezie, profumi, incensi e argento venivano deposti dai pellegrini innamorati ai piedi delle pareti del vestibolo. A Joseph, il tempio appariva come uno spazio sfavillante di marmo trasparente che assorbiva i raggi del sole, avvolto da lievi vapori di cannella e da un fluttuare di fragranze che guarivano i suoi sensi. In quella luce soffusa prendeva corpo l’immagine ingigantita della porta.
Ovunque si diffuse la notizia di questo eremita che aveva riportato in vita l’antico pellegrinaggio rituale tra Bilqìs e il suo amato, il dio Ilumquh. Joseph accoglieva gli innamorati che giungevano lì per propiziarsi gli incantesimi della luna, ma anche i coltivatori e i pastori che lì si recavano per invocare la benedizione del sole. Con una pazienza certosina, raccoglieva dalla bocca e dal cuore degli uni e degli altri poesie d’amore e canti agresti e pastorali. Pellegrini raggianti giungevano da tutta la penisola araba, perché lui li accogliesse in quei due paradisi. Nel cielo si addensavano le nubi di quei versi e le loro dolci note piovvero sul wadi Hadramaut, svelando così a Joseph il motivo per cui quel paese veniva chiamato Yemen Felix.
Al settimo sorgere del sole, Joseph fu svegliato da un lieve profumo di incenso e subito accecato da fasci di luce scintillanti all’orizzonte. La montagna di fronte era coperta da grandi lamine rettangolari d’oro. Guardandole meglio, si accorse che erano delle porte che la rivestivano. Corse come un forsennato in quella direzione, in cerca di un’entrata, ma quando raggiunse la montagna le molte porte si unirono in un’unica grande porta che gli si chiuse in faccia. Bussò, ma invano! Al tramonto la porta svanì, inducendolo a credere che si fosse trattato solo di un miraggio, tuttavia non ebbe il coraggio di andarsene.
Alba dopo alba, quelle porte tornarono a risplendere, e a trasformarsi in un’unica grande porta sbarrata non appena lui si avvicinava, negandogli l’accesso. Joseph era diventato magrissimo, sopravviveva bevendo acqua e il latte di capra che gli portavano le ragazze del villaggio di Salomone, nei pressi di Marib. Quelle ragazze erano le discendenti di re Salomone e della regina Bilqìs.
«Queste sono porte che si aprono tra tutti gli esseri, animali, piante e minerali, ma anche tra le diverse lingue, tra la vita e la morte, e solo Dio sa tra cos’altro ancora! Alcune si sono aperte davanti a re Salomone, che per questo veniva chiamato Re dei Ginn, ma nessun altro essere vivente le ha varcate. Tutto sta nella chiave! Devi trovare quella giusta, il primo esemplare forgiato, prima di poter anche solo sognare di raggiungere la grande porta ed entrare.»
Il sole aveva asciugato la pelle di Joseph, rendendola scura e rigida come un pezzo di legno, ma la luna l’aveva resa lucida, conferendole un riflesso argenteo. Le sue treccioline, nere come il carbone, si allungavano sempre di più. Si stava assottigliando per diventare come una chiave, per cercare di aprire una delle porte, ma ogni volta che provava ad avvicinarsi quelle diventavano una sola impedendogli di entrare. Raggiunse i settant’anni senza mai perdere la speranza. Dopodiché, una mattina si svegliò e si accorse che il suo seme aveva arrotondato il ventre delle ragazze del villaggio di Salomone. Quando furono colte dagli spasmi delle doglie, la terra fu sconvolta da un terremoto. Joseph avrebbe conservato a lungo un vago ricordo della prima neonata, che aveva una voglia a forma di mezza luna sul palmo della mano, ma per sempre e intatto il ricordo della tempesta di sabbia che aveva nascosto ogni cosa. Quando si placò, l’intera montagna era scomparsa. Con la vista annebbiata, gli sembrò di scorgere infinite porte sparse ovunque nella piana, e frotte di mendicanti giunti da ogni parte della terra che le raccoglievano e le lanciavano in un grande falò.
«Non è scritto nel destino degli uomini che possano mettere le mani su queste porte, o violarne le serrature. Cercare di farlo attira la maledizione» lo avvertirono, ma Joseph ibn Nagrela non se ne diede per inteso. A mani nude spense il fuoco e mise in salvo le porte, dimenticandosi completamente di sua figlia, carne della sua carne, scomparsa insieme con il villaggio di Salomone e con tutte le ragazze nel catastrofico terremoto.
Portando con sé quel carico di porte, Joseph ritornò in Andalusia e lì si recò a Toledo, famosa per l’abilità dei suoi fabbri, insuperabili nella lavorazione di coltelli, spade e chiavi. Sulle alture di quella città trascorse l’ultimo quarto della sua vita a forgiare chiavi, con l’aiuto di quegli artigiani, tentando di ottenere un’imitazione del primo esemplare, quello che avrebbe aperto tutte quelle porte. I fabbri dicevano che, per modellare il ferro, oltre al fuoco usava i canti, le poesie, le preghiere e gli scongiuri che aveva appreso nel tempio del dio Ilumquh; forgiò centinaia di chiavi, ma nessuna con la forma di quell’esemplare. Solo quando raggiunse i cento anni riuscì a ottenere quella che aprì le porte, una dopo l’altra, ma il suo cuore non resse all’emozione e lui cadde morto proprio prima di infilarla nella toppa dell’ultima. Nel trambusto che seguì alla morte di quell’uomo leggendario, nessuno prestò attenzione alla chiave, che andò perduta; quando però fu costruita l’abside della moschea del Cristo de la Luz, le porte che Joseph aveva portato dallo Yemen furono fissate alle pareti, perché potessero mostrarsi ai visionari e ispirare gli artisti geniali a trovare nella loro arte la chiave assoluta che avrebbe aperto le porte tra l’umano e il divino.
Rafa era entrato nell’abside, da una finestrella. Furibondo, esaminò con lo sguardo Nura per accertarsi che non fosse ferita.
«Stai bene? Mi sono spaventato a morte» disse. Poi, girandosi verso la donna, gridò con rabbia: «Che diavolo le è saltato in mente? È impazzita, per caso?»
La rabbia svanì quando Nura gli sfiorò il braccio con le dita; il suo sguardo luminoso – attraversato da un bagliore febbrile – lo turbò, e come per incanto si sentì pervadere da una strana calma.
Lei lo canzonò: «Davvero una bella guardia del corpo! Farsi cogliere di sorpresa da una donna!»
Rafa ispezionò con lo sguardo ogni angolo cercando di scoprire chissà quale complotto, ma la donna in bianco era assolutamente tranquilla, non manifestava alcuna preoccupazione. Senza curarsi di Rafa, riprese a raccontare, rivolgendosi a Nura, la quale, improvvisamente, si sentì stanca e si appoggiò alla parete, passandosi la lingua sulle labbra che proprio in quell’istante si erano screpolate.
«Ora, chiudi gli occhi e immagina: qui, un giorno, arrivò un altro tuo antenato arabo, che portava impressa sul viso la stessa nostalgia che si legge sul tuo. Facendo il viaggio contrario rispetto a quello di Joseph ibn Nagrela, andato nell’Eden in cerca della porta, quest’uomo, che si chiamava Shaybi, era partito da Aden ed era giunto a Toledo, in cerca della chiave che apriva la porta assoluta che dà accesso al regno di Dio. Invece, trovò tutte queste porte e tutti questi lucchetti!»
Nura si era completamente persa a sentir parlare di tutti quei viaggi, di uno che andava nell’Eden in cerca di una porta e di un altro che veniva a Toledo in cerca di una chiave.
«Shaybi trascorse un quarto di secolo al servizio di questo luogo, seguendo l’esempio del mio antenato Joseph ibn Nagrela e cercando anche lui la chiave assoluta.»
Rafa si appoggiò alla parete in un disperato tentativo di vedere le porte che erano apparse a Nura, ma la donna li spinse fuori dall’abside rudemente. Fu allora che si accorsero di una pergamena in una cornice di legno ornata con una stella dorata e dei minuscoli fiori rossi e verdi. Era appesa vicino all’ingresso, come fosse lì per custodire la moschea.
La donna spiegò: «Grazie a questa pergamena Shaybi conservò la sua fede, volgendosi sempre verso la vostra Mecca.»
Nura notò che le lettere arabe non avevano i segni diacritici. Si trattava di un’antica forma di scrittura: una stessa parola poteva rappresentare molte parole diverse, con svariati significati.
«Ma è l’inizio della Sura del Viaggio Notturno!» disse Rafa, nel tentativo di spezzare l’incantesimo in cui quella donna aveva avvolto Nura.
«Vi racconterò quello che so su questo Shaybi. Molte persone sono venute a chiedermi di lui, ma io ho nascosto a tutti la sua storia, ho atteso un segnale per consegnarla al suo messaggero.»
Guardando Nura negli occhi, disse: «Seguimi!»
Camminarono nella fredda notte, avvertendo, con il cuore che batteva forte, il calpestio dei passi di tutti coloro che nei secoli passati erano saliti su quella montagna. Nura tremava, si aggrappò al braccio di Rafa che la strinse a sé, scaldandole le dita congelate. Si ritrovarono davanti al collegio da cui avevano visto uscire la donna quella mattina. L’edificio, avvolto dalle tenebre, aveva un aspetto sinistro, sembrava pronto a saltare giù dal dirupo che aveva alle spalle.
«Venite... silenzio, piano... fate piano, altrimenti svegliamo tutti!»
Rafa esitò, ma Nura, sempre aggrappata al suo braccio, si infilò nell’edificio, trascinandoselo appresso. La donna li guidò lungo uno stretto corridoio, poi scesero delle scale e arrivarono in uno scantinato che odorava di carta ammuffita e di abbandono. Girandosi verso di loro, la donna sussurrò: «Ognuno di noi ha la sua Mecca in cui rifugiarsi per sfuggire alla paura e alla solitudine... e questa è la mia!»
Il tremore di Nura, in quella luce sinistra, si trasmise dal suo corpo a quello di Rafa. Si sentivano intrappolati in quel posto, con quella psicopatica che, indicando le pareti coperte di scaffali pieni zeppi di libri, esclamò: «Questa è la mia oasi di pace! Qui, in questi manoscritti dei vostri antenati arabi e dei miei antenati ebrei, ho trovato conforto alla mia solitudine!»
Lesse ad alta voce i titoli dei volumi, e solo in quell’istante Rafa si rese conto che stava parlando in arabo.
«Guardate, L’incoerenza dell’incoerenza e Il commento alla metafisica di Aristotele: le opere del grande Averroè, filosofo, teologo e medico di Cordova morto nel 1198, che scrisse dell’immortalità della mente umana in virtù della sua relazione con l’intelletto agente universale da cui viene di continuo alimentata per emanazione. Trovo straordinaria una sua massima: “È sufficiente che Dio conosca una cosa perché questa esista e perché continui a esistere grazie alla cura che egli le presta. Noi resusciteremo in un corpo perfetto. Detto in parole povere, le nostre menti e i nostri cuori aperti sono la porta per la conoscenza assoluta e per l’esistenza assoluta.”»
Sospirò profondamente, poi si portò davanti a un altro scaffale e lesse altri titoli.
«Vi ho detto che vi avrei parlato di questo Shaybi... Fu rapito sulle coste del mar Rosso dai pirati portoghesi e condotto nella penisola iberica, ma quando toccò terra fuggì e venne qui a Toledo. Il povero Shaybi passò tutta la vita facendo il cantastorie, vagava per la città e raccontava ai bambini storie sull’Eden e sulle donne del lontano villaggio detto Sigillo di Salomone, che venivano al mondo con una voglia a forma di mezza luna sul palmo di una mano. Raccontava senza mai stancarsi, e ancor oggi, se si presta attenzione, si sente l’eco di quelle storie tra queste cime.»
Rafa e Nura trattennero il respiro e davvero sentirono una voce gioiosa. A quel punto, non sapevano più se fosse la donna a parlare, o fossero i muri a rimandare l’eco della voce di Shaybi che diceva: «Mia madre era una delle discendenti di re Salomone e della regina Bilqìs che avevano popolato il villaggio di Salomone. Le ragazze di quel villaggio nascevano con una voglia a forma di mezza luna sul palmo della mano, e per questo stavano sempre molto attente a non chiudere le mani in faccia agli stranieri, poiché erano convinte che, se la luna si fosse schiacciata, un incendio devastante sarebbe scoppiato in quel luogo, propagandosi poi al resto della penisola araba e provocando la fine del mondo.»
Con la vocina allegra e squillante di un’adolescente, la donna continuava a passare da un libro all’altro, mentre l’eco delle parole di Shaybi si faceva più incalzante.
«Mio padre era un pronipote del custode della chiave della casa di Dio sulla terra, la Kaaba della Mecca. Quando la chiave fu rubata, lui emigrò nel villaggio di Salomone per cercarla, e lì si stabilì, innamorandosi della mezza luna sul palmo della mano di mia madre. Sulle montagne della terra felice dello Yemen io fui concepito e venni alla luce.»
La donna interruppe quegli echi del passato rivolgendosi più sommessamente a Nura: «Il povero Shaybi trascorreva le sue notti in quella che è ora l’abside, disegnando le porte che ti ho mostrato. Eravamo più o meno coetanei, e lui veniva a trovarmi qui per chiedermi del mio antenato Joseph ibn Nagrela e del suo viaggio nell’Eden. Aveva una voce incantevole, come Joseph; entrambi intonavano canzoni struggenti dedicate a quelle ragazze con la voglia a forma di mezza luna sulla mano, e questa era la prova che l’Eden di cui parlavano era lo stesso. Talvolta, vedendolo con il capo chino su quelle porte, mi immaginavo quei due uomini come uno solo: Joseph ibn Nagrela reincarnato in Shaybi!»
Trattenne il respiro ascoltando l’eco della propria voce, poi proseguì.
«Shaybi veniva spesso a trovarmi, e io pensavo che si fosse innamorato di me, invece lo faceva perché voleva scavare in ogni verso lasciato dal mio antenato Joseph ibn Nagrela, convinto che la chiave fosse stata fusa e mescolata con la poesia e si trovasse nascosta in qualche componimento. Così, tra tutti i versi raccolti da Joseph ibn Nagrela negli antichi templi del dio Ilumquh cominciammo a cercare insieme quello che recava impressa l’immagine della chiave... Guardate qui!»
La donna mostrò loro un antico manoscritto ingiallito.
«Questi sono i versi di Joseph ibn Nagrela, che giunse alla poesia attraverso l’amore.»
Le tenebre sembravano essere diventate ancor più fitte! Nura e Rafa seguivano, con estrema attenzione, senza perdere neanche una parola, tutto ciò che quella donna diceva, per tentare di capire quale fosse il suo fine. Nura si sentiva travolta da tutte quelle storie che sgorgavano come un fiume in piena, e a un certo punto le sembrò persino che ci fossero delle suore che li spiavano. La donna continuava a raccontare.
«In questi libri ho seppellito mezzo secolo della mia vita, sacrificando anche la vista. Ricordo ancora la notte del mio cinquantesimo compleanno, quando le nostre fronti si toccarono. Eravamo esausti e ci addormentammo dopo avere ripetuto non so quante volte un verso di un lungo poema, nel quale Shaybi sospettava fosse nascosta la chiave: “L’esilio è l’inchiostro nel libro di Dio, con cui ogni anima randagia è stata scritta e ogni anima affamata è rappresentata nella sua eterna ricerca di pane!” Questa mattina, vedendo il tuo viso mi sono ricordata di questo verso e della sua oscura promessa» disse rivolta a Nura, con uno sguardo allucinato.
«Fu quella notte che sognai il tuo viso. Chi ti presentò a me, mi rivelò: “Ecco colei che è fuggita dall’inchiostro dei colombi e delle colombe, salvandosi dall’avidità che regna intorno alla casa di Dio.”»
Avvicinò la lampada a olio al viso di Nura, e continuò: «Nel mio sogno c’era una guerra combattuta intorno a te e per te, che ti portava fin qui... più che altro un rapimento!»
Impietriti come due statue di marmo e stretti uno all’altra, Rafa e Nura fissavano quella folle che non smetteva di parlare.
«Per anni e anni ti ho sognata, mi perseguitavi ogni notte, poi, improvvisamente, mi hai abbandonata. Il sogno è scomparso, lasciando le mie notti vuote! Quanto fui ingenua, quando pensai che non avrei mai più dimenticato il tuo viso! E invece lo dimenticai! Questa mattina sentivo che c’era qualcosa di familiare nei tuoi lineamenti, ma noi, o meglio, i fortunati tra noi sono destinati a non riconoscere i propri sogni anche se li incontrano per strada.»
I suoi sguardi avevano toccato Nura nel profondo. Lentamente, scandendo le parole, ripeté: «Ti ho sognata in una guerra.»
Il viso di Nura era circondato da una luce viola soffusa, che si sprigionava dai muri circostanti, avvolti dall’oscurità.
«Effettivamente, tutto il mondo si aspetta una guerra» continuò la donna, spostando lo sguardo sgomento da Nura a Rafa. Stava trasmettendo loro la sua paura.
«Nei nostri libri si parla del Salvatore, e noi attendiamo la sua venuta. Combatterà l’ultima guerra per abbattere ogni ostacolo tra i quattro fiumi del paradiso, perché scorrano come uno solo e purifichino la terra, che a quel punto sarà pronta per accogliere il Messia, Gesù Cristo. Nella sua seconda discesa sulla terra, porterà la pace eterna e unirà le genti nella parola di Dio, che fluirà resuscitando i morti e trasformando i vostri deserti in un giardino paradisiaco, come quelli dell’antica Andalus.»
Prendendo la mano di Nura e stringendola nella propria, aggiunse: «Noi tutti siamo volti che nascondono altri volti, ma sono pochi quelli che, come il tuo, esprimono un tale grado di contraddizione, la buona novella e la sua stessa negazione! E io l’ho sognato fino alla nausea.»
Pronunciò quelle parole come un atto di accusa. Rafa e Nura sembravano, nella luce spettrale che illuminava lo scantinato, due statue di cera fuse insieme, come le figurine degli agnelli che circondavano Gesù Bambino nel minuscolo presepe su uno degli scaffali. La donna aprì un libro sui giardini dell’Alhambra.
«Ti ho riconosciuta dall’odore» disse a Nura. «Il giardino ideale, nell’Andalus, era un’armonia di suoni e profumi! I nostri antenati mettevano una cura estrema nel coltivare fiori dal profumo inebriante, tra i quali svolazzavano usignoli, pavoni e colombi. Il vostro deserto presto sarà invaso da canzoni e profumi che fluiranno come una sola parola!»
La donna li guardava come se si aspettasse un commento. Fu Rafa a intervenire.
«La caduta di Cordova fu la fine di un sogno che il mondo intero aveva accarezzato.»
La donna si bloccò un istante, rivolgendo uno sguardo sorpreso alla porta, e Nura fu certa che un fantasma in abiti da suora si aggirasse tra gli scaffali. Con mano tremante la donna prese un libriccino da uno scaffale.
«Questa è una copia in ebraico del Collare della colomba di Ibn Hazm. Prendetela, anche se non sarete in grado di leggerla. È un libro sull’amore inteso come una porta che sin dal primo sguardo si apre facendoci entrare nell’animo dell’amato, come una zona franca in cui si muove una razza diversa da tutte le altre, come un sangue che scorre nelle nostre vene unificando le genti e dandoci un nuovo corpo eterno, paradisiaco. Lo sguardo dell’amore è l’unica magia capace di strappare maschere e veli... è una chiave o una porta che ci conduce all’essere straordinario che si nasconde dentro di noi.»
Fece silenzio, mettendosi in ascolto, come se sentisse qualcosa.
«L’amore è come la vita, comincia per gioco ma finisce in modo serio, ed è contagioso: si trasmette attraverso voci e odori. È per questo che, invece di combatterlo, dovremmo affinare i sensi e accettare che ci pervada, sottometterci al suo dominio, abbandonarci a lui quando ci plasma e ci rimodella.»
Dopo un’altra pausa di silenzio, lunga un’eternità, si alzò e li accompagnò fuori. Davanti al portone diede un’occhiata in giro per controllare che nessuno li spiasse, aprì Il collare della colomba e mostrò loro un pezzo di stoffa nascosto tra le pagine del libro. Era uno schizzo a carboncino.
«È una copia della Sepoltura del conte di Orgaz» spiegò in un sussurro, e rabbrividì, e quei brividi Nura se li sentì sulla pelle. Aveva l’impressione che, nel buio, degli occhi continuassero a spiarli.
«Come ti ho detto, Shaybi visse per venticinque anni nella moschea, evocando il mio antenato perché gli mostrasse la chiave. Si diceva che andasse a disturbare il sonno di tutti i morti di Toledo. Sognava di incontrare El Greco e quando ci riuscì subì la magia del suo fascino. Lo considerava un Don Chisciotte, venuto non per lottare contro i mulini a vento ma per aprire le porte dell’eternità su queste vette rocciose. Shaybi riprodusse molti dipinti di El Greco, specialmente la Sepoltura del conte di Orgaz, ossessionato dal desiderio di trovare l’accesso al regno di Dio... fece centinaia di schizzi, aggiungendo dettagli inesistenti nell’originale... questo, in particolare!» Guardando nuovamente tutt’intorno per essere sicura che nessuno li stesse ascoltando, la donna avvicinò la lampada al pezzo di stoffa.
«In ogni schizzo, nascondeva l’immagine della chiave in un oggetto diverso: su una spalla, tra le pieghe di una veste, nelle nuvole, ma qui... qui è molto evidente, domina la scena: è stretta nella mano sinistra del santo, tesa verso il grembo della Madonna. Circolarono tante storie su questa chiave con i tre mihràb. Shaybi era convinto che fosse la chiave originaria, il primo esemplare, che lo perseguitava nei sogni ma che non trovò mai nella realtà. Andava ripetendo una profezia, secondo la quale sarebbe giunto un tempo in cui la misericordia di Dio si sarebbe chiusa in faccia agli uomini peccatori, in cui Dio avrebbe chiuso le porte della sua casa e nessuna guerra e nessun patto avrebbero potuto riaprirle. Solo quando fosse giunta in mano all’uomo giusto, quella chiave sarebbe stata in grado di riaprire le porte del suo regno, e anche quelle che separano la vita dalla morte. Shaybi stava tornando alla Mecca, quando fu trovato morto davanti al cancello del cimitero degli emarginati a Madrid: neanche uno straccio copriva la sua nudità, ma sul suo petto c’era una chiave, forgiata dal più famoso fabbro di Toledo, al quale lui aveva riferito le istruzioni che Joseph, dettaglio dopo dettaglio, gli aveva rivelato nei suoi tanti sogni. Shaybi voleva ritornare alla Mecca con quella chiave, e invece dovette essere seppellito di nascosto in quel cimitero; e la chiave fu fissata sulla lapide in corrispondenza del suo cuore... È successo circa diciassette anni fa, Shaybi aveva una cinquantina d’anni!»
Nura aveva capito che la donna si riferiva alla chiave rubata al cimitero britannico. Ma come era finita nelle mani dello sheikh? Che relazione c’era tra lui e gli Shayba, i custodi della chiave della Kaaba? Ripensò alla chiave abbozzata sulla pergamena che i due uomini in albergo stavano confrontando con la chiave rubata al cimitero.
«Il disegno l’ho trovato in questo libro, Il collare della colomba, l’ultimo che Shaybi ha letto prima di andarsene!»
All’improvviso, la donna appariva stanca. Chiuse bruscamente il libro con il pezzo di stoffa all’interno e lo mise in mano a Nura, poi, altrettanto bruscamente, chiuse il portone, dopo aver puntato il dito contro Nura, in segno di avvertimento.
«In tutti quegli anni non ha mai smesso di aspettarti» disse.
Lo scatto della serratura li fece tornare alla realtà. Cosa ci facevano davanti a quello squallido portone? Il libro in mano a Nura era l’unica prova che non si era trattato di un’allucinazione.
Tornarono alla macchina e si allontanarono, senza meta. Dopo poco, scorsero una colonna di fumo levarsi dalla montagna. Nura sentì una stretta al cuore. Lassù una folla di persone si era radunata per osservare le fiamme che stavano divorando il collegio e la sua imponente biblioteca. Nura mise la mano sul volante, e Rafa si girò verso di lei.
«Ascoltami bene!» gli disse. «Non mi interessa partecipare a una guerra, neanche per una chiave che apre le porte dei quattro fiumi del paradiso. Noi ci dimenticheremo di tutta questa storia. Non mi riguarda. E adesso, per favore, riportami a Madrid.»
«Ti prego, ovunque ma non a Madrid.»
«Madrid!» ordinò lei disperata.
«Ma io potrei...»
Lo interruppe gentilmente.
«Lo sheikh ha i documenti per farmi ritornare a casa.»