Uno
L’ispettore Nasser sentiva le formiche invadere il suo letto: generate dalle spregevoli e-mail di Aisha e dal diario di Yusuf, stavano divorando pian piano il suo mondo ordinato e convenzionale, restando però fameliche e pronte a cibarsi anche del suo corpo. Disorientato e senza voglia di dormire, Nasser si sentiva irresistibilmente attratto dalle parole peccaminose di Aisha.
E-mail n. 5
Mi collego a Skype e mi stendo sul letto, mi agito come se nuotassi. Onde mi trascinano là dove non avrei mai sognato di andare.
Raggiungo un’estasi che non avevo mai provato con il mio ex marito, Ahmad, quel marito che davanti a me si paralizzava.
David.
Questa è la prima e ultima volta che uso il tuo nome. Sì, da ora in poi al posto del tuo nome userò il segno *. Non vorrei che la tua identità venisse rivelata, nel caso in cui queste e-mail venissero scoperte. Anzi, di sicuro le scopriranno, per cui, ti prego, cancella questa e-mail, la sola che contiene l’indicazione del tuo nome.
Le tue lettere cibernetiche svaniscono più veloci della luce, e delle tue parole non resta più niente. Io le salvo in un file che ho chiamato «Uno».
Ti nascondo come faccio con l’odore delle sigarette che fumo di nascosto, che cerco di coprire spruzzando un profumo al limone. La nicotina mi annerisce i polmoni. Puoi sentirmi tossire tutta la notte?
Zia Halìma mi chiede se è una tosse secca o grassa, e mi fa bere un cucchiaio di olio di sesamo.
Come possiamo lasciare i nostri cuori in capo al mondo e tornare a casa, invece di cadere istantaneamente morti?
Guardo una falena girare intorno alla lampada; chiudo gli occhi, e lei mi prende per mano e mi trascina a ballare, come tu facesti con me una mattina.
Sceglierò solo le parole che rimandano alle cose che amo di più e le scriverò a caratteri cubitali: rotoleranno come pietre ostacolando il tuo cammino, e potranno anche provocarti escoriazioni che ti faranno sanguinare.
Ma sì, ti garantisco che cospargerò la tua strada di pietre che ti lasceranno molte cicatrici!
Secondo te parlo troppo? Eppure sono sempre stata riservata, non ho permesso a nessuno di intrufolarsi nella mia testa.
Quanto al mio cuore, non so dove sia! Al suo posto, o là dove dovrebbe essere, nel mio petto, c’è solo vuoto.
Converso con il sole – quel sole che non vedo.
Tu pensi che io sia una donna solare, proveniente da una terra che tu hai contrassegnato sull’atlante con un post-it su cui hai disegnato un sole splendente.
Un sole che per me esiste solo in una frase che ripetevamo come pappagalli alla scuola elementare; si trovava nel libro di grammatica ed era usata come esempio per spiegare il predicato nominale: «Il sole è splendente.»
In realtà, di quel sole ricevo solo i raggi che filtrano ai lati del condizionatore che sovrasta la mia unica finestra.
Nel mio assolato paese dove il sole sembra non tramontare mai, io curo la mia osteoporosi con la vitamina D e con pastiglie di Osteocare, ricavate dalle conchiglie di qualche mare asiatico e commercializzate dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti!
Così non dire: «Il tuo sole illumina la mia stanza.»
Nel mio vocabolario questa frase non esiste.
Gocce di sudore si raccolgono sul mio labbro superiore, perfino il tuo viso è bagnato: così me lo ricordo la mattina che mi dicesti addio davanti all’ingresso dell’ospedale, mentre la macchina dell’ambasciata mi portava via. All’aeroporto, rispedendomi in patria.
«Guarita.» Questo recitava la mia cartella clinica.
In verità, io stavo riportando clandestinamente in patria non soltanto il dolore ma anche un uomo: ti nascosi nella mia testa e sotto la mia pelle, riuscendo a ingannare perfino il metal detector all’aeroporto di Gedda.
L’odore del tuo dopobarba continua a eccitarmi ogni mattina, al mio risveglio.
Giro la schiena verso lo specchio. Riesco con difficoltà a vedere la lunga cicatrice con tanti puntini rossi simili a impronte di colombo, la tua mano continua a massaggiarla con la vaselina. Mi meraviglia come tu abbia il coraggio di toccare una ferita così orribile con tanta delicatezza, quando suscita ripugnanza perfino a me.
Mi hai spiegato che i muscoli hanno bisogno di tempo per unirsi nuovamente in un unico tessuto.
Tu però non hai avuto bisogno di tanto tempo per unirti a me!
Dovresti numerare anche tu le tue e-mail, così potremo renderci conto insieme del tempo che passa!
Perché i morti vivono al di fuori del tempo?
Aisha
Il Vicolo delle Teste si faceva beffe di Nasser mentre, come ogni sera, passava sotto le finestre delle sue case, da cui usciva un delizioso profumino di pane abbrustolito. Tutti facevano battutine su di lui chiamandolo Abu Wen Wen, il Padre della Sirena, riferendosi alla sirena della sua volante che puntava il dito accusatore verso ogni angolo.
Improvvisamente il vicolo trattenne il fiato per osservare Nasser che spingeva la porta e si infilava di nascosto nella casa deserta di Aisha, attardandosi nell’ingresso buio, e fermandosi poi davanti al lavandino con il rubinetto asciutto. Il vicolo e i suoi abitanti non si preoccuparono di fermarlo quando si mise a esaminare il bastone del padre di Aisha, quel bastone di cui i bambini del Vicolo delle Teste, che erano stati tutti suoi allievi, portavano ancora i segni sulla schiena. Decisero di lasciarlo sguazzare nella tragedia di Aisha, con quei suoi occhi da Batman, diventati stretti come due fessure a forza di scavare nelle anime dei criminali e di portare alla luce i loro misfatti.
Salito sul terrazzo, Nasser ebbe un capogiro. Per un secondo rimase stordito dallo spazio aperto, che gli fece dimenticare lo scopo per cui si trovava lì. Aveva la sensazione che sarebbe bastato un gesto o anche solo un respiro per far materializzare Aisha davanti ai suoi occhi, rannicchiata in un angolino a scrivere. Solo che Aisha adesso aveva la faccia radiosa di sua sorella Fatima, che tutti chiamavano Subh, il Mattino, perché era sempre raggiante come un mattino di primavera. La domanda di Aisha lo assillava. Perché i morti vivono al di fuori del tempo? Ma subito scacciò quei pensieri molesti.
Calcolò mentalmente la distanza tra la ringhiera e il luogo dove il corpo era stato ritrovato. C’era la possibilità che il corpo fosse caduto da quel terrazzo? No, era impossibile, a meno che non fosse andato a sbattere contro qualcosa e fosse finito in fondo al vicolo, nello stretto passaggio tra le due case dove era stato ritrovato. Nasser fece un passo indietro e sentì qualcosa frantumarsi sotto le sue scarpe. Si chinò a esaminarlo: era uno strass, di circa dodici millimetri di diametro. Un altro brillava poco più in là, e poi un altro ancora. Seguì la traccia fino a una serie di scatole in un angolo del terrazzo, e anche lì intorno trovò degli strass.
Spostò in fretta le scatole, e scoprì la manica strappata di un vestito, orlata di pizzo bianco, tutta impolverata. In quella manica si sentiva ancora un profumo, mescolato al sudore. Il segugio che era in lui lo riconobbe: era l’odore di Aisha! Nasser chiuse gli occhi inebriandosi di quel profumo. Non volendo guastare quell’attimo di piacere, decise di non chiedersi – non subito, almeno! – chi avesse strappato quella manica e quando...
Se avesse conosciuto l’alchimia della morte, avrebbe potuto leggere i minuti che avevano preceduto lo strappo, e avrebbe indovinato se erano stati momenti di passione o di terrore.
Respirò profondamente quel profumo, e si sentì svenire: era la vita che gli ribolliva nelle vene! Si infilò in tasca la manica, sulla quale il segugio che era in lui si accoccolò, e se ne andò. Era stato come ritrovare se stesso.