Aisha: un possibile corpo

Aburrùs, cioè io, fece finta di niente mentre l’ispettore Nasser Qahtàni rimaneva seduto davanti al suo tè freddo, giocherellando con il nocciolo di un dattero, all’ombra del caffè che si trova all’imbocco del mio vicolo.

Nasser aspettava pazientemente, tenendo d’occhio il negozio dello sheikh Muzàhim. Poi, quando il sole arrivò allo zenit e lui era ormai in un bagno di sudore nella pesante uniforme che indossava, dalla moschea si levò l’invito alla preghiera. Lo sheikh Muzàhim uscì per andare a pregare, e Nasser, con un balzo, attraversò il vicolo. Introdursi nel negozio fu per lui un gioco da ragazzi. Entrò dalla porta sul retro, e si ritrovò nel labirinto di stanze e stanzette che formava il magazzino, zeppo fino al soffitto di sacchi pieni di tutto: c’era spazio solo per un uomo in piedi.

Nasser si mosse nell’aria soffocante, viziata dall’odore delle merci avariate. Sotto le strette scale che portavano al terrazzo di Halìma vide un vecchio apparecchio radio, un’enorme scatola rotta. In quella radio, Azza, la figlia dello sheikh Muzàhim, nascondeva le lettere di Yusuf. Si spostò in cucina, dove su un tavolinetto basso c’erano un piccolo fornello e, tutt’attorno, vecchie pentole di rame e piatti infrangibili illuminati da un raggio di sole che penetrava da una fessura nel soffitto. Dal minuscolo bagno, pieno di crepe, spuntava un tubo arrugginito da cui gocciolava l’acqua. Sulla parete, in alto, vicino al soffitto, c’era una finestrella stretta, a cui erano legati i pezzi di stoffa di cui parlava Yusuf nel suo diario: erano tutti neri, tranne uno, al centro, che era rosso. Ovviamente Nasser non era in grado di decifrare quel messaggio. Era un segnale di via libera, o il contrario?

C’erano anche dei panni stesi ad asciugare che, con ogni probabilità, erano stati usati come assorbenti intimi. Dovevano trovarsi lì da parecchio tempo perché erano tutti raggrinziti. In ogni caso, le macchie non erano sparite, e nell’aria c’era un persistente odore di sangue.

Era una buona idea entrare nella stanza di Azza?

Mentre stava lì, in piedi, in quello spazio angusto, a guardare i nastri, Nasser ebbe la sensazione di essere osservato.

Rimaneva un’ultima stanza. Suppose fosse quella di Azza. Era completamente priva di effetti personali, e la cosa lo colpì non poco: quella stanza sembrava burlarsi della sua uniforme da poliziotto e spiare il rumore dei suoi passi che risuonavano sul pavimento in cemento. Lì dentro non c’era traccia di vita: niente abiti, niente impronte di mani sulle pareti. L’armadietto di plastica, tutto ammaccato, era aperto e con la cerniera rotta, come se Azza avesse voluto strappare la sua intera vita.

Un materasso duro era steso su una piccola panca sotto la finestra. Nasser annusò l’aria: nessun profumo femminile. Lui, allenato a captare perfino il sudore delle vittime, lì dentro non avvertiva assolutamente nulla. Non un solo capello caduto sul pavimento o attaccato al materasso. Una scena ideale ripulita da qualsiasi tocco femminile, eppure lui avvertiva qualcosa.

Si sedette sul materasso, immaginando Azza legata su quella superficie dura, e per un momento si abbandonò all’impertinenza di un’erezione. Chiuse gli occhi, maledicendosi, costringendo le sue gambe a raddrizzarsi e la sua mente a concentrarsi sulla scena che aveva intorno. La preghiera in moschea non sarebbe durata ancora a lungo, Muzàhim sarebbe presto riapparso.

Nasser diede un’altra occhiata alla persiana. Qualcuno aveva spezzato le stecche di legno, che ora penzolavano dai ganci arrugginiti. Yusuf aveva scritto nel suo diario che la finestra era inchiodata. Azza era forse stata uccisa e gettata nel vicolo da lì?

Si inginocchiò, sollevò un lato del materasso e scoprì una cavità che serviva da nascondiglio. Da quel buco, l’occhio di Batman lo fissava. Era un vecchio numero del giornaletto, ingiallito per la sfilza di volgarità che aveva dovuto ascoltare in quella stanza e nel vicolo.

Nasser stava cercando di arrivare con la mano al fondo della cavità, quando all’improvviso un corpo balzò sul materasso e gli diede uno spintone, facendolo finire a testa in giù. La sua faccia toccò quella di Batman. Due ginocchia viscide premettero sulla sua schiena, dopodiché l’aggressore fuggì via con un’agilità sorprendente, facendo sbattere la porta contro il muro e dileguandosi nel magazzino.

Nasser avvertì il sapore del sangue nella gola e nel naso. Si sentiva come una gallina a cui hanno tirato il collo. Come quello di Batman, anche il suo viso era coperto da una maschera, ma di sangue. Il terrore lo fece scattare in piedi: si guardò intorno, ma ormai non c’era più traccia dell’aggressore, solo aria smossa e la porta spalancata. Si lanciò all’inseguimento, ma era troppo tardi. Davanti alle tante stanze del magazzino si fermò incerto. Tutte le porte erano spalancate, senza impronte sulle soglie impolverate, tranne minuscole tracce come di zampette di capra. Seguendole, arrivò nell’ultima stanza che aveva l’aria di essere un vecchio gabinetto: la porta era accostata in modo sospetto. Cercò di infilarsi dentro, nel buio maleodorante; provò a spingere la porta, ma fu del tutto inutile perché l’ingresso era ostruito da sacchi di iuta, per un corpo umano non c’era modo di passare. Il brusio dei microfoni della moschea lo avvertiva che la preghiera stava per concludersi, era solo questione di minuti e Muzàhim sarebbe ricomparso. Doveva andarsene! Ma proprio in quel momento sentì un rumore all’interno della stanza; proveniva da una fila di sacchi di carbone sistemati in un angolo buio. Si affacciò dallo stretto spiraglio della porta, aspettandosi uno schiaffone formidabile, uno di quelli che ti staccano la testa dal collo, invece si ritrovò davanti a un enorme ratto – uno di quelli per cui Aburrùs andava famoso – che lo fissava con due occhi di fuoco. Il ratto non interruppe il proprio isterico rosicchiare mentre gli occhi di Nasser si riempivano di disgusto.

Una risata di scherno si levò nel vicolo giungendo fino al magazzino. La formula di saluto che l’imàm Daùd pronunciò, a conclusione della preghiera, convinse Nasser ad allontanarsi immediatamente dalla casa dello sheikh Muzàhim, ma appena si ritrovò all’aria aperta gli venne il dubbio che quanto accaduto nel negozio di Muzàhim fosse soltanto un sogno. Davvero Azza aveva nascosto un giornaletto di Batman dentro il materasso? E perché lo aveva fatto? Per confondere, con un boccone di carne avvelenata, il segugio che era in lui?

Lavorando sodo per un quarto di secolo si era fatto un’ottima reputazione come detective, sviluppando una teoria che aveva chiamato “prove in negativo”, e che consisteva nel valutare le prove in apparenza illogiche. Come un abile segugio, dal fiuto allenato, si insospettiva davanti a un cadavere in una scena assolutamente priva di indizi. Una tale assenza era per lui la conferma che bisognava cercare un assassino. Era convinto che i suoi respiri e il suo sudore continuassero ad aleggiare sulla scena del crimine, trasformandosi in una confessione che un esperto come lui sarebbe riuscito a leggere. Alcuni suoi colleghi invidiosi avevano messo in giro la voce che si servisse della magia e avesse arruolato i ginn, gli spiritelli, perché lo aiutassero a risolvere i casi più complicati, come facevano anche alcuni agenti dei servizi di sicurezza.

Tanto per cominciare, all’inizio di ogni indagine disegnava un cerchio, al centro del quale metteva la vittima. Poi intorno alla vittima disegnava delle spirali che arrivavano fino al bordo del cerchio, e lì collocava i nomi degli indiziati. La sua eccitazione cresceva man mano che, grazie a un lavoro attento e meticoloso, diventavano evidenti gli invisibili fili che collegavano gli indiziati a quel centro, ovvero alla vittima. Era ingenuo, e lui lo sapeva, ma quel modo di procedere impressionava molto i suoi assistenti, ai cui occhi l’ispettore appariva potente come un mago. A volte restava seduto per ore al caffè, a spostare le pedine in quel cerchio magico.

Il problema, in questo caso del Vicolo delle Teste, era che nessuno occupava il centro. Quali spirali poteva mai tracciare che legassero eventuali sospetti con quel centro, se il centro era vuoto? Il suo istinto di detective si ribellava. In nessun caso avrebbe lasciato il centro vuoto, perciò alla fine, trionfante, vi collocò un nome: Aburrùs, il Vicolo delle Teste, cioè io ero la vittima. Poi, sul bordo, dopo aver esitato solo un istante, scrisse di nuovo il mio nome, il Vicolo delle Teste come l’assassino.

Nasser tirò indietro la schiena per ammirare quel suo colpo di genio: vittima e assassino erano la stessa persona, Aburrùs, due in uno! Un’equazione attraente, che avrebbe potuto suscitare un certo sarcasmo, ma che, in ogni caso, mi lusingava, e, oltretutto, aggiungeva un po’ di pepe alla soffocante monotonia che circondava Nasser, anche se, me ne rendevo conto, si trattava di una conclusione piuttosto azzardata.

Poi sulle spirali distribuì i nomi delle persone in qualche modo coinvolte nel delitto, ricorrendo a un sistema collaudato dalla notte dei tempi: cherchez la femme. La cacciata dal paradiso terrestre non era forse avvenuta per colpa di Eva?

Nasser si concentrò sui personaggi femminili, Azza e la maestra Aisha. Fece fluttuare i loro nomi in quel limbo tra il centro del cerchio e la frontiera dei sospetti, a causa della loro simultanea sparizione dal vicolo. Fatto, questo, su cui tutti nel vicolo si mostravano oltremodo reticenti.

Nasser si mise a cercare nel fascicolo ogni minimo riferimento alle due donne. Fu incuriosito da un accenno fugace, nel diario di Yusuf: parlava di Aisha e la descriveva come fredda.

«Cosa significa fredda?» si chiese stupito Nasser. Nel suo vocabolario, quella parola poteva avere solo una connotazione sessuale, poteva voler dire solo “frigida”. Ma il suo fiuto lo mise in guardia dal farsi fuorviare da congetture personali (frutto magari di un impulso sessuale improvviso), e lo sollecitò a tornare al diario di Yusuf per capire cosa intendesse lui con quella parola.

12 ottobre 2004

Butterò Aisha fuori dal mio diario. Non scriverò mai più di lei.

Quella donna per me è fredda, fredda come una morta. Sì, Aisha è irrimediabilmente morta, molto prima che questa sorte toccasse a tutti i suoi familiari.

Talvolta ho come l’impressione che si sia avvicinata a un’età che potremmo chiamare l’età trappola, in cui le persone si chiudono a riccio, come se si mettessero da sole in trappola, appunto.

Dubito che legga, che legga veramente, intendo, nonostante abbia fama di essere una divoratrice di libri. Ma è come se volesse raccogliere quante più parole possibile, senza curarsi veramente del significato. E anche se è una ex insegnante dubito che abbia mai scritto una sola parola.

Aisha, oggi ossessionata dalla pulizia, resterà per sempre scolpita nella memoria di Aburrùs come la ragazza-pesce: noi bambini scalzi del vicolo la aspettavamo per vederla scendere dal pullmino giallo della scuola che riportava le studentesse a casa.

Lei era interamente avvolta nell’abaya nera; una volta, inseguimmo quel suo odore pungente di pesce essiccato, con gli occhi fissi sulla sottile striscia di sangue che le rigava il tallone sinistro, macchiando di rosso le sue calze.

Fummo i primi a venire a sapere che aveva raggiunto la pubertà, anticipando tutte le altre ragazze del Vicolo delle Teste, quelle ragazze che, poi, seguendo il suo esempio, trasformarono il pullmino della scuola in una scatoletta di pesce essiccato.

Ci pensi lei stessa, Aisha, a scrivere di sé negli spazi neri. Io non voglio più avere niente a che fare con lei!

Fredda come una morta... Irrimediabilmente morta... Quelle parole colpirono profondamente Nasser, che si affrettò a prendere la cartellina con le e-mail di Aisha. Le aveva scritte in arabo indirizzandole a un anonimo tedesco, e le aveva archiviate come bozze in un file salvato con il nome «Uno».

Nasser cominciò a leggere.

E-mail n. 2

Avevi ventiquattro anni quando l’ospedale ti assunse per trasportare i cadaveri all’obitorio, così mi dicesti, e mi spiegasti anche che la cosa ti faceva venire gli incubi di notte, finché un collega più anziano non ti diede la soluzione che ti salvò. «Alla fine» ti disse quell’uomo, «un corpo umano non è altro che un pezzo di legno! Pensa solo a questo quando lo trasporti.»

Come ti raffiguri il nostro scambio di e-mail, da un vicolo nella penisola araba a un ospedale in Germania?

Posso usare come alibi la malattia che mi ha afflitta per oltre un anno, per continuare a vaneggiare a mio piacimento? Perché ci sentiamo così piccoli e smarriti quando giaciamo da soli in un letto di ospedale? È così che ci sentiremo dentro le nostre bare? Io potrei giacere così per sempre, ascoltando le cellule spezzarsi dentro la mia pancia.

A casa mia, i miei fratelli dormivano in sei in uno spazio di tre metri quadri.

Dicono che ci sono microrganismi invisibili a occhio nudo, resistenti a qualsiasi lavaggio o disinfettante, che proliferano nelle nostre coperte e nei nostri materassi e si cibano della nostra carne. Ci mangiano vivi! Non è un pensiero assolutamente disgustoso?

Lontano da te, mi stendo sul letto, trasportando avanti e indietro cadaveri irrigiditi nell’obitorio della mia mente.

Ti ho già detto che Aisha in arabo significa la Vivente? Non “viva”, ma “colei che vive”.

L’ispettore Nasser si rese conto di quanto fosse denso il tè, i quattro cucchiaini di zucchero che aveva sciolto gli provocarono una spiacevole sensazione in bocca, come se la lingua fosse impastata. Era sconvolto da quella donna che parlava dei corpi e di ciò che li divorava. Tutto il suo fiuto investigativo e tutto il suo corpo erano concentrati su quel foglio. Come si faceva a definirla “fredda”? Che razza di freddezza era quella, ossessionata dai vermi? I vermi vengono generati dalla decomposizione del corpo, provocata dal caldo e non dal freddo.

A un tratto, gli sembrò che il condizionatore e il ventilatore, entrambi in funzione, non bastassero più a smuovere l’aria soffocante dentro l’ufficio.

Riprese a leggere.

L’universo è pieno di lettere scambiate. Questo nostro mondo, che viaggia alla velocità della luce, è pieno di persone che oltrepassano confini per trovare amore, compagnia, o solo per condividere una risata.

Le mie parole sono sciami di voci disperate, alla ricerca di una via di fuga.

Uso internet per cercare di imparare a conversare con un uomo. Ti sembro molto ingenua?

Un giorno, una mia amica divorziata mi disse: «Come potevo sapere che gli uomini possiedono un loro linguaggio cifrato, un codice speciale che noi donne non comprendiamo? Come potevo conoscere il codice degli uomini per quanto riguarda l’abbigliamento? O sapere, ad esempio, che per la ghutra, il loro copricapo, si dovesse usare un amido speciale, così da farla rimanere rigida sulla testa come un nido d’uccello? Ma poi, è proprio così vitale che la ghutra abbia quella forma? Io sono cresciuta orfana di padre in mezzo a sole donne. Mai, prima di sposarmi, avevo guardato un uomo negli occhi. Come potevo sapere qual è la giusta temperatura per lavare la sua veste bianca di seta, evitando che diventi dura come la pelle di un asino? I vestiti di un uomo, così come il suo corpo e la sua testa, sono un mistero di cui io non possiedo la chiave; non saprei come prendermene cura né come tirarli a lucido. Come potevo immaginare l’ossessione degli uomini per le auto, il calcio e i video clip con danzatrici provocanti? Già, come potevo, io, che vivevo tagliata fuori dal mondo?»

Io, Aisha, quel giorno, mi sentii superiore a quella mia amica divorziata, credevo di essere una vera esperta di uomini, essendo cresciuta con sei fratelli e un padre. Conoscevo tutti i trucchi per lavare e lucidare. Nessun copricapo avrebbe potuto ripudiarmi, perché avrei saputo inamidarlo così bene che non si sarebbe scomposto neanche quando loro, i maschi, si fossero prostrati in preghiera.

Ma evidentemente io sapevo prendermi cura degli abiti, e non del corpo. Il linguaggio del corpo mi sfuggiva completamente; quando si trattava del corpo di un uomo, io mi sentivo perduta, provavo una paura che mi pietrificava.

Da noi c’è un racconto popolare che parla di un uomo con l’ossessione della castità, al quale nasce una figlia. La fa crescere prigioniera nella cantina sotto casa, senza nessuna apertura sul mondo esterno, senza che possa vedere la luce del sole. Da questo mondo l’uomo cancella ogni traccia degli oggetti di genere maschile. Fa servire il cibo alla ragazza non su un piatto, nome maschile, ma in una zuppiera, nome femminile; le fa mangiare carne non di agnello, ma di mucca; la fa dormire non su un letto, ma su una lettiga; le consente di indossare solo collane, mai braccialetti, orecchini e anelli, tutti nomi maschili.

La ragazza viene allevata da una vecchia strega in un ambiente esclusivamente femminile. Da questo mondo in cui cresce, tutto ciò che è maschile non è solo bandito, ma è come se non fosse mai stato creato: un mondo esclusivamente femminile, che non si può né contestare né modificare. Un giorno, però, un coltello sfugge chissà come al controllo della vecchia strega e finisce nelle mani della ragazza, che subisce un vero trauma a causa della sua mascolinità. Intuendone la pericolosità, lo nasconde e se ne serve per praticare un buco nel muro della cantina, raggiungendo, infine, il mondo esterno, dove sente parlare di un bel principe dai lunghi capelli, l’invincibile Harg ibn Marg. Va da sé che quell’unico aggeggio di genere maschile bastò a far fuggire la ragazza dalla sua prigione, a farle incontrare il principe e a fargliene conquistare il cuore, tutte cose che noi, le ragazze di Aburrùs, non siamo capaci di fare. Anche noi siamo state allevate in mondi affini a quello della ragazza del racconto, sotto terra!, e quando otteniamo il permesso di uscire dobbiamo coprire il viso con un velo nero, una specie di copricapo magico che ci trasformi in non esseri, perché il mondo maschile non si accorga di noi.

Siamo state addestrate a essere cieche sulla virilità. In un certo senso, è come se la virilità fosse stata evirata e resa incapace di offrirci la salvezza, come invece fece il bel principe Harg ibn Marg con la ragazza del racconto. Ma la cosa più strana è che questo verdetto che ci condanna alla sepoltura è qualcosa di assolutamente moderno, poiché in tutta la storia della penisola araba, fino all’inizio del ventesimo secolo, le donne non erano obbligate a coprire il viso, e potevano mostrarsi tranquillamente in pubblico e uscire alla luce del sole.

È la dolcezza dei datteri che mi convince a svegliarmi in quelle mattine in cui il solo pensiero di aprire le palpebre e lasciare il letto mi appare come una immane fatica.

Io cerco di ritrovare il tuo sapore in questi datteri che arrivano da Medina, i migliori datteri della penisola, che noi adoriamo come veri e propri idoli e mangiamo senza avvertire nessun senso di colpa, e con una fede assoluta. Sono letteralmente schiava di questi datteri, duri all’esterno, ma con un cuore tenerissimo: la loro polpa succosa si mescola alla tua saliva.

Mangiando i datteri di Medina, si avverte il desiderio struggente per quella città che invita a ricercare la fede. Ecco, per me Medina è questo invito rivolto a ciascuno, a ricercare la fede. E i suoi datteri sono doppiamente dolci. Questi datteri sono me sulla tua lingua!

Le foto e le immagini che mi mandi mi inondano con i loro gioiosi colori, come il tocco di un mattino di primavera. Mio Dio, è straordinario come una semplice immagine possa evocare la segreta gioia del mattino!

Dimmi, perché insisti nel cercare una lingua speciale per noi? Tu non comprendi il mio arabo, e io non comprendo il tuo tedesco? Allora voltiamo le spalle alle vane parole! Comunichiamo come coloro che si perdono in una foresta, quando i piedi affondano nella terra umida di pioggia, la testa sfiora le foglie bagnate di rugiada e il viso incontra odori nascosti e brezze sotterranee: è questa la lingua con cui voglio comunicare.

Parlami come parli a una strada. Cammina me, cammina in me, attraverso me, in silenzio o rumorosamente, corri o rallenta. Striscia, sfiorandomi con ogni muscolo del tuo ventre, e lascia che io tiri fuori la lingua per divorare il tuo passaggio.

Se tu fossi qui con me ora, come lo eri durante la mia degenza nel vostro ospedale, potresti semplicemente prendermi la mano ed essere la mia guida o il mio turbamento, dando un nome agli alberi giganteschi che crescono nella mia testa, alle tenebre che mi avvolgono ogni volta che mi concedo la libertà di sognare, e a questa profumata umidità che stilla dal centro del mio corpo ogni volta che il tuo viso mi si affaccia alla mente.

Sei diventato il mio specchio, così adesso ti chiedo: come mi trovi?

Come vedi, il desiderio di te mi cerchia gli occhi di nero! La nostalgia di te si trasforma in brufoli sulla mia fronte!

Dimmi, mio specchio: sono ancora una bellezza ristoratrice come la luna nel deserto?

Così mi descrivesti il giorno che a Bonn nevicò. L’attaccamento che sento per te mi deturpa?

Tu che, dandomi un colpetto sulla spalla, hai messo in fuga il mio passato e il mio futuro, con parole sonnolente che mi cullano, mentre io sogno, sotto le tue mani che mi massaggiano, volando come una bimba su un’altalena.

Aisha

L’ispettore Nasser scaraventò lontano la e-mail. Poi spinse il nome di Aisha più vicino al centro del suo cerchio, e il segugio che era in lui abbaiò: «Meriterebbe la pena di morte. Svergognata!»

Quella e-mail di Aisha, che intratteneva una relazione illecita con un tedesco, un uomo del tutto estraneo ad Aburrùs, il Vicolo delle Teste, gli faceva venire voglia di vomitare. Quelle poche parole erano la conferma che Aisha covava un desiderio libidinoso, con l’aggravante della propensione al tradimento, anche se, grazie all’esperienza acquisita in campo penale, Nasser sapeva bene che quell’attitudine era presente in tutte le donne, o perlomeno in tutte quelle passate per il suo ufficio. Ma, benché il segugio che era in lui fosse ben vigile e lo controllasse, sentiva crescere dentro di sé l’eccitazione che lo spingeva a continuare per far sì che quella sfrontata si mettesse a nudo anche davanti a lui, come già aveva fatto con il tedesco.

Fu attirato da un passaggio di una e-mail non numerata.

Tu eri solito dissipare ogni mio dubbio ripetendo: «Io ti vedo...»

Questo è il mio viso, ma siamo noi a scavare questi segni – delle vere mappe geografiche – sulla nostra pelle? Le facce orientali esprimono tristezza, mentre quelle di voi occidentali sono di plastica, senza una sola ruga di dolore.

Io penso che le nostre anime siano antiche, anime usate, oppresse dal peso delle tante cose che conoscono della vita e della morte.

Nella mia prima adolescenza, lessi che il dolore è come un fuoco che scioglie le impurità e fa risaltare l’oro che è in noi. Un noioso cliché, suppongo. Eppure ero solita sedermi da sola a sperimentare il dolore. Ma, in ogni caso, io soffrivo per qualcosa di più profondo del dolore, per questo bisogno che avevo di sentire una mano, qui. Una volta conservai la foto di un tronco di albero, sfregiato dai corni di uno stambecco che se li affilava per prepararsi alla stagione della lotta e dell’accoppiamento. Ogni volta che guardavo quella foto, ogni volta che rivolgevo lo sguardo a quei segni sul tronco, sentivo quel dolore penetrare sempre più in profondità nell’albero.

Mai avrei pensato che un giorno sarei stata in grado di dire ciò che ti sto dicendo ora. Perché so che il mio arabo è per te indecifrabile?

Io non racconto il dolore, ma qualcosa di più profondo.

Cosa si trova dietro il dolore, qualunque dolore?

La mia faccia si è trasformata in una maschera che si ispira al teatro giapponese?

Aisha

Nasser non si fermò, ma continuò a sfogliare velocemente i fogli, per battere sul tempo il tedesco e arrivare prima di lui a vedere quella donna nella sua posa finale, completamente nuda. Sapeva, dalle sue tante indagini, che le donne della Mecca adoravano intrattenere relazioni d’amore clandestine. Però, solitamente, negli interrogatori doveva servirsi di trucchi e approfittare di lapsus, oppure minacciare di ricorrere a metodi più convincenti, perché si decidessero a confessare i loro segreti d’amore. Solo allora diventavano un fiume in piena. Questa Aisha, invece, si stava incriminando da sola, con tutte quelle maledette confessioni, anche se probabilmente quelle e-mail non erano mai state spedite, erano solo state salvate come bozze. Ma le parole non potevano essere una danza dei sette veli nella quale le donne pian piano si spogliano, rimanendo alla fine completamente nude. Non nella sua Città Santa, almeno!

Se davvero Aisha era la vittima, allora quella era la prima volta che si imbatteva in una donna che, anche dopo morta, continuava a mettere in piazza le proprie vergogne.

Un agente entrò in ufficio e lo informò che stava per andarsene.

«Dio misericordioso» aggiunse. «Ha sentito la novità, signore? Il caso del furto della chiave della Kaaba è stato affidato all’ispettore Alì. Hanno trovato il ladro morto ammazzato e mezzo mangiato dai cani nella zona chiamata Umm al-Dud, Madre dei Vermi, fuori della Mecca.»

Il tono confidenziale dell’agente disturbò Nasser.

«Davvero?»

«Avrebbero dovuto affidare a lei il caso, signore. Tutti qui alla sezione omicidi pensano che lei sia l’unico in grado di risolverlo.»

«Ti ringrazio, ma ho molte altre indagini tra le mani.»

«Sarebbe una vera disgrazia se la chiave non venisse ritrovata! Se fosse per me, tenderei una trappola al giovanotto che ha assalito il ladro. Probabilmente la chiave ce l’ha lui! Il tombino è stato dragato e non hanno trovato niente.»

«Complimenti! Hai proprio una bella immaginazione, saresti un ottimo detective.»

L’agente arrossì. Il segugio che era in Nasser aveva abbaiato, segnalando un pericolo, quando aveva sentito della sparizione della chiave, ma l’ispettore non ci aveva fatto troppo caso perché non vedeva l’ora di restare solo con quelle e-mail.

«Cosa accadrebbe se non si ritrovasse più la chiave? Dio ci chiuderebbe la sua porta in faccia? Ci maledirebbe?»

«Basterà una nuova chiave, finché non sarà risolto l’enigma di quella rubata» tagliò corto Nasser.

«Ci hanno provato, signore, ne hanno fatte diverse, solo che si sono spezzate tutte nella serratura. Si dice che forse si dovrà cambiare tutta la porta.»

«C’è solo bisogno di qualcuno che conosca il mestiere, un esperto che sappia forgiare la chiave giusta.»

L’agente se ne andò e anche Nasser si avviò verso la porta, ma poi ci ripensò e ritornò indietro alla sua scrivania. Mise il diario e le e-mail in una scatola e li portò con sé.

Nessuno gli chiese conto di quello che stava facendo, anzi, nessuno lo fermò, come se stesse portando via degli effetti personali. Quando fu in macchina, il segugio che era in lui abbaiò: «Ora sì che sei coinvolto!»

Il Collare Della Colomba
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