Le mie scuse per Azza
6 aprile 2006
Per quanto tempo la Yamaha è rimasta senza dormire?
Quella notte fu lei a sterzare bruscamente. Per evitare il pullman che, improvvisamente, era uscito dalla carreggiata e stava andando a finire nella scarpata, a Shamiya.
Le luci accecanti mi impedivano di vedere che l’asfalto mi aveva maciullato le ginocchia. Ero tutto concentrato sulle lamiere schiacciate e sulla benzina che usciva dal serbatoio. Quando le luci si unirono in un unico bagliore intenso puntato su di me, mi svegliai, in una sala operatoria, dalla quale fui trasferito in una lunghissima stanza d’ospedale.
«Non era assunto, era da noi per un periodo di prova. Non è coperto dalla nostra assicurazione!» E con ciò la compagnia mi abbandonò al mio destino, all’ospedale di Nur. Avevo un ginocchio fracassato che doveva essere ricostruito.
Non piangere, Azza!
Mia madre Halìma mi ha consegnato il tuo disegno, con il tuo appello: «Resta vivo.»
È un ordine!
E le tue parole: «Con lui non c’è speranza!»
La tua rabbia: «Non voglio più parlargli!»
Davvero sei arrabbiata con me perché mi sono spappolato il ginocchio? Sei sempre stata insofferente con gli infermi!
Ti ricordi quando, da piccoli, cercammo di liberare quegli uccellini sul terrazzo di quella casa pericolante? Quando il muro crollò sotto il nostro peso, tu ti rimettesti in piedi, agile come un gatto, senza neanche un graffio, mentre io mi ritrovai con una gamba rotta. Me le suonasti di santa ragione quando mi riportarono a casa con la gamba ingessata.
Non ti facesti vedere per giorni.
Così capii che tu eri uno sguardo che si posava solo per volare subito via.
Tagliavi i rami sterili, ti liberavi di tutto ciò che intralciava i tuoi movimenti.
Questa volta mi hanno messo una protesi di metallo nel ginocchio. Mushabbab ha pagato i ventimila riyàl dell’intervento. Non capisco perché continui a investire, ostinatamente, il suo denaro nella mia sfortuna! Non farebbe meglio a darmi uno dei suoi talismani per proteggermi dalle disavventure?
A quanto pare sarò costretto a restare qui a lungo, e tu, Azza, avrai tutto il tempo per farti sbollire la rabbia!
Penso proprio che mi trasformerò in un uomo bionico, a cominciare dal ginocchio.
Mi libero anch’io, come i corpi che disegni, di braccia e gambe, e fuggo via.
Molte donne della Mecca hanno problemi alle ginocchia per via dell’abitudine di sedersi per terra a gambe incrociate, alla Gandhi. Molte di loro, dopo i quarantacinque anni, hanno subito almeno un intervento al ginocchio.
Il genere femminile darà vita a una nuova razza bionica? E io? Pensi che anch’io cambierò sesso?
Lasciami vaneggiare... non ti arrabbiare!
L’ispettore Nasser annotò: «Yusuf zoppica.»
E-mail n. 25
Mio caro *,
Continuarono a camminare in silenzio, sotto gli alberi, poi Birkin riprese a parlare lento, come intimorito.
«C’è una vita che appartiene alla morte e ce n’è un’altra che non le appartiene. Ci si stanca della prima, la nostra, ma Dio sa quando finirà. La seconda, invece... potrebbe essere l’amore, un amore che sia come un sonno dal quale si torna a nascere, che ci riporta a essere come bimbi appena nati...»
«Perché mai l’amore dovrebbe essere come un sonno?» gli chiese seria Ursula.
«Non saprei dirlo, ma dovrebbe essere così, tanto da sembrare simile alla morte. Io voglio lasciarmi dietro questo tipo di vita, ma avere maggior significato della vita stessa.»
(Da Donne innamorate, di D.H. Lawrence.)
Sono di umore nero mentre leggo di queste donne innamorate sul terrazzo della mia casa che si affaccia sul Vicolo delle Teste: un vero suicidio! Aburrùs fiuta da lontano l’odore delle donne innamorate.
Leggendo questo libro apertamente, senza nascondermi, so di sfidare qualcosa di più grande di mio padre, che è morto: sto sfidando tutte le teste del vicolo, inclusa la mia.
Sono cresciuta con la paura del mondo esterno. Forse non ci crederai ma, prima di incontrare te, la donna a cui hai prestato le tue cure e con cui sei uscito non era mai stata nella stessa stanza con un estraneo, non aveva mai camminato per strada da sola, non era mai rimasta sola con se stessa: non si era mai liberata dalla paura, e quindi non si era mai messa in gioco per vedere di cosa fosse capace.
La mia paura più grande è questa: svegliarmi una mattina e non avere più un indirizzo, salire su una macchina e non essere portata ad Aburrùs.
Tu sei il primo indirizzo che desidero, al di fuori di quell’indirizzo.
Se qualcuno di noi muore lontano dalla Mecca, in qualunque parte della terra si trovi viene prelevato da schiere di angeli, riportato alla Mecca e seppellito di notte nel cimitero di Mualàt. Perciò, proprio non potevo morire a Bonn, benché tante volte, laggiù, sia stata in punto di morte.
Spostarsi, viaggiare: nella mia testa tutto questo sarà per sempre associato a quel cubo giallo imbottito di nero. Non riesci a indovinare di quale cubo si tratti? Il luogo: istituto pedagogico per la formazione degli insegnanti. Il tempo: 1985.
La campanella suonava annunciando la fine delle lezioni. Il bidello chiudeva la porta dell’istituto con una grossa catena e un grande lucchetto. Noi studentesse ci ammassavamo dietro quella porta come un gregge di capre e sudavamo emanando quel particolare odore tipico delle adolescenti. Ci preparavamo in fretta indossando un nero spesso, l’abaya, e abbassando sul viso un nero trasparente, la tarha: un velo, due veli, tre veli, quattro veli, fino a sentirci soffocare, con il desiderio di battere il record. Più ne mettevamo, riuscendo a camminare senza inciampare, più eravamo orgogliose di noi stesse.
Ci accalcavamo e ci spingevamo dietro quella porta, cercando di respirare il meno possibile, di non sprecare la riserva d’aria nei polmoni, aspettando il momento in cui la porta improvvisamente si sarebbe aperta e noi saremmo state espulse: nel tragitto tra le due porte, quella dell’istituto e quella del pullmino, camminavamo non con le nostre gambe ma con quelle della folla delle compagne.
Dovevi essere un’acrobata per riuscire a conquistare un posto nel pullmino.
Parlare era proibito, ridere era proibito, persino respirare era proibito. La maggior parte di noi restava in piedi. E se riuscivi a sederti eri costretta a sopportare le altre che ti pestavano i piedi e ti schiacciavano la schiena.
Il pullmino era un cubo nero, con una sola cosa bianca: la veste dell’autista.
E una rossa: la penna dell’ispettrice che segnava i nomi di quelle che si scoprivano, mostrando un braccio o una parte del viso. L’indomani mattina, prima di entrare in classe, avrebbero ricevuto una punizione esemplare, inflitta secondo un preciso rituale sotto gli occhi di tutte le compagne.
Non ricordo che la mia abaya sia mai caduta, ma i miei peccati mortali erano spingere e ridere. Non sono mai riuscita a capire come facessero le ispettrici – in mezzo a quella massa informe di abaya nere – a seguire uno sguardo colpevole che si posava (o non si posava!) su un maschio che passava per strada.
Quel pullmino attraversava La Mecca espellendoci a una a una, fino a raggiungere Aburrùs, il Vicolo delle Teste. Avresti dovuto vederli, i ragazzi di Aburrùs! Ogni pomeriggio aspettavano all’imbocco del vicolo che quel pullmino giallo imbottito di nero apparisse all’orizzonte. Hai visto la cicatrice che ho sopra il naso, tra gli occhi? Fu una delle loro pietre; le lanciavano non perché sperassero di catturare una bella fata, ma semplicemente perché volevano riuscire a toccare il viso di una donna. Fosse anche con una pietra!
P.S. 1
Pensa a quanto sono cambiata da allora: da quattro veli neri sul viso al camice bianco, aperto sulla schiena, a Bonn!
P.S. 2
Ti ho già detto che mi sento più vicina a Ursula? E allora cosa ci fanno le calze di Gudrun sulle mie gambe?
Allegati segreti: foto.
Quei tre triangoli neri, completamente avvolti nelle abaya, sono le figlie dell’imàm Daùd, che si spingono tra loro dietro la porta socchiusa della loro casa, di fronte al caffè, per guardare di nascosto la televisione.
L’attenzione di Nasser era stata attratta dal passo di Donne innamorate in cui si parlava della morte come di un sonno. Nasser associò i brani sulla morte che Aisha prendeva dal romanzo di Lawrence e inseriva nelle sue e-mail ai riferimenti a corpi tranciati e mutilati di cui era pieno il diario di Yusuf.
Si chiedeva di quale forma di perversione soffrisse Yusuf. Ripensò a una frase ricorrente nel suo diario, che aveva il sapore di un grido d’aiuto.
12 dicembre 2005
Io conosco le donne nei libri e le donne mi conoscono nei sogni: raggiungo, con queste donne di carta, picchi di piacere che il mio corpo non ha mai conosciuto da sveglio, perché sono vigliacco, perché rimango sempre nel bianco, senza mai mescolarmi al nero!
Ogni mattina mi sveglio da quelle fantasie notturne pieno di spavento, perché sono un pervertito. Non riesco a raggiungere il piacere con una donna a meno che io non scriva di lei. Non ci riesco nemmeno con me stesso, se non scrivo di me stesso.
Riesco a godermi la mia città, Umm al-Qura, solo quando parlo di lei nel giornale, che poi viene accartocciato e buttato via.
Quel giorno Nasser si convinse che anche Yusuf era malato di malinconia, come quelle due, Azza e Aisha, nelle cui teste regnava una notte più nera delle loro abaya.
In un modo o in un altro, si annunciava una tragedia.