La moschea del Profeta a Medina
Nasser non avrebbe saputo dire quando era stata l’ultima volta che aveva dormito. Guidava sognando a occhi aperti, ascoltando una vocina che lo canzonava: ti piacerebbe avere altre medaglie... sembra proprio che tu non possa farne a meno, mio caro collezionista di decorazioni!
Appena superata Bahra, rotoli e rotoli di carta igienica iniziarono ad avvolgerlo, immobilizzandolo come una mummia. Dovette fare uno sforzo per uscire da quell’incubo. Si ricordò della promozione che aveva ricevuto per delle indagini che aveva condotto proprio lì. Dando credito ad alcune voci che giravano su un’attività illegale di riciclaggio della carta gestita da una banda di delinquenti a Bahra, un piccolo villaggio sull’antica strada che collegava La Mecca e Gedda, aveva scoperto che una montagna di libri e giornali venivano trasformati in carta igienica cancerogena.
«Stai passando proprio sulla pozza del mio sangue.» La voce di Aisha gli aveva soffiato quella frase nel petto. Nasser spalancò gli occhi inorridito. Lo spavento lo aveva fatto tornare perfettamente vigile, così si rese conto che era giunto nei pressi del luogo dove si era svolta la storica battaglia di Badr.
«Mi stesi proprio qui, aspettando l’arrivo dell’ambulanza. Non sentivo dolore. Guardando le ossa del bacino maciullato che spuntavano dalla carne viva, aspettai per ore. Poi le sirene dell’ambulanza squarciarono il silenzio. Un infermiere mi infilò un ago in una vena: il dolore svanì e io persi conoscenza. In quell’istante sentii le ossa del mio bacino frantumarsi, e non riuscii più a distinguere nulla.»
«Sei tu, quella morta?»
Nasser, portando il busto in avanti per sentire meglio, schiacciò il piede sull’acceleratore, e si svegliò, riuscendo a trattenere solo alcuni frammenti della risposta.
«Adesso tu mi conosci! Sai che morire non è difficile... difficile è vivere... La vita è la domanda più complicata e più impegnativa che ci sia.»
Il nastro di asfalto si snodava davanti a lui. Tastò l’amuleto nella tasca interna della giacca, resistendo al desiderio di tirarlo fuori e rimandando la lettura delle pergamene a quando avesse raggiunto un posto sicuro.
La superstrada per Medina era semideserta, e le pochissime auto sfrecciavano superando il limite di velocità consentito, malgrado la minaccia rappresentata dai cammelli che vagavano tra le dune sui due lati. Quegli animali, sobillati da Izraìl, l’angelo della morte, sfondavano la rete che separava la carreggiata dal deserto e attraversavano, scontrandosi con le auto e mietendo numerose vittime. Quella superstrada batteva ogni record in fatto di incidenti.
Nasser, arrivato a Medina, aveva parcheggiato l’auto. Ma non ricordava dove. Sapeva soltanto che ora si trovava davanti alla moschea del Profeta, vicino all’ingresso principale. Da lì poteva vedere perfettamente chi entrava e chi usciva, poteva scrutare ogni volto in cerca di Yusuf o di Mushabbab. Il fatto di non averli mai incontrati non lo preoccupava, era sicuro che sarebbero stati quei due a trovare lui, purché si fossero mantenuti in contatto con Muadh e avessero saputo dell’amuleto. Gli tremavano le gambe; la preghiera del tramonto stava per finire. Attese il momento di silenzio totale che segue l’ultimo taslìm, il saluto che conclude la preghiera, ed entrò nella moschea dalla porta di Gabriele. Andò ad appoggiarsi alla colonna detta della Penitenza, e subito gli vennero meno le forze e si addormentò. Nel dormiveglia, captò la voce squillante di un eunuco, uno di quelli al servizio della moschea, che parlava con un pellegrino egiziano.
«Dal tempo del Profeta, ogni colonna qui ha un nome. Questa è la colonna della Penitenza: Abu Labàba vi rimase incatenato di sua spontanea volontà per giorni. Permetteva solo alla figlia di liberarlo, e solo per le cinque preghiere rituali e i bisogni corporali. Voleva punirsi per avere rivelato ai Banu Qurayza la notizia dell’imminente attacco del Profeta alla loro tribù. Presso questa colonna, il Profeta era solito accogliere i poveri e i malati, e coloro che non avevano dimora.»
Nasser si svegliò chiedendosi se quella che aveva sentito fosse la voce dell’eunuco o di un messaggero del paradiso che aveva parlato direttamente al suo cuore. Non aveva il coraggio di visitare la tomba del Profeta, custodita nel luogo noto come Rawda Nabàwiyya, il Giardino del Profeta, considerato dai musulmani un pezzo di paradiso in terra. Facendo aderire meglio la schiena alla colonna della Penitenza, Nasser supplicò: «Mio Dio, anche se io mi fossi votato al male, adesso, proprio in quest’istante, rimetto a te la scelta. Scegli tu per me! Da questo momento sarò uno strumento nelle tue mani!»
Liberato dal peso di dover decidere, Nasser si sentì incredibilmente leggero, tutt’uno con la terra sotto di lui, dove giacevano i corpi dei compagni del Profeta. Era parte di quell’esistenza luminosa. Con mano tremante, liberò le pergamene e si mise a leggere.
Ultime volontà di Sara, redatte nel 4386 del calendario ebraico per suo figlio Màrid, sheikh della tribù Sabkha.
Due giorni erano passati da quando avevamo lasciato le oasi di Khaybar, due giorni durante i quali non avevamo detto neanche una parola. Avevamo lo stesso odore dei lupi selvatici, io ero avvolta nella mia abaya di ruvido pelo di cammello perché non si capisse che ero una donna, e anche per mantenere il corpo umido, grazie allo strato di sudore. Avanzavamo, come in un sogno, incuranti della ferocia del sole, verso la valle di Hamd, a nord, evitando le vie percorse dalle carovane. I nostri cuori erano ancora nell’oasi che avevamo lasciato, rimpiangevano le dolci sorgenti d’acqua e le rigogliose palme che avevano reso Khaybar famosa come campagna dello Hijaz.
A ogni passo che facevamo, il verde si diradava sempre di più, e sempre di più sfumava il sogno di ritornare nel nostro paradiso, dal tuo presunto padre, il cui sapore sentivo ancora sulla mia lingua. La notte in cui mi aveva lasciata partire, mi aveva detto: «La terra di Canaan si stende davanti al bambino che porti in grembo, Sara, mentre la caduta e la distruzione di Khaybar sono già scritte nei nostri libri. Noi, i discendenti eletti di Mosè, dobbiamo chinarci davanti al nostro destino. Nel destino di Mosè c’era il bastone che si trasformò in serpente alla presenza del faraone; nel nostro destino c’è questa volontà di trasformarci, di mescolarci a nazioni e religioni diverse prima di insediarci per sempre sul trono del nostro vero paradiso.»
Figlio mio adorato, quell’uomo che anelava a esserti padre pose sulle mie fragili spalle un’enorme responsabilità, quella del destino degli ebrei e del loro ritorno definitivo nella terra promessa di Canaan. Mi disse di farti crescere in una tribù indomabile, dove tu avresti potuto permettere al bastone di Mosè di riprendere a trasformarsi, e da dove niente avrebbe potuto sradicarti. Per questo, e per questo soltanto, io sono partita senza voltarmi indietro, avendo te nel mio intero essere. Un sogno o la realtà? Non mi sono fermata a chiedermelo. Io dovevo partorire l’erede di Mosè, colui che avrebbe ereditato il suo bastone. Così, a ogni passo che facevo strappavo via qualcosa della mia identità, della mia religione, del mio cuore, che avevo lasciato ai piedi di tuo padre Nidr, e di mio padre Kaab, e del mio popolo.
A ogni passo dovevo adattarmi alla perdita. Spensi la mia sete ardente con l’acqua dal sapore amaro dei pozzi ai quali ci dissetavamo lungo la strada, dimenticandomi per sempre delle acque di Khaybar, dolci come il miele.
Avanzavamo in quell’eterno deserto di sabbia puntando verso le oasi del Najd e la valle dei Banu Hanìfa e della tribù degli Shumùs, sperando che mi accogliessero nel loro invincibile destino, un destino scritto nei nostri libri e annunciato dai nostri indovini. Quelle tribù di mezzo, come un sole sorgente, avrebbero cavalcato la storia e tenuto le redini di molte nazioni, e gli zoccoli dei loro destrieri avrebbero fatto scaturire oro dalla terra e avrebbero acceso fuochi anche nei paesi non illuminati dal sole!
Io guardavo avanti, e vedevo un’infinita nuvola di polvere, e mandrie di cavalli neri che scaturivano da un qualche futuro e oscuravano l’orizzonte, e passavo lì in mezzo, con te in grembo, per raggiungere il capo di quelle genti e farti sedere sul suo destriero.
Ora Nasser comprendeva il valore di quelle antiche pergamene, e anche le ragioni della lotta scatenata da quell’amuleto, che lui non avrebbe dovuto aprire. Ma aveva deciso che non voleva più essere l’asino che trasporta un carico di libri senza sapere niente del loro contenuto! Da quel momento, avrebbe dovuto fare attenzione a dove metteva i piedi e a chi incontrava! Le ultime volontà di Sara, così consumate, fragili... Non gli era chiaro se le aveva lette sulle pergamene oppure nei volti intorno a lui, nei respiri trattenuti, nei bianchi uccelli che volavano sopra la moschea e che, in passato, l’avevano salvata dall’incendio provocato da un fulmine. Portando l’acqua nei loro becchi, avevano spento le fiamme prima che lambissero la tomba del Profeta.
Gli tornò in mente l’indovino Turayfa, che aveva annunciato il crollo della diga di Maarib e spinto i popoli arabi a disperdersi, dividendosi in svariati gruppi. Alcuni li mandò incontro a un destino di sangue in Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate; altri al papiro e alla scrittura, nella valle del Nilo; altri alle pietre, dando loro come destino quello di costruire insieme con gli angeli La Mecca, nella valle di Abramo; altri alla serenità delle palme di Medina, dove avrebbero accolto i messaggeri del paradiso; altri, infine, alla passione e alla poesia nel crescente fertile.