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Niente era più come prima. L’unica cosa che sentiva era una profonda solitudine. Erano svaniti tutti i volti che avevano dato un senso alle sue foto: prima quelli nella casa del fotografo Lababidi, poi quelli di Yusuf e di Mushabbab, e infine il volto di Khalìl. Gli sembrava che su di lui aleggiasse una maledizione!

La Mecca è sull’orlo di un abisso in attesa del giudizio universale, pensò Muadh interpretando il vuoto che percepiva attorno a sé. Cercava di convivere con quella sensazione, di abituarsi al ritmo monotono delle giornate nello studio fotografico Hadàtha dove lavorava, sperando di trovare presto uno scopo nella vita, una sua meta, non volendo più vivere all’ombra degli altri.

Quello studio era troppo angusto per contenere i pensieri audaci che gli venivano in quei giorni, specialmente quando il suo capo era in ritardo o non si faceva proprio vedere, e lui rimaneva da solo alle prese con il viso di una donna.

In quel caso, non metteva a fuoco l’immagine con la macchina fotografica, lo faceva con tutto il proprio corpo, sviluppando poi la pellicola come se si fosse trattato della propria pelle. Lo divertiva il ciuffo di capelli che ogni tanto una ragazza più maliziosa delle altre lasciava scivolare fuori dal velo mentre lui scattava. Muadh non diceva niente, ma sapeva che quel ciuffo l’avrebbe riportata da lui. Gli zelanti impiegati dell’ufficio passaporti o dell’ufficio anagrafe avrebbero infatti rifiutato quella fototessera, costringendo la ragazza a farsene scattare un’altra, questa volta senza ciuffo. E di nuovo lui l’avrebbe osservata lottare per un piccolo segno di autoaffermazione, magari spingendo il più possibile indietro sulla fronte la tarha, il copricapo nero, e mostrando l’attaccatura della scintillante notte dei capelli, e magari riuscendo a farla franca.

Negli scatti non ufficiali le ragazze erano più rilassate, non avevano problemi a mostrare un accenno di scollatura, un po’ di coscia, un po’ di braccio, seducenti. Ma quel che Muadh trovava assolutamente irresistibile era una caviglia sottile e ben tornita, non come quelle di sua madre, enormi come zampe di cammello, ingrossate dalla fatica e dalla miseria.

Quando sarò un artista di fama internazionale, mi specializzerò nel fotografare caviglie di donne, ne fotograferò a centinaia, a migliaia, pensava. Ne farò dei poster, con cui coprirò tutte le pareti.

Quello era il suo sogno proibito, e si era autoconvinto che non rientrasse nella categoria dei peccati, poiché non ricordava di aver letto di castighi da infliggere a coloro che guardavano le caviglie delle donne.

Ma quel giorno Muadh fu attratto dal giornale che un cliente, venuto per una fototessera, aveva lasciato sul bancone per andare a darsi una sistemata davanti allo specchio, prima di farsi fotografare; con il dito bagnato di saliva si stava aggiustando le sopracciglia, così lui ne approfittò per dare uno sguardo più da vicino alla foto di un quadro: il torace di un uomo, disegnato a carboncino su uno sfondo tutto bianco. Una struggente nostalgia lo assalì, un autentico terremoto. Conosceva quelle figure e quei tratti. I suoi occhi corsero alla didascalia: «Con il patrocinio del ministro della cultura, sua eccellenza Faysal Muayti, questa sera alle otto, a Gedda, alla galleria d’arte Ard in via Palestina 8, di fronte al centro commerciale Giumgiùm, sarà inaugurata la prima mostra personale di Nura, una delle pittrici più promettenti del panorama artistico saudita contemporaneo.»

Muadh venne fulminato dallo sguardo del cliente che nel frattempo si era seduto sullo sgabello girevole e aspettava di farsi immortalare, esibendo un sorriso che si allungava come un filoncino di pane somalo cosparso di semi di sesamo. Cercando di controllare il tremito delle mani e il battito accelerato del cuore, Muadh, con un gesto meccanico, regolò il faretto, puntandolo sul filoncino, e l’obiettivo, cercando l’angolatura giusta per rendere meno evidente il solco sulla fronte, tra le sopracciglia.

Fu a quel punto che, inaspettatamente, tutte le foto che in passato aveva immaginato di scattare ai disegni di Azza lo travolsero come una valanga e i pezzi dei corpi che avevano abitato il Vicolo delle Teste si sparsero ovunque. Muadh aveva trascorso tutta l’infanzia a spiarla e a sognarla, da sveglio e nel sonno, e ora tutte quelle immagini, immagazzinate nel corso degli anni, si erano fuse insieme per confluire in quelle poche righe pubblicate su una pagina di un giornale che mostrava il quadro di una donna sconosciuta.

Muadh si immobilizzò lasciando il viso del cliente imprigionato nell’obiettivo della macchina fotografica, come se avesse avuto una folgorazione a lungo attesa che finalmente dava un senso a tutta la sua vita, anzi rappresentava l’essenza della sua vita.

Pigiò frettolosamente il pulsante dello scatto, permettendo al filoncino di sbriciolarsi e a quella povera faccia di distendersi. Un attimo dopo che il cliente aveva lasciato lo studio, anche Muadh stava correndo lungo Harat al-Bab. Mancavano soltanto poche ore all’inaugurazione. Da quando aveva letto la notizia non riusciva a pensare ad altro: doveva arrivare a Gedda, alla galleria Ard, prima delle otto.

Muadh era abituato a muoversi con i mezzi pubblici. Prese al volo un autobus blu e arancione, e dopo un’ora si ritrovò al capolinea, alle spalle del centro commerciale Mahmal, nel cuore di Gedda, nota come la Sirena del Mar Rosso, cinta d’assedio da giganti di cemento armato e vetro come la banca Ahli, il palazzo reale e i centri commerciali Corniche e Mahmal.

Salì su un taxi per farsi portare alla galleria Ard; accasciato sul sedile posteriore lasciò che la sua mente si rilassasse, entrando in uno stato di torpore e distillando il vuoto provato dopo la scomparsa di Khalìl il Pilota, a seguito della quale aveva cominciato a cercare febbrilmente un’altra causa a cui votarsi, una causa però di cui voleva essere l’unico protagonista. Con sguardo assorto, cominciò a fermare la città-sirena in tanti fotogrammi mentali, senza curarsi del fatto che il tassista stava allungando il giro. Invece di tagliare per via Andalus, imboccare via Palestina e svoltare a sinistra verso il mare, il tassista fece il ponte di via Principe della Corona e poi il nuovo tunnel e sbucò in via Sittìn, dopo avere percorso il corpo della Sirena del Mar Rosso in tutta la sua lunghezza. In uno scatto panoramico, Muadh immortalò l’arteria principale, simile alla corda ben tesa su cui i funamboli camminano sospesi a mezz’aria. Nel primo tratto c’erano solo miseria ed esempi fatiscenti di edilizia popolare, ma avvicinandosi al cuore commerciale di Gedda, notoriamente rappresentato da via Medina, aumentavano i grattacieli di vetro e acciaio che arrivavano fino al mare, dove si stagliava la fontana di re Fahd, la più alta del mondo: pompava acqua direttamente dal mar Rosso e la lanciava nel cielo per centinaia di metri. Tra via Sittìn e via Medina, su entrambi i lati di via Palestina, c’era il regno dei cellulari; le auto con i clacson strombazzanti avanzavano lentamente in mezzo a un esercito di persone impegnate a vendere e a comprare telefoni di ultima generazione, nuovi e rubati.

Passarono davanti al consolato americano, semiabbandonato, circondato da barriere di cemento, e Muadh scattò con la mente una foto alle mitragliatrici posizionate sulle auto blindate davanti all’ingresso dell’edificio!

Di fronte a lui, in fondo a via Palestina, il disco arancione del sole si stava lentamente tuffando nel mar Rosso. Folti stormi di corvi scendevano in picchiata per cercare riparo sugli alberi. A ogni folata di vento o strombazzata di clacson, si libravano in aria, punteggiando di nero il gigantesco disco del sole. Quello spettacolo fece ricordare a Muadh un articolo di Yusuf intitolato Il corvo nella storia: sfuggito chissà come alla censura, aveva sollevato un polverone e a Yusuf era costato la sospensione della sua rubrica per qualche mese, cosa che aveva gettato il cuoco Ashi in un profondo sconforto.

Abbiamo fatto arrivare i corvi dall’estero perché dessero la caccia ai topi che si erano moltiplicati in modo esponenziale nelle nostre città a causa dell’aumento spaventoso dei quantitativi di spazzatura; ma anche i corvi si sono moltiplicati in modo preoccupante, e adesso, quando i loro stormi neri piovono giù dagli alberi e invadono lo spazio cittadino al tramonto, nel giardino di Mushabbab la discussione si infervora. Il più erudito dei convitati sostiene che gli antichi arabi chiamavano il corvo “orbo” per la sua abitudine di usare un solo occhio e chiudere l’altro in virtù della vista acuta che possiede e che gli consente di penetrare le viscere della terra. Ma Mushabbab, per animare ancor di più la discussione, ribatte che il corvo è il simbolo del Daggiàl, che vede da un solo occhio e a sua volta rappresenta la civiltà occidentale: un occhio dalla vista acuta sul mondo della materia e un altro completamente cieco sul mondo dello spirito!

Il taxi superò il centro commerciale Palestina, e Muadh scattò una foto a un turbinio di donne: una che andava svelta verso il centro commerciale, con il viso scoperto, e un’altra che camminava un passo dietro di lei, vestita di nero dalla testa ai piedi, e poi una comitiva di ragazzine con i veli abbandonati negligentemente sulle spalle e i capelli tinti che svolazzavano nella brezza marina. Muadh guardava sbalordito, come fosse atterrato su un altro pianeta, un mondo lontano anni luce da quello che si era lasciato alle spalle alla Mecca. E davvero avrebbe creduto di essere finito in un mondo alieno, se non fosse stato per quel carretto di legno fermo davanti all’ingresso del centro commerciale, proprio sotto il bancomat della Saudi-American Bank, e per quella venditrice africana, appoggiata al logo blu della banca, avvolta in uno scialle a pois arancioni che le copriva i capelli ma si era lasciato sfuggire tre treccine a sinistra e due a destra. Muadh catturò anche l’immagine di alcune ragazze che camminavano svelte nelle loro abaya appesantite esageratamente da volant appariscenti, accessori di argento e pezzi di stoffa colorati sulle braccia e sulle teste, con anelli, bracciali e collane di pelle, strass e altri materiali ultramoderni.

«Le ragazze sono come gelsomini fragranti!» disse, ricordando una frase che sentiva ripetere nella sua infanzia.

Il tassista pakistano continuava a spiare Muadh nello specchietto retrovisore. A un certo punto si mise a ridere, e Muadh cancellò immediatamente lo stupore dalla propria espressione.

«Tu vieni nuovo in questo paese?»

Muadh scosse la testa.

«Ma senti questo!»

In prossimità della fontana di re Fahd, gli occhi di Muadh si aprirono preparandosi a scattare un’altra foto. Ma il tassista, agitando la mano sinistra, annunciò che erano arrivati a destinazione.

«Qui!»

Muadh intuì dove si trovava la galleria grazie alla marea di macchine parcheggiate o prossime a esserlo. Disse al tassista di lasciarlo davanti al centro commerciale Giumgiùm e da lì proseguì a piedi. In maniera disinvolta si unì a un gruppetto di persone, e fu investito da una scia di costosi e intensi profumi, un potente mix di fragranze speziate per gli uomini e dolcissime per le donne. Entrando nella galleria, percepì distintamente l’odore del suo sudore e quello degli acidi che usava per lo sviluppo delle pellicole. Quegli acidi, che nel suo laboratorio erano dotati del potere straordinario di far comparire dal nulla figure e volti umani, ora erano pateticamente sopraffatti da profumi più aggressivi di un bulldozer.

Muadh si ritrovò da solo di fronte al primo quadro esposto nella galleria: una tela vuota, nella quale riusciva a percepire una luce azzurra soffusa che imprigionava due corpi femminili. Davano le spalle al mondo, ma poi uno dei due si girava verso di lui, mostrando il proprio dolore e la propria ironia. Muadh rabbrividì, chiudendo gli occhi e respingendo l’idea che gli era balenata nella mente. No, le due donne che si erano materializzate nello spazio vuoto della tela non potevano essere Azza e Aisha.

Si prese in giro da solo per quelle sue allucinazioni: «Tu, mio caro, sei solo l’ingenuo figlio di un imàm, del genere femminile conosci soltanto Azza e Aisha e per questo le vedi dappertutto!»

Una persona stava parlando con l’artista.

«Picasso una volta disse che l’arte è la memoria del dolore e della tristezza... lui considerava la tristezza come la spina dorsale dell’esistenza. Fu quando comprese che il suo amico Casagemas era morto che scelse il blu come colore predominante per i suoi quadri. Cosa ha spinto invece lei, Nura, a preferire il grigio?»

«L’ozio!»

La risposta era arrivata fulminea, accompagnata da una risata cristallina, ma Muadh non riuscì a sentire quel che seguì subito dopo, poiché un cameriere pakistano gli aveva tolto la visuale piazzandosi tra lui e un gruppo di persone a cui stava offrendo gli stuzzichini che portava su un vassoio d’argento. Muadh prese da un tavolo un bicchiere d’acqua e lo vuotò tutto d’un fiato per spegnere l’improvvisa arsura che l’aveva assalito.

«No, no... parlo sul serio! Lei non può privare il pubblico di Riyàd del piacere di ammirare i suoi lavori... Mi dica solo quando, penso io a tutto il resto.»

L’obiettivo di Muadh si chiuse sulla puledra che piegava graziosamente il collo per ringraziare l’interlocutore della sua cortesia. Scattò una foto al viso incorniciato da un velo di seta nera, rendendosi conto che ogni volta che l’aveva guardata aveva pensato a quello: una puledra selvaggia. La più bella tra quelle di re Salomone, pronta per essere passata a fil di spada!

I flash dei fotografi spinsero lontano Muadh e il suo obiettivo, appannato da immagini antiche di una donna – che però allora era velata! – sovrapposte a quelle della brillante artista lì di fronte a lui. Fece uno sforzo per oltrepassare i veli che coprivano quella donna del passato, per sovrapporre il volto celato di ieri a quello svelato di oggi. Le labbra erano le stesse, piene e carnose, le aveva notate nonostante il velo: di quel particolare era assolutamente sicuro, era impresso in modo indelebile nel suo archivio mentale.

Muadh fu distratto dai flash che cominciarono a scattare quando una importante personalità si accinse a dare il benvenuto ai presenti e a rivolgere parole di elogio all’artista.

«Nel nostro paese è in atto uno straordinario fermento. Il movimento di riforma ha avuto ripercussioni interessanti in ogni ambito. La società della cultura e delle arti non potrà che essere lieta di ospitare la mostra di un’artista così promettente nella propria sede di Riyàd...»

Muadh osservava frastornato lo stridente contrasto tra il bianco immacolato dei thawb degli uomini, da una parte, e il nero delle abaya di seta delle donne, dall’altra. Al confine tra il nero e il bianco, sfruttò tutta la sua abilità per ritoccare e riplasmare il volto dell’artista: voleva immaginare come poteva essere stato in passato, verificare se era consono a quello dell’altra donna che lui aveva conosciuto. Raschiò lo strato di trucco, ingrandì l’immagine, infoltì le sopracciglia, arrotondò le guance, rese più tagliente l’espressione degli occhi aggiungendo un lampo di selvaggia aspettativa e di disperazione, e da quei pixel proruppero corpi smembrati, in fuga dalle tele. In un quadro, l’artista era riuscita a catturare soltanto un ginocchio, mentre tutto il resto del corpo era scappato. La memoria di Muadh si concentrò sul vuoto lasciato da quel corpo, ora illuminato da un debole bagliore, ma il suo obiettivo fu di nuovo appannato dal passaggio inatteso di un fantasma che si sovrappose all’artista.

Fu impossibile per Muadh sciogliere i propri dubbi accertando l’identità di quel fantasma; la donna che aveva di fronte non aveva il viso velato, era perfettamente truccata e indossava abiti all’ultima moda: tutti particolari, questi, che rendevano inutilizzabili gli indizi conservati nel suo archivio mentale, a cui non poteva attingere per ottenere conferme oppure confutazioni.

Sì, il modo di schiudere le labbra carnose era lo stesso, ma quegli orecchini di diamanti non li aveva mai fotografati. La confusione maggiore riguardava le caviglie. Quelle impresse nella sua mente si muovevano scattanti nel Vicolo delle Teste nel cuore della notte. Le conosceva bene! Queste che aveva davanti erano diverse: le scarpe con i tacchi alti facevano apparire l’artista slanciata come una ballerina, eppure qualcosa di vitale era andato perduto, si era smarrito quel fuggire di nascosto in cerca della vita, quel voler correre via per salvarsi. Queste caviglie, invece, erano ben piantate a terra, come due pali, non correvano e non cercavano la vita.

Muadh provò un senso di soffocamento in mezzo a quella folla di uomini e donne che, mescolati insieme, parlavano, ridevano, facevano a gara per mettersi in mostra e guadagnare l’attenzione dei media. Uscì a prendere una boccata d’aria fresca. Attraversò via Palestina e andò a sedersi sull’altro lato, sul marciapiede davanti all’ingresso del centro commerciale Giumgiùm.

Il Collare Della Colomba
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