Le impronte dei piedi
La madre di Yusuf, Halìma, scivolò dolcemente tra la folla che girava intorno alla Kaaba nella Sacra Moschea; la luna piena illuminava il cortile che sembrava palpitare sotto i raggi argentei. Nei primi due giri si era fatta letteralmente trascinare da un lamento melodioso come un canto, in lingua persiana. Lo intonava un giovane iraniano che guidava quattro donne infilate nei loro sifsari: profumavano di dolci e piangevano la morte di Husain, nipote del Profeta Muhammad.
Halìma ascoltava il rumore delle sedie a rotelle ai piani superiori della Sacra Moschea e pensava a suo figlio che spingeva le persone anziane che non erano più in grado da sole di fare il giro attorno alla Kaaba. Yusuf faceva quel lavoro per guadagnare qualche soldo e, per attirare più clienti, praticava uno sconto sulla tariffa normalmente applicata dagli altri, che era di duecento riyàl per una circumdeambulazione completa.
Halìma girava, ripetendo il più straordinario dei nomi di Dio, Giabbàr, il Potente, perché confortasse il suo cuore ferito. Improvvisamente ebbe un fremito, quando in mezzo alla folla di fedeli un corpo snello le si avvicinò. Senza distogliere gli occhi dalle proprie mani tese nella supplica, Halìma portò a termine i sette giri canonici, alla fine dei quali pronunciò la formula: «Nel nome di Dio, e Dio è il più grande.»
Quando guardò verso l’angolo orientale della Kaaba dove c’è la pietra nera, le sembrò che le parole Hayy e Qayyùm, il Vivente e l’Eterno, ricamate con fili d’oro sulla stoffa di broccato nero della kiswa che riveste la Kaaba, prendessero vita. Non si voltò a guardare il suo accompagnatore, ma gli strinse forte la mano e se la portò al petto, come faceva da quando era nato, per rallentare l’attività frenetica delle sue onde cerebrali, e per trasmettergli la serenità del proprio cuore.
«Dormi abbastanza?»
Yusuf, che aveva un lampo di follia negli occhi, era abituato a quella sua eterna domanda, e ascoltò senza reagire la madre che gli diceva: «Ho consegnato le tue carte alla polizia. Perdonami!»
Lui non replicò, ma lei ebbe la sensazione che, a un tratto, i passi del figlio si facessero più leggeri, come quelli di un uccello. Poi Yusuf le afferrò la mano e la portò via dalla folla di persone che continuavano a girare. La condusse nel luogo dove si trova la cosiddetta stazione di Abramo, sormontata da una piccola cupola di vetro, attraverso la quale sono visibili le impronte dei piedi del profeta Abramo, rimaste miracolosamente impresse nella pietra durante la costruzione della casa di Dio, la Kaaba. Sono incastonate in una cornice d’argento su cui è inciso il Versetto del Trono, e lì accanto, su del velluto verde, è posata la chiave della Kaaba.
Halìma evitò di guardare suo figlio negli occhi, nei quali sembrava ardere un fuoco. Fissando l’antica chiave della Kaaba, che era stata oggetto di svariati articoli di Yusuf, pensò che milioni di persone, fino alla fine dei tempi, avrebbero osservato quella chiave e anche le impronte dei piedi di Abramo. Ma quale messaggio custodivano? Sentì il desiderio struggente di carpire il loro segreto, per poter aprire, anche solo per un secondo, la porta dell’impossibile che suo figlio e altre persone come lui avevano varcato, perdendosi.
Tutta la mia vita, pensò Halìma, ruota intorno a porte e chiavi. Davanti a noi si aprono porte che poi si richiudono.
Il pallore di suo figlio infiammò il suo senso di colpa. Era più magro che mai. Gli lasciò la mano ed esclamò: «Cercano qualcuno su cui far ricadere la responsabilità di quella morte... qualcuno da incolpare per l’omicidio!» Esitò un attimo prima di continuare: «Forse lo sheikh Muzàhim mi chiederà di sgombrare il terrazzo e la stanza.» Si allarmò per la rabbia imprevista che avvertì nei passi di Yusuf, ma lo stesso continuò: «C’è una disputa sul titolo di proprietà. C’è chi mette in dubbio l’autenticità dell’atto di acquisto della casa da parte di Muzàhim. Lo sai, una volta la casa apparteneva a mio padre che però la vendette a Muzàhim, ma adesso c’è chi reclama il terreno, affermando di essere in possesso di un titolo di proprietà molto più antico.»
«Mamma» rispose Yusuf, «Muzàhim si lamenta solo per far credere al vicolo di essere perseguitato, ma non permetterà mai a nessuno di portargli via neanche un granello di sabbia. E con te continuerà a recitare, come ha sempre fatto, la parte del benefattore.»
«Lo so bene, figliolo. Per il momento non si può ancora dire come andrà a finire, ma se le cose dovessero mettersi male posso sempre raggiungere Yusriya, la sorella di Khalìl, che insiste perché anch’io vada a stare a Robat.»
«Robat? Mamma, la tua vita sono la musica e le feste dei matrimoni, moriresti nel giro di pochi giorni nel grigiore di Robat. Ah, questa città ci maledice perché siamo tutti ipocriti!»
Halìma avvertì la vibrazione nella voce di Yusuf e si ricordò di un’alba di qualche mese prima. Nella moschea di Aburrùs, il Vicolo delle Teste, si stava svolgendo la preghiera dell’alba. L’imàm Daùd recitava il versetto 32 della Sura della Mensa: «Chiunque ucciderà una persona, senza che questa abbia ucciso un’altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera.» Qualcosa era scattato nella testa di Yusuf nel sentire quel versetto. Era uscito come un pazzo sul terrazzo e, nel giro di un secondo, era balzato giù nel vicolo. Aveva gli occhi iniettati di sangue come un animale ferito. Come un ossesso spinse la porta della moschea e avanzò tra le file di fedeli in preghiera. Le persone cercarono di ignorarlo e non smisero di pregare, ma Yusuf continuò ad avanzare; si avvicinò al condizionatore e lo spense, e spense anche le luci. Fece tutto rapidamente, senza quasi dare il tempo agli altri di rendersi conto di quel che stava succedendo: era come un proiettile sparato a velocità supersonica. Strappò il microfono da sotto il naso dell’imàm Daùd e urlò: «Voi abitanti di questo vicolo siete le persone che amo e difendo nei miei articoli, nonostante io sappia perfettamente che le vostre sono cause perse in partenza!»
Rivolse uno sguardo di fuoco a quei volti allarmati. «Voi, invece, rubate la mia vita, voi soffocate ogni spirito giovane nel vicolo. Voi odiate la vita, siete ipocriti e bugiardi. Ci avvelenate, avvelenate noi giovani di Aburrùs. Vi siete trasformati in un vicolo di spie: spiate le nostre più intime intenzioni e i nostri sogni più segreti, trasformando tutti i nostri momenti privati in un inferno. E avete anche il coraggio di pregare Dio cinque volte al giorno, implorandolo che vi accolga in paradiso, voi che ci avete reso la vita impossibile?»
Yusuf evitò lo sguardo di compassione che si leggeva negli occhi del cuoco Ashi, e rivolse invece tutto il suo disprezzo allo sheikh Muzàhim.
«Tu con una mano costruisci una prigione, con l’altra una moschea. Predichi la fede, ma di quale fede parli? È fede la tua? Hai sepolto viva tua figlia in casa tua! Tu sarai giudicato al cospetto di Dio nel giorno del giudizio per queste genuflessioni e prostrazioni. E tu» disse poi Yusuf rivolto a Yàbis lo Svuotafogne «sogni di entrare in paradiso grazie ai nostri rifiuti? Tu ti suicidi ogni giorno cercando, oltretutto, di convincerti che è bello sguazzare nella nostra merda. Che razza di esempio dai a noi giovani e anche ai tuoi figli? Pensa se seguissimo il tuo esempio! Ci trasformeremmo tutti in scarafaggi che sopravvivono grazie alla merda! Ma io stesso sono un ipocrita, nessuno di noi sa cosa significhi veramente abitare alla Mecca, all’ombra della casa di Dio. Dovremmo celebrare la vita e invece la combattiamo!»
Si levarono voci piene di ira.
«È il demonio in persona.»
«È posseduto, guardate i suoi occhi.»
Il microfono trasmise quel trambusto all’esterno, attirando altra gente. Da ogni parte del Vicolo delle Teste spuntarono persone che correvano verso la moschea per godersi lo spettacolo. Il vicolo era avvolto da una nuvola di polvere. Anche quelli che di solito non assistevano alla preghiera dell’alba non vollero perdersi l’apparizione del diavolo tentatore.
Nel frattempo, all’interno della moschea alcuni giovanotti avanzavano con cautela verso Yusuf, per cercare di strappargli il microfono dalla mano tremante.
Azza arrivò correndo nella sua abaya, spuntando da chissà dove. Ma davanti alla porta della moschea rimase incerta: voleva, anzi ardeva dal desiderio di farsi largo tra gli uomini per raggiungere Yusuf e calmarlo, ma la paura, ineffabile come il fruscio di ali di un colombo, la trattenne.
«Che razza di credenti siete? Cosa ci fate qui? Vi inginocchiate e vi prostrate come automi, mentre la fede vera sta fuori, nelle case e nelle strade, in ogni vostra azione, grande o piccola che sia.»
L’aria nella moschea era diventata incandescente, la sala sembrava avvolta da una nuvola calda nella quale i disegni dei tappeti che ricoprivano il pavimento si erano fatti evanescenti. Le vesti bianche degli uomini erano inzuppate di sudore. Un gruppo di giovani circondò Yusuf che respinse il primo assalitore con una spinta possente, mandandolo a gambe all’aria.
«Che Dio vi dia la forza, non lasciatevi spaventare da Satana, non lasciate che la vostra fede vacilli.» Dalle ultime file di fedeli in preghiera si era levata una voce a incoraggiare il gruppo di giovani. Ma anche Yusuf gridava: «Abbiate fede nella vita, nel soffio di vita che Dio ci ha donato dal suo stesso spirito, non combattete quel soffio che ci permette di godere del mondo e dei suoi benefici. Il paradiso comincia nella strada e finisce nella moschea!»
«Non ascoltate, fratelli, le suggestioni del demonio, recitate il nome di Dio e immobilizzatelo. È Satana che vi sta parlando per bocca del suo seguace Yusuf.»
Quella mattina Halìma fu svegliata, dal sonno profondo in cui era sprofondata, dalla voce rabbiosa di suo figlio, amplificata dal microfono. Si infilò in fretta l’abaya nera e corse giù nel vicolo. L’aria nella moschea era diventata elettrica quando Yusuf, costretto in un angolo della moschea, si era messo a urlare come un forsennato: «Pensate all’affare che avete fatto: una prigione per la vita e un paradiso per la morte!»
Il microfono trasmise uno stridio lacerante che perforò i cervelli nel Vicolo delle Teste.
Yusuf gridava, mentre mani e piedi si accanivano su di lui senza pietà, spaccandogli la faccia e le costole. Non risparmiarono neanche il suo ginocchio invalido: stavano picchiando Satana in persona! Yusuf infine si accasciò a terra, l’ira si spense e il respiro gli si spezzò in petto.
Halìma corse nel vicolo fino alla moschea e ruppe l’assedio intorno a suo figlio. Lo avevano legato con i fili del microfono. Gli avevano anche messo una kufiya rossa sulla faccia per non guardare negli occhi Satana.
«Sta’ indietro, donna. Non avvicinarti al demonio.»
Lei ignorò l’avvertimento, facendosi strada tra gli uomini fino al corpo di suo figlio, svenuto. Si sedette per terra e gli fece appoggiare la testa martoriata sul proprio grembo.
L’abaya le scivolò di dosso, e gli uomini arretrarono di colpo davanti al suo petto scoperto. Ma quando l’ambulanza giunse all’imbocco del Vicolo delle Teste la folla si agitò nuovamente e lei fu sopraffatta: si ritrovò fuori della moschea, dove cadde tra le braccia di Azza, mentre lo sheikh Muzàhim, con la sua barba arancione di henna, continuava a istigare gli animi già esacerbati degli altri. Con la mano che agitava il rosario dai grani neri, incitava infermieri e poliziotti a spedire Yusuf all’inferno.
«Difendete la vostra religione. Il demonio si è impadronito del corpo di questo dannato ragazzo. Rigettatelo all’inferno! Non abbiate pietà!»
Gli fece eco l’imàm Daùd: «Sì, è un seguace di Satana! Chi altri infatti potrebbe sollecitare a non invocare il nome di Dio e a distruggere le moschee? Ma essi avranno molta ignominia in questo mondo!»
Nel frattempo suo figlio Muadh era andato a riaccendere il condizionatore per cancellare ogni traccia del peccato commesso.
Yusuf fu condotto nella città di Taif e ricoverato nell’ospedale per malati mentali di Shihàr, dove fu legato al letto in una stanza insieme ad altri sei degenti che vivevano immersi nei loro escrementi, abbandonati a loro stessi. Yusuf era spaventosamente agitato. Finire in quell’ospedale era peggio che morire. Anche solo il nome, Shihàr, era considerato un insulto dalla gente del Vicolo delle Teste: Shihàr, dove le vergini all’improvviso partorivano e le persone sane morivano dalla sera alla mattina, dove alle menti veniva strappata ogni volontà e gli individui venivano trasformati in esseri inerti, privati di ogni umanità, con un’espressione ebete stampata sul viso.
«Non sono mai stato così lucido in vita mia, vi prego di ascoltarmi. Io vedo come siamo fatti veramente. È inutile nascondersi: siamo tutti ipocriti e bugiardi.»
Non erano tanto le parole a inquietare medici e infermieri ma la luce che brillava negli occhi spiritati di Yusuf, e neanche dosi massicce di potenti sedativi, che avrebbero steso persino un toro, erano riuscite a farlo addormentare. Il corpo si fiaccava, la lingua incespicava, ma i suoi occhi continuavano a trapassare i volti, con quel loro bagliore accecante, giorno e notte! Non si spensero neanche quando lo sottoposero all’elettroshock. Il medico gli girò la testa verso l’apparecchio per evitare di guardarlo negli occhi che sembravano leggere i pensieri altrui e brillavano come due stelle comete. Yusuf avvertì la prima scarica fin nelle pieghe del cervello, il suo corpo contratto si sollevò in aria di qualche centimetro, eppure gli occhi non si chiusero. Dopo la seconda scarica, di intensità raddoppiata, si avvertì perfino un lieve odore di bruciato, ma quegli occhi rimasero vigili. Andarono avanti per una settimana con l’elettroshock, ma non riuscirono in nessun modo a farlo addormentare. Allora lo misero in isolamento in una stanza, che in realtà era un cubo metallico.
Erano andati giù duri con le scariche elettriche, senza però riuscire ad aprire un varco nello scrigno della rabbia che gli avvelenava il sangue al punto che la sua pelle era diventata violacea. Quando finalmente Yusuf riuscì a mettersi sul viso una maschera di impassibilità, fu convocato per un secondo colloquio dal capo dell’équipe medica che lo aveva in cura.
Yusuf gli chiese di fare una telefonata, una sola! E così comparve in ospedale il cuoco Ashi che accompagnava sua madre Halìma. Yusuf appena li vide esclamò: «Io non sono più pazzo di uno qualunque tra voi!»
Nella stanza spoglia, riservata alle visite ai degenti, Ashi rimase sconvolto nel vedere le pietose condizioni in cui Yusuf era ridotto: legato a una sedia, con la barba lunga e i tratti alterati da una sofferenza disumana, sembrava implorarli con gli occhi scintillanti. L’aria gelida del condizionatore li frustava in viso, eppure gocce di sudore bagnavano la fronte di Halìma e le scivolavano sul mento e sul petto prosperoso. Qualcosa in quel sudore amplificava l’espressione vitrea negli occhi di Yusuf. Il suo corpo scuro e rinsecchito sembrava consumarsi alla fiamma di un fuoco interiore. La voce che gli uscì dal petto era rauca come carta vetrata. «Ashi, tu sei la mia unica speranza di fuggire da questa umiliazione. Mi legano al letto e mi costringono a dormire in mezzo ai miei bisogni, come una bestia.»
Ashi rivolse a Halìma uno sguardo interrogativo. Lei esclamò: «Pazzo o non pazzo, questo non è un posto degno dei figli di Adamo!»
Per la prima volta in vita sua, la voce di Halìma aveva un tono amareggiato.
«Portatemi alla Sacra Moschea e lasciatemi lì!» implorò Yusuf.
Il medico cercò di spiegare loro quanto fosse grave il suo stato di salute.
«La frequenza delle onde beta» li avvertì il medico «ha raggiunto un livello allarmante. Ancora poco e questo giovanotto impazzirà definitivamente. Normalmente si va da quindici a trenta hertz, e già questo è indice di un cervello in stato di notevole attività. Il cervello del vostro parente» disse rivolgendosi al solo Ashi «produce senza interruzione onde beta a una frequenza di trentadue hertz, oltre la soglia quindi dei trenta hertz, che è la frequenza massima. Il suo cervello avrebbe bisogno di un sonno profondo senza sogni per produrre onde delta, che permetterebbero al suo corpo di guarire, di riequilibrare l’orologio biologico. Ma nemmeno i più potenti sedativi sono riusciti a farlo addormentare. Con ogni probabilità, lasciare l’ospedale in queste condizioni significherà per questo giovanotto spezzare il filo sottile che ancora lo lega alla ragione.»
Tutto ciò che Halìma e Ashi capirono di quel discorso tecnico fu che Yusuf aveva bisogno di essere portato nella casa di Dio per riequilibrare le sue onde beta, o gamma, o come diavolo si chiamavano. Avendo fallito nell’intento di spaventarli, al medico non restò che firmare la scheda per la dimissione, ma prima ordinò che Yusuf fosse condotto legato al taxi di Khalìl che aspettava fuori dell’ospedale.
Appena furono saliti sul taxi, Ashi slegò Yusuf che, per la prima volta dopo tutti quei giorni, chiuse gli occhi, si stese lì, sul sedile posteriore, e si addormentò di colpo. Khalìl lo guardò nello specchietto retrovisore e dalla sua testa svanirono all’istante tutte le battute sarcastiche che si era preparato.
Attraversarono la città di Taif, in direzione dei monti Hada e Kara, poi scesero verso Arafàt. Halìma, Ashi e Khalìl ascoltavano in silenzio Yusuf che russava pesantemente: era come se inalasse la vita, come se si riappropriasse della salute mentale che avevano cercato di strappargli durante la degenza nell’ospedale di Shihàr.
Appena raggiunsero la Sacra Moschea alla Mecca, prima ancora che il taxi si fermasse completamente, Yusuf saltò giù e svanì tra la folla. Halìma trattenne per il braccio Ashi impedendogli di inseguirlo.
«È nelle mani di Dio.»
Halìma non provò a cercarlo, ma gli mandò Muadh per essere sicura che dormisse abbastanza. Yusuf trascorse tre giorni di fila senza lasciare mai la moschea, neanche per fare i suoi bisogni. Sembrava essere diventato evanescente, si sosteneva bevendo l’acqua santa di Zamzàm. Sentendosi leggero e pensando di essere diventato trasparente, andava a piazzarsi nel cortile interno della Sacra Moschea, lungo uno dei vialetti lastricati di marmo che conducevano alla Kaaba, e bloccava le persone.
Aveva l’impressione che gli altri camminando lo attraversassero, come se lui non esistesse. Non aveva più consistenza corporea, il suo corpo era diventato come i raggi X: metteva a nudo le anime di quelli che gli passavano accanto.
Restando a una certa distanza, Muadh osservava Yusuf che ogni giorno si posizionava davanti a una della porte della moschea. Al momento dell’adhàn, l’invito alla preghiera, andava incontro ai fedeli che entravano: correva a stringere loro le mani accogliendoli con un caloroso benvenuto.
«Sei un buon uomo» diceva con gioia fanciullesca, «e io ti saluto!»
Qualcuno però veniva anche cacciato via da Yusuf, con una rabbia che i portici della moschea amplificavano. Fu questa la sorte che toccò ad esempio al venditore di siwak, i bastoncini per pulire i denti, a cui urlò: «Tu sei il male, in te vedo il demonio!»
Ma tutti, buoni e cattivi, erano ugualmente spaventati e cercavano di evitarlo.
Era una sofferenza per Muadh vedere Yusuf aggirarsi tra le colonne dei portici, evitato dalla folla, lanciato all’inseguimento dei fantasmi della sua mente. Un giorno, si fece coraggio e gli andò vicino. Yusuf gli strinse la mano con foga.
«Come sono felice di vederti con i miei nuovi occhi, Muadh. Ti vedo come una parte del mio corpo. Non ti stupire per quello che faccio con i fedeli, io vedo attraverso loro, così come ora vedo attraverso te.»
«Non so cosa ti stia accadendo, Yusuf, però ti chiedo: perché imiti lo sheikh Muzàhim che classifica la gente come buona o cattiva, come angeli o demoni?»
«No, no, Muadh, non li sto classificando, io mi sento spaventosamente leggero, non sono più un corpo, sono come i raggi X... prova ad afferrarmi!»
Muadh indietreggiò: aveva l’impressione di poter veramente passare attraverso Yusuf.
Dopo qualche giorno, Yusuf ricomparve nel Vicolo delle Teste, mantenendo però un silenzio di tomba. Gli abitanti del vicolo spiavano le sue notti insonni, in cui non riusciva a chiudere occhio. Uno spaventoso stato di agitazione gli impediva non solo di dormire ma perfino di stare seduto. Si aggirava sul terrazzo giorno e notte, strappando le sue carte e i suoi documenti: la carta di identità, il diploma di laurea dell’università di Umm al-Qura, gli articoli non ancora pubblicati, gli appunti sulla Mecca, le poche foto scattate con i compagni al tempo dell’università.
«Non lascerò neanche una parola. Devo assolutamente liberarmi dalla falsa vita in cui mi ero fatto ingabbiare» ripeteva come uno spiritato alla madre Halìma. Lei lo guardava in silenzio, senza dire niente, mentre lui gettava nel vicolo pezzi del suo innocente passato.
Questo avvenne dopo il tradimento di Azza.
Il colombo che si era posato ai loro piedi nel cortile della moschea riportò Halìma al presente. Il colombo girava in tondo e tubava puntando i suoi occhi di fuoco in quelli di Yusuf. Accanto a loro un uomo cieco recitava alcuni versetti del Corano. Ne aveva una copia in grembo, aperta sul Versetto della Luce, e le sue pupille, mentre recitava, sembravano farsi sempre più bianche: «Dio è la luce dei cieli e della terra...»
«Nessuno è più generoso di Dio, figlio mio» disse Halìma. «Presto tutto sarà finito, la verità sul cadavere verrà a galla e tu non dovrai più preoccuparti...»
Improvvisamente uno schianto, il fragore di qualcosa che si fracassava, la interruppe, turbando la serenità nel cortile della moschea. Le persone in preghiera e anche tutti gli altri cominciarono a correre di qua e di là. Ai loro piedi erano caduti pezzi di vetro. Yusuf si rese conto immediatamente di quel che stava accadendo. Un uomo mascherato aveva fracassato la cupola di vetro sotto la quale erano custodite le impronte dei piedi del profeta Abramo, e ora stava minacciando le guardie con una motosega. Tutti urlavano terrorizzati: «Ha rubato la chiave della Kaaba, fermate l’infedele!»
Le guardie si tenevano però a distanza di sicurezza, per paura della motosega.
L’uomo si mise a correre verso la porta di Masaa, imitato da Yusuf che però prese una scorciatoia girando intorno alle fontane da cui scorreva l’acqua santa di Zamzàm, dove aveva lasciato la sedia a rotelle che gli serviva per trasportare i pellegrini malati e che gli garantiva un reddito per vivere. Il ladro si trovava già oltre la porta di Masaa quando Yusuf gli tagliò la strada, spingendogli contro la sedia a rotelle. Nell’urto la motosega volò in aria e poi cadde ai piedi di Halìma, che era accorsa.
«Fermate il ladro. Sta’ attento, Yu...» Le parole le si strozzarono in gola.
I due corpi si avvinghiarono, Yusuf rotolò per terra assieme al ladro, la folla osservava i due impegnati in una lotta che sembrava impari pensando che sicuramente Yusuf avrebbe perso contro quel gigante, ma l’esile Yusuf aveva la forza decuplicata dalla follia.
La chiave rotolò sul pavimento di marmo e Yusuf si tuffò per afferrarla. La folla urlò mentre la chiave girava più volte su se stessa e finiva dentro il tombino in cui defluiva l’acqua di Zamzàm. Sembrò che il tombino si inarcasse, lanciando un grido, terrorizzato per il fatto di dover accogliere quella sacra reliquia.
Yusuf infilò la mano nel tombino e lo ispezionò, mentre il ladro si eclissava. La polizia giunse sul posto e convocò gli operai della ditta incaricata della manutenzione, perché ispezionassero meglio il tombino, ma non si trovò traccia della chiave. Anche Yusuf nel frattempo era scomparso. A quel punto i testimoni oculari cominciarono a dubitare di aver davvero visto la chiave cadere lì dentro.
Un pesante silenzio scese sulla Sacra Moschea. I colombi stavano immobili sulle arcate dei portici, i loro occhi riflettevano come tristi specchi i frammenti della cupola di vetro, che annunciavano future disgrazie. Le impronte dei piedi del profeta Abramo non avevano più un riparo, erano esposte alla notte della Mecca. E quei piedi sembravano bruciare dal desiderio di rimettersi in viaggio.