Tangenziale

Controllando le liste dei passeggeri in partenza per Casablanca con la Saudi Airlines, l’ispettore Nasser scoprì che Ahmad, l’ex marito di Aisha, aveva preso quel volo la mattina stessa in cui nel Vicolo delle Teste era apparso il cadavere. L’insolita presenza di Ahmad ad Aburrùs, segnalata da parecchi testimoni, e poi la sua partenza per il Marocco proprio quella mattina facevano di Aisha la potenziale vittima e del suo ex marito il potenziale assassino, solo che Nasser non aveva il coraggio di seguire quella pista.

Era bloccato da ore nel traffico congestionato, sulla discesa di Harat al-Bab in direzione della Sacra Moschea: un puntino nero, schiacciato tra quattro file di auto che scaricavano i loro gas nell’aria già irrespirabile della Mecca. A farla da padroni erano gli autobus blu e arancioni del trasporto pubblico, i camion carichi di derrate alimentari e bestiame e i pullman delle agenzie che si occupavano di turismo religioso con autisti spericolati alla guida che premevano il piede sull’acceleratore per scoraggiare i conducenti delle auto, i quali, comunque, per nulla intimoriti, si infilavano rombando in qualsiasi varco si aprisse tra quei giganti, pur di muoversi.

Nella stagione del pellegrinaggio i padroni delle strade diventavano proprio i pullman che, simili a mostri mitologici con tante teste – quelle dei pellegrini a bordo, incollate ai vetri scuri dei finestrini –, si facevano strada in mezzo a folle oceaniche. Gli abitanti della Mecca, in quel periodo dell’anno, evitavano il cuore della città, lasciando campo libero ai pellegrini, e per raggiungere un qualsiasi punto della cosiddetta cintura sacra, la zona circostante la Grande Moschea, si servivano della tangenziale. Il sangue veniva pompato fino al cuore della città, rappresentato dalla Grande Moschea, dalle numerose arterie commerciali provenienti da ogni direzione.

Nasser lasciò l’auto con il motore acceso e fece un salto nella pasticceria di Abu Nar, che vendeva i migliori dolci tradizionali della Mecca, i laddo. Comprò sei di quelle frittelline gialle, grandi quanto una pallina da golf, fatte con farina di ceci, zibibbo, zucchero e un pizzico di cardamomo, e le infilò in uno sfilatino di pane, sotto lo sguardo divertito di Abu Nar, il pasticcere. Nasser adorava fare colazione e anche cenare con quei dolci, nonostante la sua glicemia fosse già al limite della norma, come quella della stragrande maggioranza dei figli del boom petrolifero.

Tornato a sedersi dietro il volante, addentò con avidità quella bomba dolce! Le altre auto non si erano mosse di un centimetro: un pullman aveva bloccato la strada per far scendere i pellegrini.

Nasser osservava le loro teste appoggiate ai finestrini, le spalle nude degli uomini, i volti scoperti delle donne. Invano cercò una risposta alla domanda che gli balenò nella mente: perché le donne dovevano avere il volto scoperto durante i riti religiosi – se trasgredivano erano costrette per penitenza a offrire in sacrificio un agnello e a distribuire la carne ai poveri –, mentre nella vita quotidiana dovevano essere avvolte, anzi sigillate, nel nero più totale? Una contraddizione, questa, di cui anche lui – come tutti gli altri – era responsabile! Si rendeva conto che i volti scoperti delle pellegrine non suscitavano in lui nessun fremito, nessun desiderio! Non gli batteva forte il cuore, non gli si era seccata la gola e non si sentiva eccitato, come gli accadeva invece in altre circostanze. Cos’erano, quelle figure assiepate nel pullman? Un terzo sesso? Volti senza connotazione di genere, né maschili né femminili?

Per un attimo si abbandonò alle sue fantasie e pensò che sarebbe stato bello incontrare Aisha o Azza nel cortile della moschea, vederle a viso scoperto, calpestare lo stesso pavimento di marmo su cui quelle due creature avevano posato i piedi.

All’improvviso, gli passò l’appetito: riavvolse nella carta quel che restava del sandwich e lo gettò sul sedile del passeggero. Davanti a lui si allungava un fiume di macchine che procedeva a passo d’uomo. File di negozi si aprivano su entrambi i lati della strada: Drogheria della Luce, Oasi della Luce, Barbiere della Luce, Shawerma della Luce, Succhi di frutta della Luce, Studio fotografico della Luce: quella parola, nur, luce, era monotonamente ripetuta, con una sola variazione: salàm, pace, che compariva inaspettatamente su un’insegna: «Bevande della Pace». Ma la monotona ripetizione riprendeva subito dopo lungo la strada, dove si aprivano, uno in fila all’altro, gli uffici delle guide per i pellegrini, pieni di luci scintillanti: alle pareti le gigantografie del re Abdallah, dietro le scrivanie gli impiegati seduti in attesa dei clienti. In una piccola libreria, che vendeva più che altro edizioni del Corano e biografie del Profeta, Nasser vide esposte alcune copie del quotidiano Umm al-Qura: di nuovo scese dall’auto – approfittando ancora una volta del traffico bloccato –, ne afferrò una, la pagò e tornò a sedersi dietro il volante della sua auto. Cercò nelle pagine interne la rubrica di Yusuf. Il titolo, Uno sguardo sul cimitero di Mualàt, lo lasciò interdetto.

Stanno progettando di far crescere il cimitero di Mualàt in verticale.

Noi tutti ci siamo trasformati in fan entusiasti dell’arte moderna e dell’arte concettuale, e sognamo di trasformare, a breve, Mualàt in una torre. Presto consegneremo i nostri morti alla modernità e alla postmodernità. Attendiamo con ansia il giorno in cui una società appaltatrice, con una vena più creativa rispetto alle altre, costruirà quell’edificio, con i pavimenti in vetro, così i morti più vecchi potranno godersi lo spettacolo della decomposizione dei morti più nuovi, sistemati ai piani superiori.

Ormai, ho paura di fare la mia consueta passeggiata mattutina nel cimitero di Mualàt.

Alla Mecca siamo diventati dei professionisti del turismo religioso, eppure l’unica nostra preoccupazione è sfrattare i morti dalle loro tombe. Il tabù è stato superato negli anni ottanta, quando le ditte appaltatrici si sono messe a scavare nel cimitero di Shubbayka, uno dei più antichi della Mecca, per deportare i defunti e costruire grattacieli, hotel a cinque stelle e parcheggi.

Enormi camion carichi di scheletri: li vedevamo da bambini e continuiamo a vederli ancora. Si dirigono a tutta velocità verso Misfala e il pozzo di Magin. Corrono per portare quelle antiche salme alle loro moderne sepolture, che però nessuno sa dove siano!

Il traffico riprese a scorrere, una moto si infilò in uno stretto passaggio tra due auto. Il motociclista accelerò, e dal tubo di scappamento uscì una nuvola di gas che investì Nasser. Chiuse immediatamente il finestrino e accese il climatizzatore ridendo di se stesso: aveva abbassato il finestrino pensando di respirare un po’ di aria pura.

Il suo sguardo si posò sulla testa lucida, appena rasata, del passeggero seduto sul sellino posteriore della moto con i lembi dell’ihràm, l’abito bianco tipico dei pellegrini, che svolazzavano creando un buffo contrasto con la tuta da ginnastica e il casco indossati dal guidatore.

Nasser era indispettito dalla facilità con cui si spostavano le moto, che negli ultimi anni erano diventate il principale mezzo di trasporto, sostituendo i taxi che contribuivano notevolmente a congestionare il traffico e provocavano incidenti in continuazione.

Il traffico rallentò nuovamente, a causa di un gruppo di pellegrini che stava attraversando la strada capitanato da una guida (un ragazzino!) che teneva alta la bandiera verde della squadra nazionale saudita di calcio. «Allahu akbar! Dio è il più grande!» inneggiavano i pellegrini, diretti verso la Grande Moschea.

Nasser riprese a leggere, e lo sguardo gli cadde sulla parola “rivolta”.

Forse i morti della Mecca avrebbero diritto più di chiunque altro di dire la loro su questa torre, visto che saranno loro i primi a subirne le conseguenze.

Tra l’altro, i cimiteri della Mecca hanno alle spalle una lunga storia di ribellioni, la più famosa delle quali fu la rivolta dei becchini, nel 1908, quando anche alla Mecca si avvertirono le ripercussioni delle trasformazioni politiche che avevano avuto luogo nell’impero ottomano.

Il traffico riprese a scorrere, dopo che l’ennesimo gruppo di pellegrini aveva attraversato la strada; li inseguiva un ragazzino afghano, implorandoli di comprare i tappetini da preghiera che vendeva e su cui era raffigurata la Kaaba.

Nasser imboccò la prima strada a destra, in direzione di Hafair. Non aveva una meta precisa; da quando gli era stato affidato il caso del Vicolo delle Teste, era come se La Mecca (dove si era trasferito molti anni prima, dopo aver lasciato Taif, la sua città natale) gli gridasse nel cuore, lasciandolo profondamente turbato. Più volte si era messo a guidare nella notte, solo per accertarsi che la sua Mecca fosse ancora lì, e che gli angeli non l’avessero trasportata in paradiso, punendo così gli esseri umani per il loro comportamento indegno.

Svoltò nel Vicolo di Mansùr e si ritrovò circondato da una miriade di volti neri luccicanti; si sentì al sicuro solo quando imboccò il Vicolo di Shinqìti, chiamato così poiché lì si avvertiva la presenza concreta di quel mistico musulmano, che aveva l’abitudine di materializzarsi all’improvviso, mettendosi a vagare nel vicolo o sedendosi davanti alla piccola moschea a lui intitolata, rimanendo giusto il tempo di compiere un miracolo e scomparendo nuovamente.

Nasser parcheggiò la macchina di fronte alla moschea di Shinqìti e si mise a passeggiare, dando una sbirciatina intorno. Non sapeva nemmeno lui cosa stesse cercando. Camminava augurandosi che accadesse una disgrazia che costringesse Shinqìti a uscire dal suo mistico nascondiglio e a palesarsi.

C’era un’atmosfera sospesa, incantata, come se ci si aspettasse da un momento all’altro quell’apparizione prodigiosa. Accadeva sempre così, improvvisamente lui spuntava dal nulla per compiere il suo miracolo e poi svaniva. Così aveva fatto quando quel padre aveva chiuso inavvertitamente la mano del figlio nella porta dell’auto. Richiamato dalle urla del bambino, Shinqìti era comparso, aveva declamato alcuni versetti del Corano e aveva soffiato sulla mano ferita, che era guarita all’istante. Lo stesso quando quel motociclista, scontrandosi con un’automobile, si era maciullato la gamba. Anche in quel caso era apparso Shinqìti che, come di consueto, aveva declamato alcuni versetti del Corano e aveva soffiato sulla gamba. Le fratture si erano ricomposte e le ferite si erano rimarginate, all’istante, e il giovane si era rialzato come se niente fosse successo e aveva spinto personalmente la moto distrutta fino alla più vicina officina meccanica.

Nasser pensò che questo Shinqìti sarebbe stato perfetto per uno di quei canali satellitari da dove chiromanti e maghi dispensavano consigli ai telespettatori, leggendo le carte o fornendo pozioni magiche che avrebbero dovuto trasformare in un cigno un brutto anatroccolo, per il quale non sarebbe bastato il miglior chirurgo estetico del mondo!

Nasser si guardò intorno nel tentativo di individuare gli occhi da cui si sentiva spiato, gli occhi del giocatore invisibile che lo faceva girare per La Mecca, indirizzando le sue indagini. Cercava anche di ritrovare i segni dell’antica bellezza di cui aveva goduto quel quartiere, noto un tempo come Aqhwaniyya, il Girasole! Come Yusuf aveva scritto una volta, quello, che ora era un dedalo di vicoli degradati, nella prima metà del ventesimo secolo era stato il quartiere del passeggio e della moda (come dire Hyde Park per Londra, Central Park per New York, gli Champs-Élysées per Parigi), dove ogni pomeriggio l’élite della Mecca andava a sfoggiare i suoi abiti più sontuosi che avrebbero fatto sfigurare perfino i più raffinati governatori turchi.

A un tratto, un uomo nero di carnagione spuntò nel vicolo. L’attenzione di Nasser fu attirata dalle suppellettili che aveva intorno: un sofà rosso tutto bucato, una giara e tre mensole di formica scheggiate, piene di pane secco e di scatolette di cibo aperte e vuotate per metà. Un vero e proprio soggiorno in mezzo alla strada! L’uomo gli andò incontro tendendo le braccia come per stringergli la mano. Nasser mise la sua nel palmo di quell’uomo, sentendo con disgusto che era viscido e molliccio, come fatto di argilla, e tuttavia non riuscendo a liberarsene. Guardandolo dritto negli occhi, l’uomo disse: «Le donne vengono con i coltelli... alcuni di noi leggono la lama affilata... tu lo farai... rallenta... non leggere con il tuo cuore... non serve a niente... le donne sono una disgrazia per le stesse donne!»

Dopodiché gli lasciò la mano e scomparve. Nasser avvertì un profondo disagio: aveva già visto quell’uomo da qualche parte, ma non si ricordava dove. Pensò di seguirlo per scoprirne l’identità, ma le sue oscure parole erano come una barriera che gli impediva di avanzare.

Risalì in macchina e si avviò, ridendo, e pensando all’assurdità di quella situazione. Lungo la via principale di Rusayfa, a un tratto, gli tornò in mente la parola “coltelli”, e la associò all’articolo che Yusuf aveva pubblicato on line qualche tempo prima proprio sui coltelli. Lo ricordava quasi a memoria.

20 giugno 2000

Gli anni ottanta alla Mecca si aprirono con la telefonata fatta da una donna al palazzo dell’emirato, per riferire un episodio comico.

«Sono meccana, figlia di meccani» esordì la donna. «Da qualche tempo io e mio marito avevamo notato che i coltelli erano spariti dalla circolazione, non se ne trovavano più, in nessun negozio. Così ci siamo messi a indagare e abbiamo scoperto che la comunità africana sta facendo incetta di tutti gli oggetti taglienti in circolazione, compresi coltelli e rasoi. Un fenomeno strano e senza precedenti, anche secondo il parere dei negozianti.»

Quella notizia fece ridere di gusto tutti gli impiegati del palazzo dell’emirato, ma contribuì a far venire a galla una brutta storia di malaffare.

In città era in atto una vera e propria guerra: il vice dell’emiro scoprì che il sottosegretario, abusando della propria autorità, stava tramando per impadronirsi di alcuni appezzamenti di terreno a Rusayfa. Quei fondi erano di proprietà della famiglia Qabbugi, ma da qualche tempo vi si erano insediati degli immigrati clandestini di origine africana. Non riuscendo a rientrare in possesso dei propri fondi, i Qabbugi si erano accordati proprio con il sottosegretario che, facendo passare l’operazione per una scelta obbligata che avrebbe contribuito allo sviluppo urbano della città, era ricorso addirittura all’esercito e aveva tentato di cacciare con la forza quei clandestini. Quelli però decisero di resistere, barricandosi in quel luogo e usando, per difendersi, proprio le armi bianche sparite dal mercato e le pietre, con cui riuscirono a mietere molte vittime tra i soldati.

Il losco affare era stato scoperto grazie alla telefonata della donna. Intervenne l’emiro della Mecca in persona, che fermò i disordini e riuscì a contenere i danni, e costrinse il sottosegretario a dimettersi. Rusayfa gli fu fatale: un tempo onorato e rispettato, lì rotolò nella polvere.

«Donne!»

Nasser rise beffardo, ripensando a una lettera, conservata nell’archivio personale del suo capo: la prima di una lunga serie che, una ventina di anni prima, aveva invaso tutti gli uffici governativi, gabinetto reale compreso. In quella lettera una certa dottoressa Farìda, che si autodefiniva una benefattrice, esponeva il suo piano per favorire la ripresa economica del paese: «Alle autorità competenti. Allarmata dal pericolo crescente rappresentato per il nostro paese dall’esercito di lavoratori clandestini, che depauperano le nostre risorse finanziarie, suggerisco di costruire due campi di accoglienza nel deserto: uno, per gli uomini, nel deserto del Rub Khali e l’altro, per le donne, nel deserto del Nefud. Questi campi dovranno accogliere tutti i clandestini entrati nel nostro paese senza un regolare permesso di soggiorno, svolgeranno una funzione deterrente e contribuiranno a ridurre drasticamente il numero delle persone che ogni anno entrano nel nostro paese con un visto per il pellegrinaggio ma poi decidono di restare, andando a ingrossare le fila dei clandestini. Se, come è prevedibile, i paesi cosiddetti civili avanzeranno obiezioni, il mio suggerimento è di invitare tutti coloro che protesteranno ad aprire le frontiere per accogliere quei disperati, accollandosi tutte le spese necessarie per garantire loro una vita dignitosa. Solo agendo in questo modo non saremo più costretti a destinare una parte ingentissima delle nostre risorse finanziarie al mantenimento di quegli irregolari, da qui all’eternità. Sono fermamente convinta che l’odioso fenomeno dell’immigrazione clandestina subirebbe una drastica riduzione, se noi mettessimo in atto la politica dell’isolamento, avendo cura di pubblicizzare l’esistenza di questi campi nel deserto con reportage e servizi fotografici. Solo così si infrangerebbero i sogni di quanti sperano di trovare nel nostro paese un riscatto alla loro miseria.»

Nasser sorrise pensando al grado di crudeltà che poteva raggiungere l’immaginazione femminile. Gli sarebbe piaciuto girare un film e intitolarlo Stati transistor. Avrebbe raccontato di un mondo governato dalle donne: una avrebbe avuto il controllo del mercato dei coltelli, e avrebbe stabilito per legge che chiunque avesse voluto acquistarne uno avrebbe dovuto munirsi di autorizzazioni speciali rilasciate dalle autorità competenti; un’altra, invece, avrebbe popolato i deserti!

Aspettando il verde, Nasser improvvisamente vide scorrere un’immagine nella testa: era la foto in bianco e nero di Mushabbab, che aveva visto appesa a una parete nel suo diwàn, nel suo famoso giardino. Il viso nero era identico a quello del mistico Shinqìti... insomma, a quello dell’uomo che gli era apparso nel vicolo, e che aveva pronunciato quella strana frase.

Scattò il verde. Nasser fece un’inversione. Doveva controllare la foto! Parcheggiò la macchina all’inizio del Vicolo delle Teste e corse verso il giardino di Mushabbab, spaventando tutti i gatti e cani che incontrò sul suo cammino. Spalancò il cancello e si diresse verso il diwàn. Sulla parete c’era un segno, un rettangolo in cui la pittura gialla era più scura: ciò voleva dire che lì un tempo era appesa la foto, che poi era stata tolta.

Nasser si sentì raggirato. Tornò di corsa nel Vicolo di Mansùr, ma anche il soggiorno sulla strada era scomparso. Tutti i campanelli d’allarme si misero a suonare contemporaneamente nella sua testa: qualcuno si stava prendendo gioco di lui. L’uomo che gli aveva stretto la mano in quel vicolo era Mushabbab! Come aveva potuto essere tanto stupido? Perché, a suo tempo, non aveva sequestrato la foto?

Di pessimo umore, andò in ufficio a cercare il fascicolo di un caso di cui si era occupato e in cui era stato coinvolto il mistico Shinqìti. Alcuni testimoni avevano fornito la descrizione di un uomo di carnagione nera, che era riuscito a sfuggire ai poliziotti che lo avevano colto in flagrante mentre spacciava hashish alla figlia di una eminente personalità, lo sheikh Khàlid Sabkhani. Nel rapporto si diceva che l’uomo, il quale aveva detto di chiamarsi Shinqìti, era sicuramente dotato di poteri soprannaturali, perché, proprio mentre i poliziotti lo stavano arrestando, si era reso invisibile ai loro occhi ed era scomparso. Nasser pensò che quell’episodio potesse essere collegato con quanto aveva letto in una e-mail di Aisha.

E-mail n. 18

Mio caro *,

mi chiedi se mi sento in colpa, se la nostra relazione provoca in me un conflitto interiore, considerando il tipo di educazione che ho ricevuto. Hai voluto sapere se in un modo o in un altro ero minacciata, o se tu lo eri (dal vicolo!), e io ti ho assicurato che nient’altro ti minaccia, a parte me. Il modo in cui sono fatta, intendo!

Quanto ho riso dentro di me della tua ingenuità! Se tu sapessi con cosa vengono impastati i corpi delle ragazze di Aburrùs, il Vicolo delle Teste! Con le bugie! Sono costrette a vivere di bugie per aprire brecce nei muri e muri di imposizioni e divieti: non uscire, non agire, non esistere... Tutto questo, per prendere la vita un po’ più alla leggera!

Aisha

P.S. 1

“Ripudiata”. Questa parola è come uno yo-yo nelle mani dei nostri uomini, che ci tengono appese a un filo e ci lanciano su e giù, in bilico su un abisso incommensurabile.

«Mi ha lanciata una volta.» «Due volte.» «Tre...»

Questo è l’argomento di cui si discute in continuazione.

«Io sono sospesa a un ripudio...» Il marito ha pronunciato una sola volta la parola “ripudiata”.

«Io sono sospesa a due.» L’ha pronunciata due volte.

«Io sono sospesa a tre!» La formula pronunciata tre volte comporta la fine automatica del matrimonio.

«Io sono a quattro, ma stiamo cercando una fatwà, un parere giuridico, che ne cancelli due e permetta a mio marito di riprendermi con sé. Si è pentito della sua avventatezza.»

«Io sono arrivata a cinque... Non abbiamo più occasioni a nostra disposizione, nessuno sheikh, neanche il più comprensivo, potrebbe autorizzarci a tornare insieme! Stiamo cercando un muhallil, che mi sposi e poi mi ripudi, senza però toccarmi: solo così posso riportare il mio contatore a zero.»

«E tu, Aisha, a quanto sei ferma?»

Io sono esclusa da questa scala musicale dei ripudi.

Aisha

P.S. 2

Questa è la versione dei fatti fornita da Mushabbab ad Azza.

Mushabbab si avvicinò all’ingresso del palazzo cinto da un muro alto almeno otto metri. Dalla portineria, adiacente al cancello, il custode lo squadrò. La giovane signora l’aveva informato dell’arrivo dell’uomo, e gli aveva dato ordine di prendere in consegna il pacco. Vedendo scritto sul pacco il nome della giovane signora, Haya, il custode lo prese automaticamente, senza fare domande.

Mushabbab capì subito, dal suo sguardo elusivo, di essere caduto in trappola, prima ancora che il cancello si aprisse e i poliziotti lo circondassero. Fu spinto brutalmente verso l’auto della polizia, che era spuntata da dietro il cancello. Come in un film al rallentatore, osservò il pacco passare di mano in mano, senza che a nessuno venisse in mente di aprirlo e controllarne il contenuto. Lo presero a calci finché non perse conoscenza, e al suo risveglio si ritrovò sulla superstrada La Mecca - Gedda. Si rimise faticosamente in piedi e corse a rifugiarsi nel suo giardino, nel Vicolo delle Teste, dove rimase nascosto per più di un mese. I poliziotti non si curarono di andare a cercarlo, probabilmente perché pensavano che tre costole rotte fossero una lezione sufficiente a fargli dimenticare tutto quello che era accaduto nel palazzo.

«Ma perché? Cosa ti ha spinto a imbarcarti in una simile avventura?» chiese Azza furibonda, sistemandogli le bende sulle costole rotte che gli stava curando con dei rimedi tradizionali.

«Haya, la figlia! Se tu avessi visto quella poverina! Avrà al massimo ventiquattro anni e, detto in parole povere, è sepolta viva, in condizioni peggiori di quelle dei prigionieri di Guantanamo. Suo padre è un potente magnate della finanza mondiale, eppure le impedisce di possedere anche solo un cellulare: i domestici hanno questo privilegio, e quella poverina no! È sottoposta a stretta sorveglianza e vede la vita scivolarle via dalle mani senza poter fare niente.»

Azza non ebbe il coraggio di chiedergli se fosse davvero un semplice cellulare quello che aveva cercato di procurare alla ragazza nascondendolo in quel pacco.

«Sembra che tu stia raccontando un film d’azione e non una storia vera. Come hai conosciuto Haya?»

«Il padre era un mio cliente, e in alcune occasioni mi aveva chiesto di organizzargli delle serate con musiche e danze popolari per dei soci d’affari stranieri.»

Azza lo fissò beffarda.

«E hai offerto i tuoi servigi anche a Haya?»

La gelosia di Azza lo divertiva.

«Tutto è cominciato quando il padre mi ha mandato a chiamare e mi ha spiegato che la figlia soffriva di una forte depressione, e che più di una volta aveva tentato il suicidio. Era stata in cura dai migliori psichiatri, ma senza risultato. Lui aveva sentito dire che io curo usando le sante parole del Corano, così ha chiesto il mio aiuto. Ho sempre evitato di avere a che fare con persone potenti, ma davanti alla sua richiesta non potevo sottrarmi. Così, ha fissato un appuntamento perché andassi a vedere la ragazza.»

Dietro quel muro di cinta alto fino al cielo sembrava non ci fosse niente e nessuno, tranne un gabbiotto a destra del cancello, con una finestrella per controllare la strada.

Mushabbab mostrò l’autorizzazione scritta al custode, che scomparve per qualche minuto all’interno. Poi si aprì una porticina, e Mushabbab entrò.

Fu preso in consegna dal segretario, che lo fece salire su un’auto. Superarono, uno dopo l’altro, diversi cancelli disposti attorno all’edificio principale. Infine raggiunsero un gruppo di ville moderne al centro di un giardino di palme il cui verde era così intenso da farlo sembrare finto, di plastica.

Non c’era anima viva, a parte lui e il segretario. Come due corvi, attraversarono il giardino diretti a quella che il segretario chiamò “la villa delle figlie”.

I trecento metri quadri del salone – dove Mushabbab fu fatto accomodare e lasciato solo – comunicavano un senso di desolazione, nonostante l’arredo sfarzoso.

Una cameriera filippina con un’uniforme bianca a righe blu si materializzò all’improvviso.

«Anything to drink, sir?»

«Dell’acqua, grazie.» La sua voce riecheggiò in quel vuoto.

Quando la cameriera gli portò l’acqua – in un bicchiere di finissimo cristallo, su un vassoio decorato con orchidee fresche – la sete gli era passata

I minuti si allungavano diventando un’eternità.

Per quasi un’ora fu lasciato solo lì dentro, di fronte a un tavolino con un’ampia scelta di datteri di eccellente qualità, dolcetti, tavolette di cioccolata svizzera e nocciole glassate.

Poltrone e divani – tutti pezzi rari – erano stati rivestiti di seta pregiata e disposti con gusto raffinato; perfino le pareti erano tappezzate di seta dorata, ma quell’ambiente, refrigerato da un condizionatore, sembrava un quadro senza vita.

Mushabbab si aspettava che da un momento all’altro qualcuno venisse a prenderlo per riaccompagnarlo alla porta, dicendogli che la ragazza si rifiutava di vederlo.

Finalmente, sentì una porta aprirsi: apparve una ragazza scalza, i cui passi erano attutiti dal tappeto persiano a fiori blu e rossi. Mushabbab non alzò gli occhi, tenne lo sguardo basso per rispetto, ma la ragazza continuò ad avanzare verso il divano dove lui era seduto, finché i suoi piedi sottili entrarono nel campo visivo di Mushabbab che notò il blu e il rosso del tappeto riflettersi sulla sua pelle d’alabastro.

«Sei anche tu uno di quegli imbroglioni senza scrupoli che tradiscono il giuramento che hanno fatto?»

Lui non rispose. Lei gli pestò con forza un piede.

«Dicono che sei un mago. Mi hai presa forse per una bambina che crede nella magia? La vita è un giocattolo rotto!»

«Nessuna magia, è solo la forza della tua anima, consolidata dalle parole del Corano. Puoi leggerlo anche da sola, raggiungerai ugualmente la pace interiore.»

Con il suo sesto senso, Mushabbab captò la tensione che c’era nell’aria: avvertiva la presenza di orecchie tese, si sentiva osservato, ma cercò di convincersi che si trattava di una sua paranoia.

«Tra un po’ mi dirai di provare con la Sura della Vacca. Le mie sorelle mi trattano come un cavallo impazzito, buono a niente. Da dieci anni sono imprigionata qui dentro; in tutto questo tempo le uniche strade che ho visto sono quelle dei videogiochi e della televisione. Mia madre ha lasciato mio padre e se n’è andata in Svizzera, nel paese degli orologi, della cioccolata e dei conti bancari segreti. Quella donna usa un telecomando per manovrarci a distanza. E cospira con le mie sorelle per tenermi imbrigliata. Non posso lasciare questa casa. Se un domestico cerca di procurarmi di nascosto un cellulare, mi scoprono e me lo confiscano.»

Mushabbab si sentiva a disagio, prigioniero dell’immaginazione malata di quella ragazza.

«Quando non riescono a tenermi a bada, cercano di addomesticarmi con gli psicofarmaci. Ne ho una valigia piena, tutte le marche che vuoi! Lasciano che arrivi all’assuefazione, e poi me li tolgono, così io, in crisi di astinenza, faccio tutto quello che vogliono. E ora hanno chiamato te, per esasperarmi.»

Mushabbab, dopo essere stato picchiato e scaricato sulla superstrada La Mecca - Gedda, aveva ricevuto nel suo giardino la visita di uno scagnozzo del padre della ragazza che gli aveva intimato: «Non tornare più al palazzo. Non abbiamo più bisogno dei tuoi servigi.»

«Quella conversazione era stata registrata» spiegò Mushabbab ad Azza. «Chi di dovere l’ha ascoltata e ha decretato che non ero adatto! Il mio crimine? Aver dato troppo credito a quella povera ragazza.»

«Non puoi fare niente per aiutarla?»

«Ne dubito, il loro messaggio è stato chiaro. Il padre potrebbe accusarmi di stregoneria e farmi bruciare vivo, se osassi prendere qualche iniziativa. Lo scagnozzo mi ha detto che, anzi, dovrei ringraziarli per avermi lasciato perdere, nonostante abbia trasgredito gli ordini ripresentandomi al loro cancello e cercando di far recapitare di nascosto alla ragazza quello stupido pacco.»

Il Collare Della Colomba
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