Bunduq

L’aereo arrivò fin sotto la parete che oscurava l’orizzonte, e poi virò, preparandosi ad atterrare. Dal finestrino, Nura osservava quelle vette ardite dall’aspetto inquietante, simili alle corna del diavolo, e provava un’inesplicabile paura, come se si fosse trattato del presagio di qualcosa di terribile. L’aereo scese senza problemi su una pista improvvisata in mezzo al deserto. L’orizzonte era chiuso su ogni lato, e Nura si sentì in trappola dietro quella cortina rocciosa. Dalla scaletta dell’aereo si guardò intorno, senza vedere anima viva. Scorse soltanto due cartelli stradali che indicavano la direzione per Khamis Mishait e per Nagràn. Il volo da Madrid era durato sei ore, e per tutto il tempo lo sheikh aveva discusso animatamente con un suo assistente di progetti, di mappe, e dei profitti che prevedevano di ricavare dal contratto che di lì a poco avrebbero firmato. L’avevano ignorata del tutto. Lo sheikh era ancora infuriato con lei e la rabbia era come un fuoco che gli ardeva sotto la pelle e lo divorava, benché sembrasse concentrato solo sull’affare che stava per concludere, che era la ragione per cui erano giunti fin lì. Nura invece, rispettando un impegno preso con se stessa, quando aveva messo piede sull’aereo all’aeroporto di Madrid aveva cancellato dalla mente tutto ciò che aveva vissuto in Spagna. Ogni atterraggio, aveva deciso, sarebbe stato una rinascita, e lei avrebbe ricominciato tutto da capo, facendo piazza pulita dei ricordi. Durante il volo aveva ascoltato distrattamente la conversazione dei due uomini, ma aveva comunque captato che lo sheikh si accingeva a incontrare un personaggio molto in vista, una potenza nel campo dell’edilizia, che lui e il suo assistente chiamavano il Corvo. A un certo momento, mezza addormentata, aveva sentito lo sheikh canzonare quella persona e dire, con una certa invidia: «Quell’uomo è un animale senza scrupoli. Ha la cittadinanza in un numero infinito di paesi, nei quali gode di immunità assoluta ed è praticamente al di sopra della legge. Sarebbe disposto a fare accordi anche con il diavolo, pur di guadagnare!»

«Non a caso lo chiamano il Corvo del Cemento.»

«Dobbiamo giocare bene le nostre carte, con cautela, per convincerlo a entrare in società con noi, perché solo così avremo la garanzia che il nostro progetto entrerà nella fase operativa. Sfrutteremo la sua avidità! Quell’uomo ha una fame insaziabile e cerca di mettere le mani su ogni terreno edificabile per ricavarne il massimo profitto. È un cinico, e non esiterebbe a distruggerci se ciò fosse nel suo interesse! Tra l’altro, è una specie di Shahriyar moderno. Proprio come il principe delle Mille e una notte, continua a contrarre matrimoni lampo seguiti da divorzi lampo, liquidando le fortunate con un appartamento... Vuole avere tutti ai suoi piedi... del resto, per concludere questo accordo siamo arrivati fino alle Corna del Diavolo, questo posto sperduto dove lui si accampa per le sue battute di caccia.»

«Non si preoccupi, mio sheikh, gli abbiamo preparato una bella esca appetitosa a cui abboccherà facilmente» disse l’assistente, facendo l’occhiolino alle due graziose hostess che servivano il pranzo. «Ha un debole per i dolci freschi e pieni di miele!»

Occhi di falco seguirono il corteo di Mercedes che attraversò le vie di quella cittadina senza nome lasciandosi inghiottire da strade fiancheggiate da grigie palazzine tutte uguali, a due piani, con l’intonaco scrostato. Nura chiuse gli occhi davanti a quello squallore che risvegliava in lei fantasmi sepolti. Quasi tutti gli orti che occupavano la piana, dove un tempo si coltivavano frutti deliziosi, erano scomparsi, insieme con le tradizionali casette di argilla, spazzate via e sostituite da mostruosi casermoni in cemento. I pochi orti superstiti, tuttavia, bastavano a dare almeno un’idea di serenità. Erano le dieci di sera e ogni cosa sembrava morta, non si sentiva altro che il canto dei grilli e il buio strisciante, mentre la notte stendeva ovunque un fitto velo di tenebre.

Nura non avrebbe visto lo sheikh per tre giorni, l’assistente l’aveva informata che si sarebbe trattenuto nell’accampamento del Corvo. E infatti davanti alle Mercedes stavano sfrecciando alcune Land Rover, che sgommavano e sollevavano nuvole di polvere oscurando l’orizzonte; su una erano saliti lo sheikh e il figlio del Corvo. Le auto attraversarono a tutta velocità le vie della cittadina, uscendo poi nel deserto, dirette al luogo dove il figlio del Corvo si era accampato per una battuta di caccia notturna con il falcone, circondato da un’ostentazione pacchiana di ricetrasmittenti, cappucci per i falchi, fischietti degli addestratori, fucili e jeep impegnate in manovre spericolate. Una parata che era stata mandata giù dalle donne della cittadina insieme al pane di frumento spalmato di semna e che aveva fatto sognare a occhi aperti i bambini rinchiusi nel grigiore di quelle case.

Nura assaporava il piacere della notte che avrebbe trascorso in pace, da sola. Si era fatta la doccia e si era avvolta in un asciugamano, preparandosi ad andare a letto, quando sentì dei colpi alla porta, ma così leggeri che pensò provenissero da un ricordo lontano. Stava guardando il modesto letto: un albergo a cinque stelle, pulito ma senza il minimo gusto, e con un pungente odore di abbandono. I colpi alla porta si fecero più forti, e il sonno le passò all’istante.

«Chi è?»

Le rispose l’ultima voce che si sarebbe aspettata di sentire. Aprì, e si trovò davanti una delle hostess, con un elegante abito di seta rosso, luccicante di paillette e molto scollato.

«Vestiti! Siamo state invitate a cena nella tenda del Corvo.»

«No, io vado a letto... sono troppo stanca.»

«Mi ha mandata apposta a cercarti. Nessuno può rifiutare un suo invito, la considererebbe un’offesa imperdonabile.»

«Ma non ho vestiti adatti. Ho solo il pigiama e i jeans. Il mio bagaglio è ancora sull’aereo.»

«Non è un problema! Truccati, mettiti un bel rossetto... io torno tra un secondo!»

La donna se ne andò senza darle il tempo di replicare e un attimo dopo tornò con della biancheria intima molto elegante e un caffetano di seta dorata ricamato a mano, che stese sul letto, pronto perché lei lo indossasse. Nura era così sfinita che non riusciva nemmeno a pensare, ma istintivamente sapeva che lo sheikh non l’avrebbe perdonata se avesse rifiutato quell’invito. In un baleno indossò gli indumenti piovuti come per magia dal cielo, e dopo qualche minuto si ritrovò seduta, insieme alle due hostess, in una Mercedes nera, che attraverso la notte del deserto si dirigeva all’accampamento.

I falò illuminavano le tenebre. Avvicinandosi, le tre donne osservavano incantate la magnificenza delle tende ricamate che si stagliavano nel cielo. Furono accolte da una guardia del corpo con la veste bianca e la kufiya rossa, che le guidò tra le tende rischiarate ognuna da un grande falò che disperdeva le ombre.

Si muovevano come dentro un incantesimo. La tenda nella quale entrarono era decorata con eleganti iscrizioni in arabo, in rosso, blu e oro, e con tanti oggetti preziosi appesi ovunque. Sotto i loro piedi si stendeva un mare di tappeti persiani di seta, che davano l’impressione di muoversi su soffici nuvole. Nura si abbandonò alla bellezza di quel paradiso nascosto nel cuore del deserto infinito e si rilassò sentendo il profumo del caffè arabo aromatizzato al cardamomo e allo zenzero. Sarebbe stata una vera stupida a non accettare quell’invito. Si sarebbe persa un’esperienza magnifica! Tutti i padiglioni di quella tenda sfavillavano di luci, grazie a enormi generatori elettrici di cui si avvertiva il rumore in sottofondo.

Le tre donne furono condotte nel padiglione più grande, dove, di fronte all’entrata, era seduto il Corvo nella sua futa bianca, senza copricapo e senza l’abaya nera tradizionale, quella decorata con fili dorati che gli uomini di solito indossano nelle occasioni solenni. Aveva un aspetto tranquillizzante, con quei capelli sottili tinti di nero, non sembrava terribile come tutti lo dipingevano. Le fece accomodare alla sua sinistra, su cuscini di damasco rosso. Alla sua destra, un uomo nero si alzò come una colonna di fumo nella tenda e rivolse un’occhiata bruciante come una lama arroventata a Nura, che rimase paralizzata dalla testa ai piedi come se stesse guardando negli occhi il diavolo in persona. Distolse lo sguardo posandolo sul Corvo, in cerca di protezione. Per quanto enorme fosse, era meno spaventoso di Bunduq. Così si chiamava quel demonio e il nome, che significa “fucile”, gli si adattava alla perfezione: sembrava pronto a sputare fuoco sui presenti. Si muoveva spavaldo e sicuro di sé per il favore di cui godeva presso il suo padrone, che sicuramente lui teneva in pugno, soggiogandolo con quel suo fascino malefico. Dal suo corpo trasudava un potente odore, una miscela intensa di essenze orientali e di sudore disgustoso; era ben tornito, con muscoli d’acciaio, senza nemmeno un filo di grasso, un ripugnante fascio di nervi che vibravano e si agitavano. Nura era certa che se li avesse toccati sarebbe caduta a terra morta, incenerita all’istante. Fece in modo di non incontrare lo sguardo di quel demonio, che si muoveva come fosse il re della festa. Bunduq qua... Bunduq là... Nessun nome quella notte fu ripetuto con più insistenza. Sembrava che tutti trovassero piacere a cantarlo, accompagnandolo alle parole più oscene e ai doppi sensi più volgari, a masticarlo, accarezzarlo, biascicarlo, per ingraziarsi i suoi favori; tutti erano soggiogati dal fascino ambiguo di quell’uomo, capace di esercitare un potere assoluto sul Corvo, cosa che lo poneva un gradino più in alto rispetto a tutti gli altri.

I vassoi posati a terra, con agnelli interi uccisi quel pomeriggio e deposti su letti di riso, furono portati via. La cena era finita. Nura non era riuscita a mandare giù neanche un boccone: avvertiva la tensione crescere in modo allarmante, e non riusciva a pensare ad altro che all’odore di quel demonio, un distillato dei suoi desideri più oscuri e delle sue più spregevoli intenzioni, che le dava la nausea.

Durante il banchetto, solo una piccola anticipazione di ciò che sarebbe successo in seguito, aveva travolto i vassoi come un ciclone, ingurgitando avidamente quantità spaventose di carne senza toccare né riso, né verdure, né frutta; solo carne, calda come la sua lingua, che si passava sulle labbra a ogni boccone, e come l’interno della sua bocca, che spalancava di continuo per esplodere in risate volgari: veniva bruciata in quella fornace e si trasformava in energia per i muscoli d’acciaio di quel demonio.

«Dove lo metti tutto questo cibo? Satana in persona mangia con te!» disse il Corvo scherzando e guardando estasiato la sua creatura. Il suo volto esprimeva un’ammirazione crescente, mentre Bunduq si gonfiava sempre di più, perfettamente a suo agio nella parte di un essere diabolico che rappresentava per tutti un enigma.

Dopo cena, diede il via ai divertimenti. Partì una musica assordante e risuonarono i tamburi. Danzando e dimenandosi come un forsennato, Bunduq cominciò ad avvicinarsi alle tre donne, facendo gesti osceni e disegnando in aria con le mani i loro seni e i loro fianchi.

Poi si alzò anche il Corvo, con la futa avvolta intorno ai fianchi che lasciava completamente scoperti il torace corpulento, i rotoli di grasso e le bruciature sulla pelle, e quello fu il segnale al quale si spalancarono le porte dell’inferno.

Le tre donne furono trascinate a ballare. Nura, costretta a muoversi in mezzo a quei corpi che si dimenavano, guardava disgustata quell’enorme ammasso di grasso e le striature nere sulla pelle simili ai segni degli artigli del demonio! Poi la musica cambiò e il ritmo dei tamburi si fece più incalzante, più febbrile. Nura rabbrividì di raccapriccio al pensiero di poter essere sfiorata da quel corpo. Bunduq danzava come un enorme moscone succhiasangue impazzito, girando intorno all’ammasso di grasso del suo padrone e avvicinandosi sempre di più, di più... accarezzava quella carne flaccida, mentre dal suo corpo muscoloso saliva un acre odore di zolfo.

Era chiaro a tutte che, sotto quel pezzo di stoffa leggera avvolto intorno ai fianchi, il Corvo non indossava niente. E ne ebbero conferma quando, di lì a poco, Bunduq, sempre ballando, strappò via la futa al suo padrone che rimase nudo. Nura chiuse gli occhi: temeva che, se l’avesse guardato, ne sarebbe rimasta pietrificata. Anche le altre, davanti allo spettacolo rivoltante di quella palla di grasso che si contorceva, preferirono girarsi verso i muscoli d’acciaio di Bunduq.

La ritrosia di Nura, però, eccitava Bunduq, che le andò quasi addosso. Quando cercò di toccarle i seni, lei ebbe un sussulto e per ritrarsi inciampò, storcendosi una caviglia. Si sentiva ridicola, e anche sporca.

Ma la scena si spinse oltre, con muscoli d’acciaio che frustava palla di grasso perché tuonasse, e palla di grasso che si dilatava sempre di più e fagocitava i corpi delle tre donne. Fu a quel punto che Nura abbandonò la pista, tornandosene al suo posto. E Bunduq, come una belva, si avventò su di lei, con gli occhi che sprizzavano fiamme.

«Cos’hai?»

Nura era scoppiata in un pianto isterico e non riusciva a frenarsi, incalzata da quegli occhi neri iniettati di sangue che sentiva gocciolare sul proprio viso. Bunduq la afferrò per un polso e la trascinò fuori, la spinse brutalmente in un’altra tenda e la scaraventò a terra.

«Puttana! Vuoi fare la preziosa? Se ti preoccupi per i soldi, sappi che sarai pagata... pagata profumatamente... centomila dollari, per una miserabile come te! O pensi di ottenerne di più con questa messa in scena della verginella?»

Nura tremava come una foglia, non riusciva a respirare ed era diventata cianotica: si lamentava come un animale ferito, e quel lamento disorientò perfino quel demonio, per un momento.

«Voglio andare a casa mia... vi prego, voglio andare a casa mia...»

Il demonio si sentì offeso.

«Chi ti credi di essere? Tu sei una nullità, uno zero assoluto! Quanto pensi che valga una come te tra tanta carne fresca pronta a vendersi al miglior offerente? Il mondo è un ipermercato, dove ogni giorno vengono esposti culi e tette a volontà a prezzi stracciati, così tanti che mi viene il voltastomaco solo a parlarne. E io posso importarne a vagoni. Sei una nullità... una nullità!»

La fulminò con uno sguardo che le diceva che se avesse osato anche solo fiatare lui le avrebbe spezzato il collo. A Nura sembrava di annegare in un mare di tenebre, mentre Bunduq continuava a inveire.

«Sta’ al tuo posto e non dire una parola. Se solo ci provi, ti giuro, quant’è vero Dio!, che ti schiaccio quella testa vuota e ti do in pasto alle iene del deserto!» le urlò, e se ne andò.

Nura respirava a stento, mentre i suoi occhi, improvvisamente asciutti, mettevano a fuoco i versetti del Corano ricamati con fili d’oro sulla tenda. Non riusciva a muoversi, riusciva solo a guardare davanti a sé, dentro il cuore di quelle parole. Si rese conto che si trattava del Versetto del Trono, che ha il potere di fortificare il cuore e di scacciare la paura, e i suoi occhi si aggrapparono all’immensità della parola di Dio. Trattenendo il respiro, il suo corpo si mosse in quel versetto: non lo stava leggendo, vi stava lentamente penetrando, spingendosi sempre più in profondità e avvolgendosi come dentro un bozzolo, e quel dolce versetto diventava sempre più tenue e leggero.

Nel frattempo, nella tenda accanto, la carne fresca delle hostess era stata stesa sul pavimento: su una c’era il corpo flaccido del Corvo, sull’altra il fascio di nervi di Bunduq, da cui si levava un nauseante odore di zolfo.

Più tardi, fu deciso che le tre donne e Bunduq avrebbero raggiunto lo sheikh e il figlio del Corvo, accampati per la loro battuta di caccia con il falcone. Nura stava dormendo profondamente in una tenda insieme alle due hostess, quando fu svegliata da un odore disgustoso. Spalancò gli occhi e rimase paralizzata vedendo Bunduq stagliarsi nel buio come una colonna di fumo con due occhi di fuoco. Lui sollevò il braccio e cominciò a colpirla: forse era un iqàl, il cordone nero che serve a fermare sulla testa il tradizionale copricapo, quello che si abbatteva su di lei bruciandole la carne. I pesanti respiri di Bunduq ammorbavano l’aria dentro la tenda. Lui la percuoteva sempre più forte, e il dolore diventò lancinante, eppure a lei non sfuggì neanche un gemito. Aveva perso la sensibilità e ogni istinto di autodifesa, il dolore che provava era troppo straziante per potersi esprimere in un grido o in un movimento. Come esalando l’ultimo respiro, Nura consegnò il proprio corpo alla sua frusta, mentre le due hostess guardavano terrorizzate quella scena da incubo. Le frustate miravano alla faccia, perché l’intento di Bunduq era quello di umiliarla, ma nella foga di colpire si abbattevano anche sul collo e sul petto. Nura si proteggeva con le mani, disponendosi ad accogliere il dolore. Una parte di lei lo abbracciò come la giusta punizione che avrebbe lavato via un antico peccato, causa del senso di colpa annidato in un recesso della sua coscienza. A un tratto, i colpi si interruppero e si sentì la sinistra risata di Bunduq.

«Allora era la frusta che volevi! Lo sapevo che eri una sgualdrina! L’ho sempre saputo, anche quando recitavi la parte della verginella immacolata...» disse, attendendo invano una sua reazione.

«Di’ una sola parola su ciò che è accaduto, e vengo a prenderti mentre dormi. Non ti rimarrà neanche un osso intatto dopo che ti sarà passata sopra la mia cammella... poi ti farò sparire nel deserto e nessuno ti ritroverà!»

Le sputò addosso e se ne andò.

Quando lo raggiunsero, lo sheikh finse di non vedere i segni delle frustate sul suo viso. Sapeva, ma il silenzio era un prezzo minimo. Non poteva rinunciare a ingraziarsi il Corvo, quella partnership era vitale per il successo del suo progetto.

Il Collare Della Colomba
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