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La maggioranza dei prigionieri era adesso acquartierata nella cittadina, e nel castello stesso, disarmata e divisa in piccoli gruppi, e ogni casa era sorvegliata dai partigiani; Nancy era certa che non si sarebbero ubriacati e che non avrebbero ceduto alla voglia di una sanguinosa vendetta prima dell’arrivo degli Alleati. Ancora nessuna notizia degli uomini della Gestapo, che forse si erano mescolati ai soldati semplici. Lo avrebbe scoperto molto presto. Prima dell’arrivo degli americani, avrebbe guardato ognuno di loro negli occhi. Doveva però essere sicura che la pace reggesse, che il giorno della vittoria non finisse in una carneficina al calar del buio.
Nancy e Fournier tornarono nel salone del castello e, con una bottiglia di cognac sul tavolo, cominciarono a organizzare il da farsi nelle settimane successive. Delegazioni di alcuni paesi e villaggi della zona avevano già chiesto di poter mandare i loro rappresentanti alle cerimonie di ringraziamento per la liberazione. Denden, in un angolo lontano della torre, inviava e riceveva freneticamente messaggi e aggiornamenti trasmessi in alfabeto morse.
«Andremo per prima cosa nei villaggi che hanno subito rappresaglie» disse Nancy. «Poi da tutte le famiglie dei nostri caduti.»
Estrasse un taccuino dalla tasca della giubba.
«Che cos’è?» chiese Fournier. «Pensavo che avessi dato i tuoi appunti al capitano Rake.»
«Questo è il mio libro dei morti» rispose Nancy, passandoglielo, poi riempì di nuovo il bicchiere. «Nomi, indirizzi. L’ho tenuto per me.»
Fournier lo prese come se fosse un oggetto sacro e lo infilò in tasca, poi finì di bere. «Farò un giro in paese. Per controllare che sia tutto in ordine. Buona notte, feldmaresciallo.»
«Buona notte.»
Ma Nancy non andò a dormire. Doveva elaborare un piano per recuperare più armi e esplosivi possibili, svuotare gli arsenali nascosti prima che qualche ragazzino li trovasse, e escogitare un sistema di distribuzione fra i partigiani e i familiari di chi non era sopravvissuto, dei contanti rimasti del gruzzolo mandato da Londra. Poi si sarebbe dedicata alla sua indagine personale.
Sentendo un passo frettoloso in corridoio, alzò la testa. Jules.
«Nancy, abbiamo trovato il colonnello che comandava la colonna. Tardivat lo ha rinchiuso nella dispensa.»
«Molto bene, Jules. C’è altro?»
«Il colonnello era insieme a uno della Gestapo. Denis... mi ha detto che... se avessi sentito di qualcuno della Gestapo avrei dovuto riferirtelo, a te soltanto. È nella stalla.»
Lei balzò in piedi e lasciò la stanza ancora prima che lui avesse finito di parlare, la mano già sul calcio della pistola.
Sei maquisard stavano discutendo con due guardie, e al suo arrivo si scostarono per lasciarla passare.
«Ragazzi» disse Nancy in tono leggero, «andate a dormire un po’. E curatevi le ferite. Tenetele pulite. Sarebbe una beffa morire adesso di setticemia, non credete? A lui ci penso io.»
Funzionò. Il gruppetto si avviò e le guardie le lanciarono occhiate riconoscenti. Lei fece luce con una delle lanterne appese in cortile. Chissà se quell’uomo sapeva che ne era stato di Henri. Temeva che a uno sguardo vacuo avrebbe risposto con un proiettile. Possibile che gli ufficiali tedeschi ricordassero quanti uomini avevano ucciso? Aprì la porta e la richiuse prima di alzare la lampada. La stalla odorava di fieno fresco e cuoio. L’ufficiale della Gestapo era stato appoggiato a una posta, aveva le caviglie e i polsi legati e la testa infilata in un sacco del foraggio. Nancy si ricordò che cosa si provava. Appese la lanterna a un gancio vicino.
Quando gli tolse il sacco e vide Böhm che la guardava battendo le palpebre, lo shock fu brutale. Un altro fulmine a ciel sereno mandato da Dio. Lui lo sapeva. Stava per strappargli la risposta che voleva e all’improvviso, per la prima volta in tutta la sua vita, ebbe paura. Fu come se il pavimento fosse scomparso sotto di lei, portandosi via la forza per restare in piedi.
Aveva tirato fuori l’arma e l’aveva premuta sulla tempia di Böhm prima ancora che la mente consapevole riconoscesse il gesto.
«È vivo?» gli chiese. Immaginò il proiettile che passava al rallentatore lungo la canna e gli fracassava il cranio, immergendosi nella materia molle del cervello, il lungo zampillo di sangue e ossa che volava da una parte all’altra sulla paglia.
Lui la guardò. Poi, vedendo che stava aspettando una risposta, allungò i polsi legati nella tasca laterale della giacca.
«Glielo dirò, ma prima faccia questa cosa per me.» Con le dita afferrò il bordo di una lettera e riuscì a sfilarla. «La consegni a mia figlia. Mi dia la sua parola d’onore.»
«Va bene.»
Lui alzò le mani legate e lei prese la busta, la infilò nella tasca dei pantaloni senza spostare il revolver.
«Adesso parla, Henri è vivo?»
«La risposta è nella sua tasca. È una lettera d’addio alla mia bambina. Perché so che sta per uccidermi, proprio come ho fatto io con suo marito molte settimane fa. È stato ucciso poco dopo la visita del padre e della sorella. La vita ha una simmetria crudele.»
L’immagine del cervello di Böhm che schizzava su tutta la paglia era così chiara che Nancy si stupì di non aver ancora premuto il grilletto.
Böhm la fissava, e per la prima volta da quando lo conosceva sembrava... confuso.
«Spari, Madame Fiocca. Ho ucciso suo marito. Ho ordinato che lo torturassero. L’ho tormentato per settimane facendolo soffrire terribilmente. Poi ho torturato lei dandole l’illusione che avrebbe potuto salvarlo. Sono consapevole di quello che le ho fatto. L’ho visto. Ha già tentato di uccidermi una volta, perché adesso esita?»
Nancy colse la disperazione nella voce di Böhm. Rimise il revolver nella fondina sul fianco.
«No, ti voglio mandare a processo. Mi piacerebbe molto ucciderti, credimi, ma sarebbe egoista da parte mia. Ci sono tante altre vedove e madri, tanti padri e mariti, che vogliono risposte da te. Ti consegnerò agli americani.»
Lui congiunse le mani, e Nancy vide che tremavano. Prese la lanterna e lo lasciò da solo nell’oscurità.