18

 

Il primo giorno di addestramento fu il peggiore, perché essendo stata felicissima di arrivare, Nancy trovò cocente la delusione dell’accoglienza. E già i giorni dopo l’incontro al SOE erano stati una tortura, perché aveva dovuto aspettare a casa che arrivasse la posta o suonasse il telefono.

Finalmente i documenti erano arrivati. Preparò una valigia secondo le istruzioni, compilò il documento di viaggio e dopo aver mandato un biglietto all’avvocato Campbell con il suo nuovo recapito e l’incarico di continuare a pagare l’affitto dell’appartamento, partì per la Scozia.

Alla stazione l’aspettava l’istruttore, che durante il viaggio nel lungo tramonto di quella fine estate scozzese le sembrò una brava persona. Il nucleo centrale del campo-base era il casino di caccia della grande proprietà di un aristocratico, e sorgeva sulla riva di un lago circondato da alte vette che nella foschia brillavano azzurre, e il tramonto – pennellate di rosa e rossi distribuite a casaccio nel cielo – era di una bellezza mozzafiato. L’istruttore le comunicò che era l’unica donna del gruppo, e la guardò di sottecchi. Nancy rispose con una scrollata di spalle; era abituata alla condizione di unica donna in un gruppo tutto maschile fin da quando aveva cominciato a lavorare come corrispondente a Parigi. Capiva gli uomini. Quando le mostrarono la camerata che avrebbe occupato da sola provò a protestare, inutilmente. Non c’era nessuna possibilità che la facessero dormire con i ragazzi.

Eppure fu con animo lieto che l’indomani mattina, alle sei in punto, si presentò con la tenuta e il kit per la prima delle esercitazioni di allenamento fisico. Poi lo vide. Il rosso. E lui vide lei. Un paio di colleghi si avvicinarono per stringerle la mano cordialmente, ma prima che il sergente che li avrebbe guidati li raggiungesse, il rosso aveva radunato intorno a sé un gruppetto di uomini che dopo pochi istanti si misero a lanciarle occhiate e a ridacchiare.

Il rosso si strofinava gli occhi fingendo di piangere. «Ooooh! Ho perso la mia borsetta» frignò con voce stridula. «Me la vai a prendere, per favore?» Poi finse di singhiozzare e tutti risero.

Nancy sarebbe andata immediatamente a levargli dalla faccia quell’espressione idiota, raccontando che lagna era stato lui durante la traversata dei Pirenei, ma mentre stringeva i pugni arrivò il sergente. Doveva farlo lo stesso? No, l’avrebbero buttata fuori prima ancora di iniziare. Sarebbe stata costretta a tornare da Buckmaster a implorare un posto di segreteria che l’avrebbe uccisa. Porta pazienza, Nancy, si disse.

«Signor Marshall, è pronto?» chiese il sergente, e il rosso sorrise e si mise prima sull’attenti e poi a riposo. Ecco come si chiamava, quel cretino.

 

 

Nancy si aspettava che la corsa sarebbe stata un’impresa ardua, però non immaginava fino a che punto. Pensava che i chilometri a piedi o in bicicletta nei dintorni di Marsiglia per prendere e consegnare messaggi o componenti radio l’avessero preparata, ma i suoi attuali compagni venivano dall’esercito, ed erano abituati da anni a quel tipo di esercitazione. Riuscì a cavarsela finendo quasi sempre nel gruppo che arrivava al terzo posto, mai ultima ma abbastanza vicina agli ultimi da sentire le battute di scherno del sergente, un uomo più basso di lei di una spanna però fatto per correre in salita con assoluta nonchalance. Come faceva ad avere tutto quel fiato nei polmoni?

Dopo una ventina di minuti, o forse due o tre ore – quando smise di respirare Nancy perse il senso del tempo – si accorse che Marshall, tra i primi del gruppo, rallentò e si lasciò superare. Di lì a poco arrivò accanto a lei. Le fece un sorrisetto e per uno stupido istante Nancy pensò che volesse scusarsi.

«E così ti chiami Nancy? Come te la cavi?»

«Benissimo.» Parlare le costava uno sforzo enorme.

«Non dev’essere facile...» Il bastardo non aveva neppure il fiato corto. «Con quei due meloni che ti ballonzolano davanti.»

Marshall cercò di farsi sentire dagli altri, attirando occhiate e sorrisetti. Correva tenendo le mani sotto due seni immaginari e ostentava una smorfia di dolore.

«Vaffanculo» gli disse Nancy. Non originale, ma perlomeno sintetico.

Lui le fece lo sgambetto mandandola lunga distesa nel fango. La caduta improvvisa le tolse quel poco fiato che aveva. Quando rialzò la testa infangata vide che Marshall accelerava, riguadagnando la posizione iniziale. I compagni nelle retrovie la superarono.

«In piedi, Wake!»

Il sergente la scrutava dall’alto senza smettere di correre sul posto.

«Io...»

«In piedi!»

Nancy si mise prima in ginocchio, poi si rialzò. La maglietta infangata le si era incollata al busto. Anche i capelli si erano incollati alla faccia, e aveva un taglio sanguinante su una guancia.

Il sergente la guardò con disapprovazione. «Sopravvivrai. Adesso corri.»

E così lei fece. Arrivando ultima, ovviamente. Recuperare i minuti persi era stato impossibile; dovendo poi passare a fare la doccia, arrivò in ritardo alla prima lezione di teoria. Si scusò e andò a sedersi. Marshall e la sua nuova banda di deficienti fecero tutti il gesto di asciugarsi gli occhi.

 

 

Questo episodio stabilì lo schema comportamentale del gruppo. Durante i percorsi militari c’era sempre qualcuno che per sbaglio la faceva cadere dalla barra per i test di equilibrio, o che le schiacciava una mano sotto il piede mentre strisciavano lungo un ponte di corde. Le risatine diventarono il rumore di fondo che la seguiva dalla sala mensa alle esercitazioni sul campo, alle lezioni in classe. Nancy stringeva i denti e sopportava.

Dopo la terza corsa nella quale riuscì ad arrivare in fondo senza coprirsi di fango, il sergente la chiamò in disparte e le diede un rotolo di bende e un paio di spille da balia che aveva tirato fuori da una tasca.

«Wake, l’anno scorso abbiamo avuto una ragazza abbastanza formosa. Prima delle corse si bendava. Diceva che funzionava meglio del reggiseno.»

Nel pronunciare la parola reggiseno era arrossito fino ai capelli, comunque il suggerimento risultò utile. Bendarsi funzionava.

 

 

Avevano portato via i mobili dalla stanza e le macchie chiare sui muri raccontavano dei quadri che le addobbavano nei giorni ormai inimmaginabili prima della guerra. A Henri sarebbe piaciuta, meglio se con qualche poltrona di pelle e le librerie piene di volumi. In quel momento c’era solo il solito tavolo pieghevole di metallo, con sedie intonate, e un paio di schedari grigi. Dietro il tavolo c’era un tizio che reggeva un foglio e la fissava. Occhi azzurro chiaro e calvizie incipiente. Il dottor Timmons.

«Che cosa vede?»

«Una macchia e lei che mi fissa» rispose Nancy infilandosi le mani in tasca e allungando le gambe in avanti. Non era una posizione comodissima, ma non aveva alcuna intenzione di starsene composta come una scolaretta davanti allo psicologo dell’esercito. Lo chiamavano lo psicopatico. Anche il sergente.

Staccò una mano dal foglio e scrisse qualcosa.

«Adesso sta sprecando l’inchiostro.»

Nancy si girò a guardare dalla finestra e vide che un gruppo di uomini in tenuta da lavoro era condotto verso l’uscita del campo. Avrebbe preferito andare in montagna con loro sotto la pioggia a quel tormento.

«Le sto facendo un test, Nancy» disse lo psicologo. «La salute mentale non è meno importante di quella fisica. Forse è addirittura più importante, per il lavoro che dovrà svolgere. Che cosa vede?»

«Un drago.»

Lui le sorrise con distacco e appoggiò il foglio sul tavolo. «È la terza del suo gruppo a darmi la stessa risposta. Non ha un po’ di immaginazione per inventarsi qualcosa di diverso?»

Nancy scrollò le spalle e incrociò le caviglie.

«D’accordo. Allora torniamo ai vecchi metodi. Mi parli dell’Australia. Della sua infanzia.»

Gli istruttori avevano così tanto insistito affiché tutti conoscessero a menadito la storia della propria copertura che aveva completamente dimenticato di preparare una versione plausibile per questo tizio. Le sembrò di essere di nuovo nella cucina di sua madre. I fratelli se ne erano già andati di casa, ed erano rimaste da sole. Non si parlavano. Non ricordava di aver mai avuto una conversazione con sua madre. Si limitava a sorbirne le prediche su quanto fosse una figlia brutta e stupida, l’incarnazione del peccato.

«Ho avuto un’infanzia felice.»

«Amicizie?» chiese Timmons prendendo nota delle sue risposte.

«A volontà» disse Nancy. Le parve di sentire ancora il sole caldo sulla testa mentre tornava a casa, rallentando il passo sempre di più man mano che si avvicinava alla catapecchia. La madre l’aspettava. Non con affetto e calore, ma con l’ennesimo monologo fatto di accuse e lagnanze infarcite di citazioni bibliche. Nancy era colpevole di tutto, un castigo divino. La signora Wake non capiva cos’aveva fatto di tanto grave da meritare una figlia così brutta, abnorme e disobbediente.

«E cosa mi può dire dei suoi genitori?» Timmons teneva la testa inclinata come il pappagallo nel negozio di animali lungo la strada per la scuola. Nancy aveva sempre avuto l’impressione che anche l’uccello la guardasse male.

«Straordinariamente felici» disse Nancy nella sua migliore interpretazione di un accento britannico altoborghese.

Timmons sospirò. «Come mai allora suo padre ha abbandonato moglie e sei figli? Quanti anni aveva lei all’epoca? Cinque? Lo ha più rivisto, da allora?»

«Lo ha costretto lei ad andarsene» rispose seccamente Nancy. «Gli altri erano già fuori casa e lei era una prepotente bigotta che lo aveva esasperato.»

«Quindi la colpa è stata di sua madre?»

Che cosa c’entrava? Tutte quelle esercitazioni di tiro per imparare a sparare senza pensarci stavano funzionando. Avrebbe pagato per sparare a quel bastardo che aveva di fronte; le prudevano le mani dalla voglia.

«Certo che è stata colpa sua. Papà era un signore. Era divertente, buono e mi adorava.»

Tutto vero. Aveva sentito il suo affetto ed era stato quel ricordo a non farla impazzire fino all’incontro con Henri.

Timmons scriveva tutto. «L’adorava, ma non abbastanza per portarla con sé.» L’affermazione fu come un pugno nello stomaco. «È rimasto fino a quando gli altri figli se ne sono andati, per lei invece non ha potuto aspettare, dico bene?»

Pugno nello stomaco. Pugno in faccia. Il bastardo con i capelli biondo rossiccio che si stavano diradando. Lei non rispose e lui continuò.

«È riuscita a fuggire di casa a sedici anni, convincendo il medico di famiglia che ne aveva diciotto, per ottenere il passaporto e lasciare il Paese. Una ragazzina indipendente, già abile a manipolare gli uomini.»

Dove diavolo avevano scovato le informazioni? E se anche fosse andata così? In fondo se l’era cavata bene, aveva imparato un mestiere e si era divertita, e poi si era innamorata di Henri, il coronamento della sua vita.

«Solo una pazza sarebbe rimasta in quella casa a farsi maltrattare.»

Lui intrecciò le mani dietro la testa e distese la schiena. Così la gola e il petto erano totalmente scoperti. Grazie all’addestramento Nancy avrebbe potuto ammazzarlo in un attimo e quel sospiro triste e annoiato sarebbe stato il suo ultimo respiro.

«Eppure eccola qui, Nancy.»

«Come?»

«Metà dei suoi compagni la detesta e la maltratta di continuo. Eppure resiste.»

Nancy piegò le gambe sotto la sedia e si allungò verso di lui.

«Perché voglio vedere la sconfitta dei nazisti. È semplice. Li ho visti in Austria. In Francia. Non c’è niente di peggio di quelle merde. Dobbiamo cancellarli dalla faccia della terra, io devo cancellarli.» Picchiettò un dito sul taccuino dove lui prendeva appunti. «Adesso cancelli ’di quelle merde’ e aggiunga qualcosa di roboante e patriottico, lo scriva e facciamola finita. È soddisfatto?»

Lui non abbassò lo sguardo e Nancy si ritrasse.

«Lei deve cancellare i nazisti dalla faccia della terra, Nancy? D’accordo, sono sicuro che poi le saremo tutti molto grati. Ma lei fa parte di un gruppo, di un esercito, di un Paese.»

Timmons sospirò di nuovo. Maledizione. Quant’erano irritanti tutti quei sospiri.

«Potrebbe essere un’ottima agente, Nancy. La sezione D ha bisogno di persone capaci di pensare con la propria testa, però deve capire che è parte di un insieme più grande di lei. Magari la stupirà sapere che questa non è la sua guerra personale.»

Oh, basta così.

«Lei pensa che io voglia lottare contro i tedeschi perché mio padre mi ha abbandonata e mia madre pensava che fossi un orribile rospo che le rovinava la vita?»

Lui gettò un’occhiata alla macchia di inchiostro. «In effetti potrebbe far pensare a un rospo, non è vero? Interessante.» Scribacchiò ancora qualcosa. «Nancy, mi ascolti. In qualche modo lei pensa sia giusto soffrire: qui, e anche in Francia, come molto probabilmente succederà. Magari non ne è consapevole, però in fondo ne è convinta. È convinta di meritarsi le sofferenze. Perché in fondo è convinta di essere il mostro che credeva sua madre.»

Nancy strinse i pugni in tasca. Sentì che stava contraendo la mascella. «Davvero la pagano per dire queste cose?»

Quand’era piccola e la situazione diventava insopportabile, andava a nascondersi nel vespaio sotto casa, dove leggeva Anna dai capelli rossi alla luce che filtrava dalle tavole di legno del portico fino a quando il dolore e la rabbia si dissipavano. Era rimasto il suo libro preferito. L’unico romanzo che le fosse mai piaciuto davvero. Lo lasciava sotto la casa, nascosto insieme alla rabbia e all’autocommiserazione. Era certa che un giorno tutti quei sentimenti negativi che lasciava lì sotto a fermentare avrebbero provocato una scintilla e bum! Tutto sarebbe saltato per aria. Poi, quando aveva compiuto sedici anni, una zia le aveva mandato senza preavviso un assegno. Nancy aveva deciso che non poteva più aspettare che la casa esplodesse, e si era lasciata alle spalle tutte le sofferenze. Così ora prese le parole del dottor Timmons, le infilò dentro un sacchetto di carta marrone, lo chiuse e lo nascose sotto il vecchio vespaio della casa di legno australiana.

Si inumidì le labbra e poi in tono pacato e fermo disse: «Ha mai pensato di alzarsi da quella sedia e andare a combattere anche lei, dottor Timmons?»

Lui inarcò un sopracciglio. «Vuole proprio fare così, Nancy? Davvero? Bene.» Scrisse ancora qualcosa, e sospirò per l’ennesima volta.

«Nancy, mi faccia un favore. Cerchi di evitare che le sue stronzate egocentriche facciano ammazzare molta gente, okay? Può andare.»

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