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Un uomo di mezza età in tuta da lavoro pedalava lento lungo una strada secondaria che usciva da Saint-Georges, la ruota anteriore che cigolava a ogni curva, quando dalla ripida alzaia sopra di lui sentì arrivare un leggero fischio. Scese dalla bici, accese la pipa e aspettò. Mentre tutto soddisfatto mandava nell’aria una bella nuvola di fumo, Nancy e Tardivat spuntarono dalla linea degli alberi e lo salutarono.

L’uomo non perse tempo a parlare, limitandosi a consegnare nelle loro mani un foglio, poi girò la bicicletta e ripartì. Se si fosse trattenuto un attimo, per la gioia Nancy gli avrebbe dato un bacio. Era un macchinista ferroviario che aveva trascorso trent’anni della sua vita ad amare ogni locomotiva, ogni carrozza e ogni rotaia di quella linea, e ora stava facendo il possibile per aiutare la Resistenza a distruggerle. Però non gli si doveva chiedere di diventare loquace. Nancy era sicura di potersi fidare di lui, ma avevano combinato l’appuntamento il giorno in cui erano stati trasmessi i primi versi della poesia di Verlaine, e fino a quando non aveva sentito il cigolio della sua bici, non aveva avuto la conferma che il giorno prima lui avesse ascoltato Ici Londres trasmettere i versi conclusivi.

«Quanto tempo abbiamo?» chiese Tardi mentre lei studiava il foglio.

«Quaranta minuti.»

 

 

Si riunirono al resto della squadra rimasta al riparo degli alberi, e tutti insieme guadarono il Ruisseau de Mongon, un impetuoso piccolo tributario del Truyère, nascondendosi tra i faggi e i pini. Nancy era grata per ogni momento trascorso su quei sentieri, e per ogni ora di addestramento affrontata in Scozia. La salita era ripida, e si issarono con fatica aggrappandosi ai tronchi più sottili, fino a raggiungere lo stretto promontorio da cui potevano vedere la strada e il viadotto.

Nancy tirò fuori il portacipria e Tardivat inarcò un sopracciglio. «Ti assicuro, mon colonel, che sei bellissima.»

«Svegliati, Tardi» gli disse lei, e poi gli mostrò scherzosamente la lingua. Controllò il sole e posizionò lo specchietto in modo che mandasse tre rapidi bagliori luminosi. Dal fiume gliene arrivò uno in risposta. Ripeté il segnale, due volte.

«Lo faranno saltare tra venti minuti?» chiese Tardi guardando l’orologio.

«Esatto. Ci muoviamo? È tutto chiaro?»

Jean-Clair alzò gli occhi al cielo. «Mon colonel, posso disegnare questo ponte anche nel sonno e ogni volta che deglutisco sento il sapore del ferro.» Diede una pacca allo zaino. «Lo facciamo saltare, finalmente?»

Nancy sentì che le stava sfuggendo un sorriso, e che le formicolavano le dita. Questo sì che è vivere, pensò. Per questo valeva la pena.

«Confermo.»

Tardi, Mateo e Juan partirono, Nancy, Franc e Jean-Clair li seguirono a distanza di otto minuti, tenendosi in alto dove gli alberi li nascondevano alla vista, senza mai perdere d’occhio il sentiero pattugliato dai tedeschi che serpeggiava lungo l’alzaia, a metà strada fra loro e il fiume. Più vicina di così senza essere vista Nancy non poteva arrivare; lasciata la copertura del bosco rimanevano da attraversare un centinaio di metri lungo il ripido pendio che li avrebbe condotti ai basamenti del ponte.

«Pronti?»

I due uomini annuirono senza guardarla, concentrati sui piloni del viadotto. Mateo chiudeva le mani a pugno e le riapriva.

Nancy guardò l’ora. «Via!»

Un rombo soffocato arrivò dal ponte stradale, quindi una seconda detonazione e Nancy vide un grande pennacchio di pietre e fumo salire e ricadere a fontana in mezzo al fiume. Franc e Jean-Clair scattarono; lei non poté resistere alla tentazione di voltarsi per vedere gli uomini di pattuglia all’estremità occidentale del sentiero reagire al rumore piroettando su sé stessi e prendersi una scarica di mitraglia arrivata dagli alberi. Caddero a terra.

Allora si mise a correre.

Jean-Clair era già sul pilone di cemento, a circa sei metri sopra di loro, e dopo aver assicurato la fune gliela lanciò. Sua madre aveva avuto ragione a vantarne l’abilità di arrampicatore, e a esserne fiera, perché in effetti si stava muovendo con l’agilità di uno scoiattolo su un albero. Franc, le aveva raccontato sua sorella, aveva l’abitudine di scappare dalla finestra della sua camera e passare dai tetti per andare a Montluçon a trovare le fidanzate. E da quando Gaspard si era unito a loro Franc era sempre stato estremamente rispettoso con lei, forse nel tentativo di farsi perdonare il piano per ucciderla. Adesso i due francesi sapevano usare bene gli esplosivi e li maneggiavano con prudenza e sicurezza. Per questo erano entrati a far parte della sua squadra.

Nancy si arrampicò e Franc la seguì. Jean-Clair riavvolse la fune e la infilò nello zaino mentre lei guardava di nuovo l’ora.

«Quindici minuti.»

Dalla direzione del ponte stradale più a monte arrivava il rumore degli spari. Rodrigo e i suoi avevano l’ordine di tenere i tedeschi il più occupati possibile.

Nancy, Franc e Jean-Clair imboccarono la scaletta di ferro. Meglio non guardare né su né giù. Il fitto reticolo della struttura del viadotto rendeva caleidoscopico il paesaggio: rombi e trapezi di cielo e fiume, di argini e boschi. Peccato che non ci fosse un piccolo corrimano! Dal più grande ingegnere francese ci si poteva aspettare che prevedesse almeno una ringhiera, invece sfortunatamente per loro non ci aveva pensato.

I tedeschi sulle rotaie e nelle torrette di guardia di lì a poco avrebbero smesso di guardare ciò che restava dell’altro ponte. Nancy pensava al ritmo dei suoi passi veloci. Il lato sud in alto, sperava, da questa angolazione era cieco. In basso neutralizzato, sperava. Nord in alto cieco tra poco, nord sotto né cieco né neutralizzato. Si augurava che i tedeschi rimanessero distratti. Se fossero riusciti ad arrivare sulla sommità dell’arco prima che un soldato alzasse gli occhi c’era la possibilità che non venissero visti. Era una bella sensazione, i muscoli che bruciavano, l’eccitazione di fare ciò per cui era stata addestrata. Persino il peso del plastico nello zaino sembrava piacevole.

Quasi arrivati. Guardò l’ora, e in quel preciso istante sentì arrivare da sopra la sua testa la campanella d’allarme. Dieci minuti al passaggio del treno. Merda. Accelerarono sugli ultimi gradini; Nancy sentiva un dolore alle gambe per lo sforzo e il respiro ansimante di Jean-Clair dietro di lei.

Eccoci. Guardò in su in cerca dei giunti dove collocare le cariche per costruire una catena di tre panetti trasversali rispetto ai binari, due chili di esplosivo per panetto per aprire come una lama di fuoco la sommità dell’arco.

Okay. Proprio qui.

Si separarono: Nancy sulla passerella, gli altri due, agili come scimmie, che si avvicinavano ai giunti. Movimenti fluidi e precisi, nel silenzio più totale. Tutti avevano sentito la campanella e sapevano bene che cosa indicava.

Nancy passò il filo del detonatore in mezzo al panetto. Jean-Clair sembrava camminare per aria, in equilibrio su una delle sbarre trasversali; le sue cariche erano già state piazzate. Prese al volo il filo che lei gli tirava, lo sistemò e lo lanciò a Franc, che dopo averlo infilato nelle sue si voltò verso di loro e sorrise.

«Sei minuti» disse lei.

Adesso l’innesco a pressione. Franc volteggiò sulla fiancata, superò Jean-Clair e lo prese dalle mani di Nancy, poi si issò fin proprio sotto i binari.

«Jean-Clair» disse, «vieni.»

«Voglio solo assicurarmi che sia piazzato bene, mon colonel

Franc salì, spingendo l’innesco in posizione dove il peso del treno avrebbe scatenato i fuochi d’artificio. In sei minuti ce l’avrebbero fatta benissimo. Erano persino troppi...

I proiettili che rimbalzavano contro la struttura di ferro sprigionarono scintille che volarono sul viso di Nancy, accecandola per un istante. Cadde di fianco. Franc urlò cadendo sui binari e rotolò. Lei lo afferrò per la cintura trattenendolo. L’innesco rimbalzò contro il metallo e roteò nell’aria. Franc tese la mano ma lo sfiorò appena mentre con un movimento a spirale precipitava e scompariva nel fiume. Non sentirono nemmeno il rumore, da quell’altezza.

«Mon colonel...» disse Jean-Clair, e nella sua voce c’era qualcosa che non andava.

Lei si girò a guardarlo mentre un’altra raffica di colpi risuonava intorno. Jean-Clair si teneva aggrappato con un braccio a un montante, riparandosi dentro la V formata da un traversino. Aveva la camicia inzuppata di sangue e Nancy vide che sanguinava anche da una ferita alla coscia.

Lasciò la passerella per arrivare a quattro zampe da lui lungo una barra larga poco più di trenta centimetri, senza mai staccare gli occhi dal suo viso.

«Ti portiamo giù, Jean-Clair.»

«L’innesco?» disse lui con grande sforzo.

«È andato, dimentichiamocelo. I nazisti si terranno il ponte. Dammi la mano.»

Lui fece di no con la testa. La guardò negli occhi. «Lasciami una granata.»

Nancy capì cosa voleva fare. Una granata non avrebbe nemmeno scalfito il ponte, ma se la si faceva esplodere lì, in quel punto preciso, avrebbe fatto da miccia detonante.

«No.»

«Mon colonel» disse lui, «Ti prego.»

Jean-Clair non era in grado di dire altro. Nancy sfilò una granata dalla cintura e gliela mise nella mano.

«Togli la sicura.»

Lei eseguì e gli sfiorò le nocche con i polpastrelli.

«Per la Francia» disse, e riuscì a sorridere, gli occhi semichiusi.

«Per la libertà» aggiunse lui.

«Nancy!» urlava Franc cercando di raggiungerla.

Lei strisciò all’indietro lungo la barra fino a quando lui riuscì ad afferrarla per trascinarla via lungo l’ultimo metro, poi la spinse sulla passerella.

Non c’era bisogno di guardare l’orologio, ormai; sentivano la terra tremare all’avvicinarsi del treno. Da sopra arrivavano gli avvertimenti disperati delle guardie, che si perdevano nel fragore metallico. Nancy si mise a correre. Il viadotto di Garabit tremò quando accolse il peso della locomotiva, e lei alzò gli occhi per vederlo diventare un inferno di scintille e clangore.

Franc gridò ancora il suo nome, e lei capì che erano arrivati dove si doveva scendere. Non c’era abbastanza tempo. Franc aveva già fissato la fune e si stava calando. Lei si imbracò mentre dall’alzaia arrivava una scarica di pallottole, poi a mezz’aria si fermò e guardò in su: il treno era quasi passato.

Si stava calando troppo in fretta, o non abbastanza in fretta, la fune era rovente e le bruciava le dita. Avevano fallito, il treno stava passando prima che le cariche...

Tutto successe contemporaneamente. Lei cadde a piombo nel fiume, lottò per liberarsi della fune intorno al corpo, mentre la corrente la capovolgeva e in alto esplodevano le cariche. Una, due. Una, due. Granata, carica mediana, lato ovest, lato est. Il mondo era fragore e acqua. Era assordata, accecata, travolta dalla corrente, colpita da un’ondata calda e luminosa, e rocce e radici le si avvinghiavano alle gambe. Sentiva male ai polmoni. Poi una mano le afferrò il polso, tirandola fuori dall’acqua, dove con un brivido tornò a respirare.

Tardi la stava trascinando sull’argine. Lei lo respinse e riuscì a mettersi verticale in tempo per vedere che Franc veniva salvato dal fiume da Mateo. Rimasero tutti e quattro a fissare la scena, muti.

Il fumo cominciò a diradarsi e Nancy vide lo squarcio che avevano aperto nella meravigliosa opera ingegneristica di Eiffel. Quel che rimaneva del viadotto ondeggiava, con un mostruoso cigolio, ma il treno era ancora immobile sulle rotaie. Perché non era corso via? Nancy si strofinò gli occhi cercando di liberarsi dell’acqua che l’aveva accecata. No. L’ultimo vagone che si era trovato proprio nel punto dell’esplosione adesso penzolava da sbarre contorte. Scivolava giù piano piano, facendo arretrare il resto dei vagoni.

Il fischio acuto se ne stava andando e Nancy riacquistò l’udito. Nell’urlo del metallo riconobbe altri suoni: grida, le invocazioni disperate dei soldati intrappolati dentro quell’ultimo vagone. Troppo stupefatta per muoversi, Nancy guardò gli uomini dei vagoni ancora sul ponte che cercavano di sganciare il vagone caduto, e le implorazioni di quelli sospesi nel vuoto che si rendevano conto di ciò che stavano facendo.

Intanto altri soldati rompevano i finestrini dei vagoni più vicini alla locomotiva e cercavano di uscire correndo a nord, una massa in preda al panico. Uno cadde, o venne spinto fuori dalla fila e finì nel fiume agitando le braccia. Il treno arretrò ancora, il ponte ondeggiò e altri soldati precipitarono nel baratro.

Poi il vuoto ebbe la meglio, prima lentamente e poi di colpo l’ultimo vagone si sganciò e il treno precipitò indietro; le rotaie si piegarono come se volessero liberarsi di lui, dalla locomotiva alla penultima vettura tutto il convoglio precipitò in acqua da un’altezza di 122 metri.

L’opera di Eiffel non cadde, ma si incurvò nel mezzo, torcendosi, spezzata sopra l’arco schiacciato. Gemeva forte come un animale ferito.

Qualcuno la stava chiamando. «Nancy! Andiamo!»

Tardi, che l’aveva presa per le spalle e la scrollava.

«Ritiriamoci» disse lei, e tutti si lanciarono correndo verso il bosco, diretti al punto di incontro prestabilito, quando la mitragliatrice sulla riva opposta finì di regolare il tiro e sollevò la ghiaia con le sue raffiche.

Liberazione
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