Epilogo

Raggiungi un risultato che ti aveva ossessionato per settimane, per mesi. È normale pensare di rilassarti, leggere in pace, ascoltare la musica. Dormire a lungo senza mettere la sveglia.

Non andò cosí. Dopo aver fatto una passeggiata, avere cenato e aver letto per un’ora, Fenoglio spense la luce e cercò di addormentarsi. Non ci riuscí. Si rigirò per almeno due ore: aveva caldo, anche se non faceva caldo. Tirò su la tapparella per lasciare entrare l’aria della notte e riprovò ad addormentarsi. Non ci riuscí. Allora si alzò, accese la televisione e vide un pezzo di un vecchio film in bianco e nero con William Powell e Myrna Loy. Tornò a letto, spense la luce e cercò ancora una volta di addormentarsi. Non ci riuscí. Rimase sdraiato perfettamente sveglio, fino a quando la luce del giorno entrò con gentile decisione dalla finestra semiaperta.

Si sentiva riposato, anche se non aveva dormito nemmeno un minuto. Era il diciannove di luglio, domenica, e si disse che forse era arrivato il momento di fare il primo bagno della stagione. Dunque si alzò quando la radiosveglia segnava le cinque e cinquantotto, si fece il caffè, recuperò un costume e un telo da spiaggia nell’armadio dell’estate, cercando di ignorare tutte le cose di Serena che erano ancora lí dentro. Alle sei e quaranta metteva in moto la macchina e alle sette e venticinque si toglieva le scarpe sulla spiaggia lunghissima e deserta di Capitolo. La sabbia era fresca, il mare era calmo e trasparente, il cielo era blu fiordaliso, sulla battigia camminavano poche persone, qualche cane correva, nessuno faceva ancora il bagno, l’orizzonte era punteggiato da piccole barche immobili.

Fenoglio stese l’asciugamano vicino al mare, si spogliò, osservò la sua ombra, pensando che, chissà perché, aveva qualcosa di estraneo e di amichevole a un tempo. Entrò nell’acqua e camminò respirando la brezza, guardando i branchi di pesci che guizzavano fra i suoi piedi in sincronie perfette. Poi si tuffò e nuotò a lungo, forse mezz’ora, forse di piú, da solo, proprietario privato di quel mare.

Uscí che il sole cominciava a scaldare. Andò a sedersi sull’asciugamano e osservò la spiaggia che si popolava: giovani famiglie con bambini piccoli; coppie anziane, attrezzate con sdraio, ombrelloni e borse frigorifero; i primi ragazzi – quelli che non avevano passato la notte in discoteca – con palloni, racchette, radio.

Andò via prima che il posto diventasse un altro e prima che il sole di luglio cominciasse a mordergli la pelle. Si fermò a Monopoli dove fece una passeggiata e, in un caseificio, comprò una busta di mozzarelle appena fatte e ancora tiepide. Percorse la strada semideserta verso Bari, mentre sull’altra corsia le macchine si incolonnavano verso le spiagge e, nella totale inversione dei ritmi di quel giorno, arrivò a casa che la città era spopolata e silenziosa. Quieta.

Mangiò guardando il telegiornale regionale, pieno di notizie insulse: quella dell’arresto di Savicchio non c’era, la conferenza stampa era stata fissata per lunedí mattina. Un buon motivo per tenersi alla larga dalla caserma, l’indomani.

La notte insonne, la lunga nuotata, le due birre fredde con cui aveva accompagnato il pranzo cominciarono a farsi sentire. Decise di buttarsi sul letto per una mezz’ora. Una mezz’ora, non di piú, altrimenti stanotte siamo punto e daccapo, si disse parlando ad alta voce.

Si svegliò alle sei e mezza, intontito, sudato e con quella spiacevole sensazione di ansia e anche di colpa che talvolta segue i risvegli del pomeriggio. Era ancora disteso sul letto quando suonò il telefono. Di sicuro era successo qualcosa e chiamavano dalla caserma per chiedergli di rientrare. Fu tentato di non rispondere. Poi si schiarí la voce, ancora impastata dal sonno, allungò la mano verso il comodino e prese l’apparecchio.

– Pronto.

– Pietro…

Si tirò su di scatto e si sedette sul bordo del letto.

– Serena, – quasi non la riconosceva.

– Hai visto il telegiornale?

– Il telegiornale? – Pensò che ci fosse stata una fuga di notizie e alla televisione avessero parlato dell’arresto di Savicchio e di tutto il resto.

Ma perché Serena lo chiamava per questo? Perché con quella voce che pareva cristallo sul punto di andare in frantumi?

– Hanno ucciso anche Borsellino.

– Borsellino? Che dici?

– Lo hanno fatto saltare in aria assieme alla scorta, davanti alla casa della madre.

Da bambino Fenoglio andava al cinema in parrocchia. Proiettavano vecchie pellicole malridotte e, quasi sempre, capitava l’incidente. Il sonoro del film veniva d’un tratto sostituito dal rumore frenetico del proiettore che si inceppava; l’immagine si deformava fino alla liquefazione; la macchina si bloccava e sullo schermo rimaneva solo un grande squarcio con i bordi bruciati. Quella sequenza gli apparve tutta intera nella testa, come per l’effetto di un allucinogeno.

– Non c’è speranza, – mormorò Serena.

Dopo, però, il proiezionista accendeva la luce, sistemava la pellicola – era velocissimo – e il film riprendeva. Riprendeva sempre.

– No, – rispose Fenoglio. – Non è vero.

Poi parlarono a lungo. Lei raccontò degli esami, e dei colleghi, e dei ragazzi. Lui ascoltò, soprattutto. La cosa che sapeva fare meglio. Nella stanza da letto c’erano quiete e penombra, e le parole adesso erano leggere.

– Mi aspetti? – chiese alla fine Serena.

Lui disse che sí, l’avrebbe aspettata.