14.
Lopez aveva appena cominciato a sfogliare l’album fotografico quando qualcuno bussò alla porta.
– Avanti, – disse la D’Angelo, reprimendo un moto di fastidio per l’interruzione.
La porta si aprí lentamente e si affacciò il colonnello Morelli. Non era mai comparso in quella stanza, da quando Lopez aveva iniziato a collaborare. I militari si alzarono in piedi. Anche Lopez, dopo qualche istante, si alzò. Morelli non entrò.
– Mi scusi, dottoressa, posso parlarle un minuto?
C’era qualcosa di strano: il tono del colonnello era esitante. Morelli era molto militare, nelle movenze e nei toni. Privo di sfumature, del tutto adeguato a un’idea tradizionale di come deve comportarsi chi comanda.
Adesso invece la sua voce e i suoi movimenti erano incerti; ed era venuto da solo. Anche questo era un comportamento inusuale, pensò Fenoglio. Gli ufficiali raramente si muovono da soli; c’è sempre qualcuno che li accompagna. Una sottolineatura simbolica del ruolo e della gerarchia. Il comandante – il corpo del comandante – non viaggia mai da solo, è sempre accompagnato da qualche segmento della gerarchia che rappresenta.
Quel pomeriggio invece Morelli era solo. Niente gerarchia, niente simboli, niente rituali. Qualcosa non andava.
La D’Angelo si guardò attorno per qualche secondo. – Certo, – disse poi alzandosi e prendendo il pacchetto delle sigarette.
– Vieni anche tu, Valente, – disse il colonnello al capitano, scomparendo nel corridoio.
– Il colonnello aveva una faccia strana, – commentò Pellecchia dopo un paio di minuti di silenzio.
– Cosa può essere successo? – chiese l’avvocato Formica.
Qualcosa di molto grave, pensò Fenoglio. Avevano ammazzato qualcuno, forse un parente di Lopez. Era successo qualcosa che faceva precipitare la situazione.
La D’Angelo rientrò una decina di minuti dopo, senza il capitano. Aveva gli occhi lucidi e l’espressione smarrita. Sembrava non riconoscere né la stanza né le persone.
– Dobbiamo sospendere il verbale. Cioè, dobbiamo interromperlo… non possiamo continuare.
– Cosa è successo, dottoressa? – Lei non rispose. Probabilmente nemmeno sentí la voce di Fenoglio.
– Scriva, brigadiere, – disse, guardando nel vuoto. – Alle ore, – guardò l’orologio, rimase per parecchi secondi a fissare il quadrante, – 18.50, prima che si proceda alla verbalizzazione delle individuazioni e dandosi atto peraltro che il dichiarante ha già preso visione delle prime pagine dell’album fotografico, l’atto viene sospeso per gravi ragioni non inerenti l’oggetto del presente procedimento.
Dettò scandendo le parole, ma sembrava che la voce venisse da un’altra parte.
– Per piacere, stampi il verbale. Riprendiamo lunedí. Mi scusi, avvocato, la farò chiamare per l’orario del prossimo interrogatorio. Mi scusi, – ripeté, – ma è successo…
Le parole rimasero sospese per qualche istante, o forse di piú.
– C’è stato un attentato. Hanno fatto saltare l’autostrada.
– Dove? – chiese Fenoglio.
– A Palermo. Pare che ci siano dei superstiti, pare che Falcone e la moglie li stiano portando in ospedale.
Nelle situazioni piú tragiche siamo inclini a ricordare dettagli all’apparenza insignificanti. A Fenoglio rimase impresso il viso del brigadiere Calcaterra. Aveva sempre una faccia immobile, senza espressione. Come se nulla lo interessasse, a parte il mettere i verbali sulla carta. Trasformare, sotto dettatura, fatti terribili e sanguinosi in lingua burocratica e asettica, sterilizzandoli, privandoli della incomprensibile violenza della vita, addomesticandoli, rendendoli materiale da fascicolo e da archivio.
Calcaterra aveva la faccia sbigottita. Le labbra gli tremarono due o tre volte; poi si stropicciò gli occhi; si soffiò il naso piú volte. Sono di Palermo, io, sussurrava sgomento, quasi a giustificarsi.
Andarono nell’ufficio del capitano e sentirono in diretta dalla voce di Angela Buttiglione – la conduttrice del telegiornale – che Giovanni Falcone era morto alle ore 19.07.
– Voglio prendere un po’ d’aria. Me ne torno a casa a piedi. Non voglio la scorta, per piacere, – disse la D’Angelo, dopo alcuni minuti infiniti di silenzio. Il capitano stava per dire qualcosa. Non è possibile, non ci metta in difficoltà in un momento del genere, non possiamo non farla accompagnare dalla scorta. Roba del genere.
– La accompagno io, dottoressa, – disse Fenoglio.
Lei lo guardò come se avesse parlato in un’altra lingua e fosse necessario tradurre le sue parole. – Va bene, – disse alla fine.
In breve furono per strada, sul lungomare. L’aria era fresca e asciutta. La D’Angelo diede un calcio a una lattina di birra. Fenoglio si rese conto che nella sua testa passava una moltitudine di pensieri incongrui. Ma cosa c’era di diverso dal solito? È che di regola non facciamo caso al flusso dei pensieri – sono sempre incongrui – se non quando uno di questi diventa particolarmente assillante.
– Lo ha conosciuto, il giudice Falcone?
– Sí, – rispose lei, subito. Come se fosse stata in attesa proprio di quella domanda. – Qualche anno fa, a un incontro di studio del Consiglio Superiore della Magistratura. Un corso sulla criminalità organizzata per noi magistrati ragazzini che saremmo andati a lavorare in Sicilia e in Calabria.
– Lui teneva una relazione?
– Sí. Anche se della relazione, voglio dire del contenuto specifico, non ricordo quasi niente. Allora pensai che era interessante, che lui parlava bene e si lasciava seguire senza sforzo ma oggi non saprei dire di cosa parlò. Ovviamente di indagini di mafia, ma non mi ricordo niente di preciso. Il pranzo, quello me lo ricordo bene, quando finirono gli interventi della mattina. Nel ristorante c’erano grandi tavoli circolari, da dieci, senza posti assegnati. Io ero con colleghi del mio concorso e con altri che non conoscevo. All’ultimo, quando era rimasto un solo posto libero, proprio vicino a me, arrivò lui e chiese se poteva sedersi. Noi dicemmo che certo, poteva e fu cosí che conobbi personalmente Giovanni Falcone. Fu una sensazione molto… singolare. Non trovo una parola piú adeguata.
– Perché singolare?
– Lei deve immaginarsi… un po’ come se venisse a sedersi al suo tavolo un personaggio storico, o un personaggio di romanzo, insomma qualcuno che è troppo distante per essere reale. Poi, appunto, si siede al tuo tavolo, chiacchiera con te, ti dice di dargli del tu ed è… insomma, è normale. Simpatico, anche. Abbastanza. Non simpaticissimo. Non è un eufemismo per dire che era antipatico, no. Bisogna stare attenti con le parole. No, voglio dire proprio quello che ho detto: era abbastanza simpatico. Molto rilassato, a suo agio. Normale, non mi viene un’altra parola. Però tu lo sai benissimo che non è normale. Lo sai benissimo quello che ha fatto e che sta facendo e pensi che in quel momento, esattamente in quel momento, ci sono persone pericolosissime che pensano a come ucciderlo, quest’uomo normale con cui tu stai parlando in modo normale. E tu che sei una ragazzina – avevo ventisette anni – ti chiedi: chi vincerà? Noi o loro? Pensavo a questo mentre cercavo di dire cose per cui magari potesse ricordarsi di me, ma non penso di esserci riuscita. Dunque nemmeno si può dire che ci conoscevamo. Se gli avessero chiesto: conosce Gemma D’Angelo?, avrebbe risposto che gli dispiaceva, ma non gli pareva di ricordarsela. Credo.
Si fermò in uno dei giardinetti proprio davanti al mare. Ormai era l’imbrunire. Si sedette su una panchina e Fenoglio fece lo stesso. Era un po’ in imbarazzo e al tempo stesso la situazione gli sembrava naturale. Lei prese il pacchetto delle sigarette e con un gesto meccanico ne offrí una a Fenoglio. Questa volta lui la prese.
Fumarono l’uno accanto all’altra, con lo sguardo rivolto al mare. I pensieri si rimisero in movimento, senza controllo. Quando mai ce l’hai, il controllo dei pensieri? Fenoglio pensò che non aveva voglia di rientrare a casa. Pensò che avrebbe dovuto essere arrabbiato con Serena ma che, assurdamente, non lo era. Pensò che avrebbe solo voluto che tornasse. Passò un signore con un grosso cane bastardo che tirava. La bestia si avvicinò alla D’Angelo, lei lo accarezzò sul muso con i gesti di chi ha molta dimestichezza con gli animali e non ne ha mai avuto paura.
– Ha un cane, dottoressa? – chiese Fenoglio appena furono di nuovo soli.
– L’ho avuto, da ragazza. Quando stavo con i miei genitori. Anche adesso mi piacerebbe molto, ma come faccio, abitando da sola? Lei?
– No. A volte ci penso.
– Aveva un sorriso ironico, Giovanni Falcone. Però di un’ironia appena accennata. Mentre lo osservavo, a tavola, mi dicevo che era come un antidoto, quell’ironia sottotraccia. Normalità e ironia. Forse è cosí che si affronta il mostro. Ecco, la lezione a quell’incontro di studio non fu il contenuto della conferenza in aula, la conferenza che non ricordo. La lezione fu quello stare a tavola normale, quel sorriso vagamente ironico, quel darsi del tu con noi ragazzini. Era come se dicesse: lo sappiamo tutti che sono – ma in realtà: siamo – nel mezzo di un gioco mortalmente pericoloso. Nemmeno questo però ci impedirà di sorridere. Altrimenti avrebbero già vinto gli altri.
Spense la sigaretta e subito dopo ne accese un’altra.
– Perché ha deciso di entrare in magistratura?
La D’Angelo sorrise scuotendo il capo.
– Per me era una specie di missione. Falcone e gli altri erano i miei miti personali. Volevo fare il magistrato perché volevo essere come loro.
Fenoglio annuí. Lei mise i piedi sulla panchina e si abbracciò le ginocchia. Lasciarono passare parecchi minuti senza dire una parola.
– Sa una cosa assurda, maresciallo? Ho fame.
– Non è assurdo. Si chiama istinto di sopravvivenza, in una delle sue varie forme.
– Magari potrebbe accompagnarmi in una pizzeria. Mi lascia lí, torno a casa da sola, non si preoccupi.
– Dottoressa, non mi metta in difficoltà. Già non dovremmo starcene cosí, seduti su una panchina. Già non sarebbe dovuta uscire solo con me, senza i ragazzi della scorta. L’accompagno ma non posso lasciarla da sola. Adesso chiamiamo…
– Per piacere, non ne ho voglia. I ragazzi della scorta sono bravi, ma non ho voglia di stare con loro, adesso.
– Allora aspetto io. Si mangia la pizza e poi la porto a casa.
– Non se ne parla nemmeno, che stia ad aspettarmi. Però può essere mio ospite, e poi mi riaccompagna, se la cosa la fa stare piú tranquillo.
– Mi fa stare piú tranquillo.
– Solo non vorrei crearle problemi con la sua famiglia. La staranno aspettando a casa.
– Nessun problema, anch’io pensavo di mangiare un boccone.
Lei parve sul punto di chiedergli qualcosa, ma lasciò perdere.
Andarono in una piccola pizzeria del rione Madonnella e si sedettero a un tavolino in fondo al locale, Fenoglio con le spalle al muro, in modo da poter vedere chi entrava e chi usciva.
– Venivamo qui ai tempi dell’università, con le mie amiche, – disse la D’Angelo accendendo l’ennesima sigaretta.
– Lei è proprio di Bari, dottoressa?
– Padre barese e madre siciliana. Lui è avvocato, civilista. Lei insegna lettere al liceo.
Anche mia moglie insegna lettere. Però non sta piú a casa. Forse ha un altro. Non lo so.
– Qual è stata la sua prima sede?
– Ho fatto tre anni a Palmi.
– Sempre in procura?
– Ho fatto il giudice istruttore, e per qualche mese anche il gip, con l’entrata in vigore del nuovo codice. Poi ho avuto il trasferimento qui.
– Palmi non deve essere stata una vacanza.
Lei sorrise di nuovo. – No, non è stata una vacanza.
Il cameriere arrivò con tarallini, olive, provolone a pezzetti e due birre. Prese l’ordinazione per le pizze – entrambi ordinarono quella con cime di rapa, acciughe e pan grattato – e si eclissò come solo certi camerieri sono capaci di fare.
– Sulla panchina stava dicendo della missione.
Prese di nuovo il pacchetto delle sigarette, lo osservò come fosse un oggetto nuovo, lo rimise a posto.
– Sto fumando davvero troppo. La prossima dopo cena.
– Buona idea.
– La missione, sí. Eravamo ragazzi che volevano cambiare il mondo. Qualcuno pensava di poterlo fare con la politica. A me sembrava che il modo migliore fosse diventare magistrato. Senza compromessi. Da una parte c’erano i cattivi – evasori fiscali, corrotti, inquinatori, mafiosi, collusi di ogni genere. Io sarei stata dall’altra parte, a battermi. Un’idea un po’ ingenua, diciamo. Ci ho messo un bel po’ di tempo a rendermi conto che le cose sono piú complicate.
Bevve un po’ di birra, mangiò un tarallino e un pezzetto di formaggio. Fenoglio fece gli stessi gesti, nello stesso ordine.
– Sa qual è stato il momento piú felice della mia vita? – disse lei.
– Quale?
– Aspettavamo i risultati degli scritti del concorso. Una mattina si diffuse la notizia che erano stati pubblicati. Per saperli bastava telefonare a un certo numero del ministero di Grazia e Giustizia. Davi il tuo nome e l’impiegato addetto alle informazioni ti diceva se eri stato ammesso agli orali. Una mia amica – avevamo studiato insieme per gli scritti – aveva già chiamato e aveva saputo di essere passata. Non so perché, ma mi convinsi che avesse chiesto anche per me, che le avessero risposto che io non ce l’avevo fatta e non avesse avuto il coraggio di dirmelo. Cosí chiamai in preda, non esagero, a un vero senso di disperazione. Dissi il mio nome all’impiegato balbettando, credo. Lui sfogliò il registro – potevo sentire il fruscio delle pagine – e mi chiese: Ha detto D’Angelo Gemma? Sí, risposi io, senza riuscire a respirare. Complimenti, dottoressa, è stata ammessa, e mi lesse i voti. E io capii cosa significa essere pazzi di felicità. Ancora adesso, se ci ripenso, mi viene fuori la stessa espressione beota con la quale andai in giro per almeno due giorni.
Fenoglio sorrise.
– La faccio ridere.
– Mi fa sorridere, è diverso.
– È vero che è laureato in Lettere?
– Studiavo Lettere. Poi sono diventato sottufficiale dei carabinieri, per ragioni un po’ lunghe da spiegare, e non ho continuato. A volte penso di tornare all’università e prendermi quella laurea, ma immagino sia solo una velleità. Comunque mi mancavano cinque esami.
– Perché Lettere?
– Mi piacevano i libri e non mi sembrava di avere nessuna qualità speciale. A oggi la situazione non è cambiata. Mi piacciono i libri e non mi sembra di avere qualità speciali. A parte, forse, una certa ostinazione.
– E le piace fare il carabiniere?
– Ci sono tante cose che non mi piacciono. Però ce ne sono alcune che mi piacciono.
– Cosa non le piace?
– Non mi piace la brutalità. Non mi piacciono i soprusi, soprattutto quelli in nome di una presunta giustizia. Non mi piacciono certi suoi colleghi, non mi piacciono molti avvocati – ma in compenso alcuni mi piacciono molto – non mi piace la gerarchia, non mi piacciono certi ufficiali. Ovviamente non mi piacciono i delinquenti. Alcuni sono davvero ripugnanti.
– Ci deve essere qualcosa che le piace molto per compensare tutto questo.
– Mi piace scoprire cosa è successo. Nei limiti del possibile. Mi piace che la gente si fidi di me e decida di raccontarmi quello che sa, anche nelle situazioni piú inattese. Mi piace se quello che faccio – a volte capita – restituisce un po’ di dignità a chi l’ha perduta. Dà senso al caos. Poi mi piacciono alcune persone con cui mi capita di lavorare. Qualche suo collega, qualche mio collega, anche qualche pregiudicato. Taluni sono persone gradevoli.
Fece una pausa, stupito di quello che aveva appena detto. – Ho fatto una bella sparata patetica.
– No. Direi proprio di no. È bella l’idea di dare senso al caos.
Arrivarono le pizze e per qualche minuto la conversazione si interruppe. Era sabato sera, il locale era pieno, le voci dai vari tavoli si confondevano nella tipica sinfonia dissonante dei ristoranti popolari affollati.
– Sa qual è stato il mio primo momento di disillusione? – disse la D’Angelo dopo aver mangiato con le mani l’ultimo triangolo di pizza.
– Chi le hanno assolto in corte d’appello?
Accennò una risata. – No, no. È stato molto, molto prima.
Fenoglio spostò di lato il piatto.
– Subito dopo la laurea mi iscrissi a un corso di preparazione per il concorso in magistratura. Era tenuto da un magistrato napoletano, famoso e, si diceva, molto bravo. In effetti, avendo frequentato il corso posso dire che era davvero molto bravo. Per farla breve, mi iscrissi, feci il primo mese di prova, poi andai da lui e gli chiesi come regolarmi per il pagamento, se andava bene un assegno di mio padre. Lui mi sorrise, guardandomi come si guarda una ragazzina ingenua – esattamente quello che ero – e disse che no, purtroppo assegni non poteva prenderne, bisognava pagare in contanti.
– Tutto in nero.
– Appunto. Balbettai qualcosa, dissi che non li avevo e se non gli dispiaceva li avrei portati la settimana successiva. Lui disse che non c’erano problemi. Ci rimasi malissimo. Era lí per aiutarci a diventare magistrati, era cosí bravo ed era un evasore fiscale. Senza nessun imbarazzo, senza nessuna vergogna, come se guadagnare dei soldi – tanti soldi, il corso era frequentato da un sacco di gente – e non pagarci le tasse fosse del tutto normale. Pensai che non era giusto, che non ci dovevo tornare, che era una cosa inammissibile e intollerabile. Già allora facevo storie in un negozio o in un ristorante se non mi davano la ricevuta fiscale, tanto per darle un’idea.
– E invece ci tornò.
– E invece ci tornai, pagando puntualmente ogni mese, in contanti come tutti. Mi sembra di rivederla qui, la scena: noi che gli davamo i soldi, cosí, arrotolati e lui che li prendeva senza guardarli e se li metteva in tasca.
Fenoglio sorrise e scrollò le spalle. La vita è fatta di compromessi.
– Però è stato grazie a lui se ho superato l’esame. Se non avessi frequentato il suo corso con ogni probabilità non ce l’avrei fatta.
Arrivò il cameriere. Gerardo, si chiamava, e aveva un incredibile riporto di capelli tinti di nero, con la ricrescita bianca.
– Vi porto un dessert, maresciallo? Panna cotta, tiramisú, sporcamussi?
Fenoglio guardò la dottoressa. Lei scosse il capo. – Per me niente, grazie.
– Va bene, Gerardo, facci preparare il conto per piacere.
– Sa cosa dicono di lei? – chiese la D’Angelo quando il cameriere si fu nuovamente dileguato.
– Chi?
– In giro, anche qualche mio collega.
– Cosa dicono?
– In sintesi: che lei è bravo ma non è simpatico. Sa perché?
– Posso immaginarlo.
– Cosa si immagina?
– Immagino che non mi renderò simpatico dicendolo.
Lei rise. Sembrava molto piú giovane quando rideva, pensò Fenoglio.
– Coraggio, si renda poco simpatico anche con me.
– Molti suoi colleghi e quasi tutti i miei superiori amano i rituali di riconoscimento della loro autorità.
– È un modo per dire che vogliono essere ossequiati?
– Piú o meno.
– E lei non lo fa. E questo non la rende simpatico.
– È una buona semplificazione.
– E di me cosa dicono? – fece lei giocherellando con una sigaretta ma senza accenderla.
– Che è brava ma non è simpatica. Però devo aggiungere che finora non mi è mai capitato, nel mio ambiente, che una donna magistrato brava fosse considerata simpatica.
– Quindi posso consolarmi pensando che è uno stereo-
tipo?
Fenoglio sorrise. – Sí, direi di sí.
– Lasciando perdere la simpatia. Qualche suo collega e anche qualche poliziotto mi ha raccontato che lei è capace di far parlare le persone, che la gente con lei tende a confidarsi. È vero?
– Credo di sí.
– Perché?
– Immagino percepiscano che non cerco di imbrogliarli.
– Basta questo?
– No, in effetti.
– E allora?
– Penso che sia importante vedere le cose anche dal loro punto di vista. Il che naturalmente non significa giustificare le loro azioni.
La D’Angelo annuí pensierosa, poi finalmente accese la sigaretta.
– Chissà com’è, mettersi dal punto di vista di chi ha schiacciato il pulsante per quella bomba, – disse con tono cupo.
La D’Angelo abitava in un condominio anni Settanta dietro la stazione centrale. Fenoglio la accompagnò fino al portone, guardandosi attorno per verificare che non ci fossero presenze strane. Non credeva alla possibilità di un attentato, in quei giorni – Grimaldi era troppo preso da altro – ma un po’ di attenzione non avrebbe guastato.
– Grazie, – fece lei.
– Dovere, come si dice.
– Non parlo dell’accompagnamento.
– Lo so.
– Ha un senso continuare a fare il nostro lavoro, con quello che è successo?
– Sí.
Lei rimase a pensare a lungo, con il capo un po’ inclinato verso il petto, come se Fenoglio le avesse dato una risposta lunga, articolata e complessa, che richiedeva un’attenta interpretazione. Ma probabilmente era proprio cosí. Alla fine rialzò la testa e guardò Fenoglio diritto negli occhi.
– Va bene. Ci vediamo lunedí da voi in caserma, alle nove, e riprendiamo con Lopez. Voglio fare in fretta.