12.
Ruotolo era un ragazzo alto, dalla sagoma atletica. Camminava a testa bassa, trascinando i piedi; indossava dei pantaloni di tela troppo larghi e una polo non stirata.
Vide Fenoglio e Pellecchia quando era a una ventina di metri dal portone di casa, dove lo stavano aspettando. Si fermò e per qualche istante parve sul punto di girarsi e andarsene. Poi dovette pensare che non era una buona idea.
– Ciao Ruotolo, come mai da queste parti? – disse Pellecchia con tono allegro.
– Abito qua, – rispose lui cauto. Aveva qualcosa di debole e sfuggente nei lineamenti. Un fremito del labbro, un segno che Fenoglio aveva imparato ad associare a quelli che sono inclini al sopruso sui deboli e alla sottomissione verso i forti.
– Ma tu vedi. Io già stavo pensando: c’è il collega Ruotolo, è a piedi, noi abbiamo la macchina e allora gli diamo un passaggio.
– Grazie, ma abito qua –. Fece per avviarsi verso il portone. Pellecchia gli sbarrò la strada.
– Che ci fai a casa a quest’ora, Ruotolo? Non sei in servizio?
– Sono in convalescenza.
– Ah, mi dispiace. Sei stato malato?
Ruotolo annuí senza convinzione. Poi si guardò attorno, come per controllare la situazione.
– In effetti non hai un bell’aspetto. Non voglio sembrarti indiscreto, ma che problemi hai?
– Mal di testa. Ho dei mal di testa fortissimi.
– Addirittura. Non basta un’aspirina? Non so, quando a me viene il mal di testa prendo un’aspirina o una cibalgina e dopo un poco mi passa.
– Il mio non è un mal di testa normale.
– Dài, non fare quella faccia, mica siamo una visita fiscale. Come si chiama questo mal di testa? Cefalea a grappolo?
– Come fai a sapere…
– Ehi ehi, Ruotolo, non ti agitare. Che mestiere facciamo noi? I carabinieri, no? Ci piace essere informati su tutto, dovresti saperlo. Anche tu sai un sacco di cose, del resto. Comunque spero che adesso vada meglio. Sei andato a fare una passeggiata?
– Sí, ho…
– Non è che sei andato al cimitero?
– Cimitero? Perché…
– Cosí, tiravo a indovinare. Mi dài l’impressione di uno che va al cimitero.
L’altro rimase in silenzio.
– Scusa, Ruotolo, non ricordo il tuo nome di battesimo.
– Antonio.
– Ah, certo. Dài, andiamo a farci un bel giretto. Ci prendiamo un caffè, ti rilassi un poco. Magari facciamo anche due chiacchiere.
– No, grazie. Devo tornare a casa.
Pellecchia gli si avvicinò. Sorrideva, ma i suoi occhi erano socchiusi e immobili. Gli prese un braccio sopra il gomito, glielo strinse. Quello abbozzò un tentativo di divincolarsi ma l’altro strinse piú forte. Ecco la prima fase delicata. Fenoglio si tenne pronto, nel caso Ruotolo avesse reagito. Nessuno avrebbe voluto fare a botte con Pellecchia, bastava guardarlo in faccia, ma Ruotolo era un esperto di arti marziali.
Non fu necessario intervenire.
– Vieni con noi, – disse Pellecchia, e lo condusse alla macchina, sempre tenendolo per il braccio.
Fenoglio si incamminò con loro, affiancando Ruotolo dall’altra parte. Chiunque avesse visto la scena avrebbe pensato che lo stavano arrestando.
Scendendo dall’auto Fenoglio prese il codice penale che aveva portato con sé. Davanti al portone trovarono il comandante della stazione che li aspettava. Nel pieno delle Murge, a quattrocento metri di altezza, faceva piú caldo che a Bari.
– Ciao Michele.
– Ciao Pietro.
Il maresciallo Michele Iannantuono era di statura media, robustissimo, la testa rasata che si attaccava direttamente alle spalle senza la mediazione di un collo, gli occhi blu dal taglio slavo. Era un bravo carabiniere, una persona per bene, e un amante dei cani: nel tempo libero faceva l’addestratore di pastori tedeschi.
Lui e Fenoglio avevano frequentato insieme la scuola sottufficiali ed erano rimasti amici da allora. Quando il vecchio compagno di corso gli aveva chiesto di utilizzare i locali della sua stazione – un edificio grande, di costruzione recente – per un’attività di indagine riservata, non aveva fatto domande.
Li accompagnò per corridoi deserti fino a una stanza cieca utilizzata come archivio. Oltre agli scaffali metallici con i faldoni c’erano una scrivania con una poltroncina dozzinale e alcune sedie di legno accostate al muro. Fenoglio poggiò il codice bene in vista su un ripiano sgombro.
Iannantuono gli domandò se avesse bisogno di qualcosa. Lui rispose che no, grazie, Michele, andava bene cosí. Michele accennò un inchino impercettibile e si congedò.
– Accomodati, Tonio, – disse Pellecchia. – Ti chiamano Tonio, vero?
– No.
– E come ti chiamano?
L’altro non rispose.
– Secondo me ti chiamano Tony. Tony Ruotolo. Un bel nome, come un cantante di sceneggiata napoletana. Mi sembra di vedere i manifesti. Serata col grande Tony Ruotolo che presenta il suo ultimo disco autobiografico: Ragazzo di malavita –. Pellecchia scoppiò a ridere. Faceva paura.
– Siediti, – disse Fenoglio spingendo una sedia verso di lui. Ruotolo si sedette e lo stesso fece il maresciallo. Pellecchia rimase in piedi.
– Allora, hai voglia di raccontarci qualcosa, Tony?
Pellecchia mise l’accento sul nome – Tony – e lo pronunciò con un tono di condiscendenza, di benevolenza posticcia, come fosse un’ingiuria.
– Io non so cosa…
Lo schiaffo partí, né troppo veloce né troppo lento. Disegnò una traiettoria precisa e geometrica, dall’alto verso il basso perché Pellecchia era in piedi e l’altro era seduto. Arrivò a mano piena sulla faccia di Ruotolo, coprendola tutta, dal mento all’orecchio. Un pianista che prendeva una bella ottava, pensò Fenoglio senza riuscire a controllare il pensiero.
– Scusa, mi è scappato –. Poi, rivolgendosi a Fenoglio: – Adesso magari mi devo preoccupare, che qui abbiamo un campione di arti marziali. Metti che si incazza –. Ruotolo tentò di alzarsi. Pellecchia lo ributtò sulla sedia.
– Stai seduto, Ruotolo, – disse Fenoglio. – Hai idea del perché siamo qui?
L’altro scosse la testa, senza incrociare il suo sguardo. Se il linguaggio del corpo valesse come prova, quel gesto da solo sarebbe stato una confessione.
– Ci raccontano che nelle scorse settimane sei andato spesso al cimitero. È un’informazione sbagliata?
– È vietato andare al cimitero?
– No, certo che non è vietato. Forse vuoi dirci chi sei andato a trovare? Perché se non mi sbaglio tu vieni dalla provincia di Avellino. Hai qualche persona cara al cimitero di Bari?
Ruotolo cercò qualcosa da dire, ma non gli venne niente.
– Ti rifaccio la domanda, – disse Pellecchia. – Hai voglia di raccontarci qualcosa? Diciamo: come avete preso quel bambino, com’è morto, cosa avete fatto dei soldi tu e il tuo amico?
– State facendo un abuso. State trattenendo illegalmente un sottufficiale dei carabinieri. Mi avete messo le mani addosso. Io vi faccio passare un guaio.
Pellecchia si voltò verso Fenoglio. – Vedi, capo. Qui abbiamo un vero duro. Tu dicevi: sono certo che questo povero figlio di puttana è pentito di avere sequestrato e ammazzato un ragazzino di dieci anni. Basterà chiederglielo e lui ci aiuterà perché vuole liberarsi la coscienza. Io ti dicevo: no, no. Ruotolo è un duro. E infatti vedi: ha detto che ci farà passare un guaio. Addirittura gli abbiamo messo le mani addosso. Che non si fa, vero, Ruotolo? Tu non hai mai messo un dito addosso a nessuno, vero? Mai toccato qualche povero stronzo di tossico, vero? – Prima che quello potesse pensare a una risposta arrivò l’altro ceffone, seguito da un manrovescio. Molto piú forti di prima. L’immagine rimase immobile, sospesa per qualche secondo. Fenoglio pensò che stavano picchiando un carabiniere. Non impedire, avendo il potere di farlo, equivale a cagionare. Lo stavano picchiando, anche se lui non aveva mosso un dito.
– Adesso basta. Vatti a fumare un sigaro, – disse.
Pellecchia emise un sibilo, lasciando passare l’aria da una fessura fra gli incisivi superiori e il labbro inferiore. Si girò e uscí.
Fenoglio avvicinò la sedia a Ruotolo; i segni degli schiaffi erano ben visibili. Pensò che avrebbe voluto dargliene uno anche lui. Non per farlo parlare. Per sfogarsi. Per la rabbia. Perché quello era un carabiniere e aveva fatto quello che aveva fatto.
– Che stai pensando? – disse. – Pensi che stiamo facendo il gioco del buono e del cattivo? – e cosí dicendo gli appoggiò una mano sulla spalla. – Pensi che Pellecchia sia il cattivo e io il buono. Lo so che pensi questo, ma non è cosí. Lui ti ha dato qualche schiaffo, ma quello che ti rovinerà davvero sono io.
Ruotolo fece per aprire bocca; Fenoglio lo interruppe prima che cominciasse.
– Stai zitto e ascoltami. Dici che non abbiamo un cazzo. Non è vero. Sappiamo che fino al sequestro del bambino tu e Savicchio vi sentivate in continuazione; dopo, per ragioni che dovrai spiegare, quasi piú niente. Sappiamo qual era il tuo tenore di vita – cellulare con bollette da quattrocentomila lire al mese incluso. Dovrai spiegarlo. Come dovrai spiegare questa strana faccenda dei certificati medici. Mentre tu cercherai di spiegare, noi continueremo a lavorare su di te. Sentiremo tutti quelli che hai frequentato in questi anni e, tu lo sai bene, molti non sono proprio delle brave persone. Qualcosa salterà fuori, puoi stare sicuro.
Lasciò passare una decina di secondi, in modo che il messaggio si depositasse. Poi riprese: – Oggi voglio darti un’opportunità. Evito le premesse inutili, tutti e due sappiamo bene perché sei qui. Per come la vedo io esistono tre possibilità. La prima è questa: alla fine del nostro incontro tu insisti a dire che non sai di cosa stiamo parlando e dunque non hai nessuna intenzione di collaborare. Noi continuiamo il lavoro che stiamo già facendo e forse, dico forse, riusciamo a trovare prove sufficienti per arrestarti e farti condannare. Sono sicuro che lo sai già, ma l’articolo 630 del codice penale – sequestro di persona a scopo di estorsione – prevede la reclusione di anni trenta se dal sequestro deriva, comunque, il decesso della persona sequestrata. Vuol dire che questa pena si applica se non hai deliberatamente ucciso il sequestrato. Altrimenti c’è l’ergastolo.
Il volto di Ruotolo aveva il grigio colore dei morti.
– Naturalmente è possibile che non troviamo prove sufficienti e tu sfugga all’arresto e alla condanna. Questa è la seconda ipotesi. Nel qual caso credo che si occuperanno di te – di voi – gli amici di Grimaldi, che non badano troppo a sottigliezze giuridiche tipo indizi, prove e processi. Mettiamola cosí: non appena si sparge la voce che siete stati voi a prendere il bambino e ad ammazzarlo, qualunque sia l’esito del processo, tu e il tuo amico siete morti che camminano.
Le sue parole rimasero sospese nell’aria. La stanza puzzava di inchiostro e di carta impolverata. Il silenzio enfatizza gli odori, per chi li sa percepire.
– Qual è la terza? – chiese Ruotolo a voce molto bassa.
Fenoglio si alzò, andò a prendere il codice e lo aprí. – L’articolo 630 del codice penale, di cui ti dicevo, prevede anche delle circostanze attenuanti. In particolare per il «concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti». È chiaro il senso, non devo spiegarti, vero?
L’altro mosse appena la testa. No, non c’era bisogno di spiegare.
Pellecchia rientrò senza dire nulla. Si appoggiò con la schiena alla parete piú distante da Ruotolo e rimase lí.
– Senza tirarla troppo in lungo e senza stare adesso a fare i calcoli precisi: se collabori, fra attenuante prevista dall’articolo 630, attenuanti generiche e sconto di pena per il giudizio abbreviato, potresti cavartela con sei anni. Senza contare la possibilità di usare la legge sui collaboratori di giustizia per la protezione e tutto il resto. Questo è il quadro, adesso rifletti su ciò che ti conviene.
Rifletté anche lui. Sul silenzio irreale di quella caserma, per cominciare. Poi, sull’uomo che aveva davanti e sulla sua vita spezzata, comunque andassero le cose. Pensò a quello che gli aveva detto Tonino Pellecchia, sul perché aveva voluto fare il carabiniere. Chissà se il brigadiere Ruotolo Antonio da ragazzino sognava anche lui di fare il carabiniere perché voleva stare dalla parte giusta della barricata? Il problema, inutile dirlo, è che la barricata è piena di varchi; alcuni cosí ben nascosti che non ti accorgi quando li attraversi e ti ritrovi altrove, a fare altro.
– Si può avere un po’ d’acqua? – chiese Ruotolo, rompendo improvvisamente il silenzio.
Fenoglio si voltò verso Pellecchia, senza dirgli nulla. L’altro annuí, uscí dalla stanza e qualche minuto dopo rientrò con una bottiglia di acqua minerale e dei bicchieri di plastica.
– Posso fumare? – chiese Ruotolo dopo avere bevuto. Aveva ripreso un po’ di colore.
– Certo –. Fenoglio si guardò attorno. – Non ci sono posacenere, butta nel bicchiere.
Quello tirò fuori un pacchetto di Multifilter, ne prese una e l’accese con un accendino dall’aspetto costoso. Diede un colpo di tosse.
– Forse è meglio cosí.
– Sí, è meglio, – disse Fenoglio.
– Come avete fatto?
Il maresciallo scrollò le spalle. Cosa importava?
– Raccontaci tutto, Ruotolo. Poi chiamiamo un avvocato e decidiamo insieme come e cosa verbalizzare. Se ci aiuti, noi aiuteremo te, nei limiti del possibile.
Ruotolo diede un paio di tiri alla sigaretta e cominciò a raccontare.