18.

La sera prima Pellecchia aveva chiesto a Fenoglio di partecipare alla perquisizione.

– Lasciami venire, Pietro, per piacere.

Fenoglio scosse la testa.

– Per piacere, – ripeté. – Ho un conto in sospeso con quel figlio di puttana. Tu lo sai, sei l’unico a saperlo.

Fenoglio scosse di nuovo la testa. – Non puoi, Tonino. Proprio perché hai quel conto in sospeso. Non ce lo possiamo permettere. È improbabile, ma pensa se dovesse dire qualcosa su… su quello che avete fatto insieme, in presenza del capitano e della dottoressa. Lascia fare a noi.

Pellecchia si era schiarito la voce, come per replicare, ma era rimasto zitto. Dopo un po’, aveva solo annuito piano, serrando le labbra, come per una consapevolezza dolorosa, ma inevitabile.

– Va bene. Mi chiami se trovi qualcosa? Hai segnato il numero del mio cellulare?

Fenoglio aveva detto che sí, aveva segnato il numero del cellulare sulla sua agendina e che lo avrebbe chiamato subito.

Se avesse trovato qualcosa.

Ipotesi alla quale, se glielo avessero domandato, avrebbe risposto di credere assai poco.

Decisero di eseguire la perquisizione cominciando dall’ufficio per poi proseguire a casa, andandoci con Savicchio. Sembrava la strategia piú efficace, per uno come lui. Sentendo bussare alla porta la mattina presto avrebbe intuito cosa stava succedendo e, se in casa c’era qualcosa di compromettente, avrebbe provato a sbarazzarsene. Se era droga poteva buttarla nel gabinetto, se erano documenti poteva strapparli e bruciarli. Almeno questo rischio non c’era, entrando nell’appartamento con lui.

Il colonnello si ricordò di un impegno fuori sede, per quel giorno. Non lo avrebbe mai ammesso, ma l’idea che il suo ufficio – il nucleo comando era la sua segreteria – venisse perquisito da un magistrato, lo metteva molto a disagio, come una specie di affronto personale.

– Ciao Savicchio, – disse Fenoglio entrando nella stanza. L’altro si voltò e stava per rispondere quando vide la D’Angelo e il capitano Valente apparire subito dopo. Si alzò in piedi, quasi di scatto.

– Buongiorno, dottoressa. Comandi, signor capitano.

– Dobbiamo procedere a una perquisizione, maresciallo Savicchio, – disse la D’Angelo dandogli una copia del decreto. Lui la prese e la guardò per qualche minuto, con attenzione e con calma.

– Ha diritto all’assistenza di un difensore, – disse la D’Angelo. – Vuole chiamare un avvocato?

– No, grazie, dottoressa. Non ho nessun problema, ho la massima fiducia nel suo operato. Poi ho letto su cosa si basa questo provvedimento... – Disse le ultime parole con espressione compunta e una calcolata nota di compatimento.

– Cosa vuol dire?

– Ruotolo. Era un bravo ragazzo, purtroppo, per vari problemi suoi personali, è andato via via perdendo il controllo. È gravemente squilibrato. Mi dispiace dirlo, ma non dovrebbe fare il carabiniere. Eravamo amici, ho cercato di aiutarlo per anni, ma la sua situazione peggiorava di giorno in giorno. Era in cura da un neurologo, lo sa? A un certo punto ho dovuto interrompere i rapporti, faceva discorsi sempre piú strani, diceva di avere commesso dei peccati che doveva espiare, aveva delle specie di allucinazioni. Non mi fa piacere dire queste cose, ma purtroppo è tutto vero, se crede può mettere a verbale.

La pm lo fissò a lungo negli occhi. Quello sostenne lo sguardo.

– Va bene, allora se non ha bisogno di un avvocato, cominciamo. Poi ci sposteremo nella sua abitazione.

Non ci misero molto a perquisire l’ufficio e, com’era facile immaginare, non trovarono niente, a parte due proiettili calibro 38, in fondo a un cassetto della scrivania.

– Questi cosa sono? – chiese Fenoglio prendendo le munizioni.

– Due 38 wad cutter. Vado a sparare con degli amici al poligono, facciamo tiro pratico.

– Tu hai pistole, oltre a quella d’ordinanza?

– No. Uso quelle dei miei amici. Solo al poligono, beninteso.

– E come mai hai questi?

Savicchio si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso irridente.

– Lo sai come va, Fenoglio. Quando finisci di sparare ti rimane sempre qualcosa, in tasca, nel giubbotto. Piuttosto che buttarli per strada te li porti in ufficio e li lasci là, per usarli la prossima volta.

– Ovviamente non sono denunciati –. Mentre pronunciava quelle parole Fenoglio si sentí patetico. La detenzione di munizioni di armi comuni da sparo non denunciate è un reato minore, patteggiabile con una piccola pena pecuniaria. Il sorriso di Savicchio diventò piú esplicitamente beffardo. Ci voleva ben altro per farlo preoccupare, e fu in quel momento che Fenoglio ebbe una netta e spiacevole sensazione di inutilità. Savicchio era troppo tranquillo. Non avrebbero trovato niente, l’indagine si sarebbe impantanata e lui l’avrebbe fatta franca.

– Va bene, spostiamoci a casa, – disse la D’Angelo dopo qualche minuto, quando fu chiaro che in quell’ufficio non c’era niente da cercare e niente da trovare.

Savicchio abitava a Poggiofranco. Il quartiere del sogno di promozione sociale della borghesia barese negli anni Settanta. Il benessere raggiunto ma insicuro di sé, bisognoso di conferme.

Il palazzo era in un comprensorio con quattro edifici che si affacciavano su un giardino comune. C’erano uno scivolo, una piccola giostra e alcuni altri giochi per bambini. Una bambina bionda, molto bella, saliva sullo scivolo, si lasciava cadere, risaliva e di nuovo si lasciava cadere. Seria, con metodo, quasi stesse eseguendo un compito che le era stato affidato.

Insieme alla D’Angelo, oltre al capitano e a Fenoglio, c’erano Grandolfo e Montemurro.

L’appartamento era un attico dal quale si vedeva gran parte della città, composto di un salone, di una cucina-soggiorno e di una camera da letto. Ben arredato, in ordine, con un televisore costoso, un impianto stereo costoso (quello da cui veniva la musica heavy metal, pensò Fenoglio), mobili di buona qualità. Nel salone, poster di cinema incorniciati. Erano manifesti di film d’azione, western o polizieschi. Su uno scaffale c’erano un’enciclopedia, qualche codice, alcuni libri del Club degli Editori. La percezione complessiva era di una casa al di sopra del normale tenore di vita di un maresciallo dei carabinieri, ma non in modo clamoroso, non in modo da costituire una prova di imprecisati illeciti.

– C’è una cassaforte? – chiese Fenoglio.

– Sí, certo, – rispose Savicchio.

– Ce la fai vedere?

Quello si avvicinò a uno dei manifesti. Il braccio violento della legge, Gene Hackman che puntava la sua 38 verso qualcuno, con una faccia molto incazzata. Lo staccò dal chiodo, rivelando una cassaforte incassata nel muro. Armeggiò sulle manopole per comporre la combinazione; il congegno produsse il tipico scatto degli ingranaggi che vanno al loro posto, lo sportello si aprí.

C’era un milione in banconote da cinquantamila; gioielli e alcune sterline d’oro – erano di sua madre, disse; un libretto di risparmio con qualche milione e un paio di libretti d’assegni. Niente di significativo, niente di incompatibile con la normalità di uno scapolo che vive del proprio decoroso stipendio e che non ha particolari spese familiari.

– Ti dispiace staccare anche gli altri manifesti? – chiese Fenoglio dopo aver richiuso la cassaforte.

– Nessun problema, – rispose l’altro.

A uno a uno staccò il manifesto di GoodFellas, quello de Il mucchio selvaggio, quello di Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, quello del Padrino, quello di Fuga da New York, quello di Per un pugno di dollari. Alla fine le pareti rimasero nude, bianche, con le sagome appena visibili delle cornici. Dietro quei manifesti non c’era niente.

A quel punto, per dare un ordine alla perquisizione, spostarono specchi e arredi in tutte le stanze. Non c’erano altre casseforti, o nascondigli. Cosí cominciarono a cercare nei mobili, a partire dal salone, dove i ritrovamenti piú interessanti furono una collezione di cassette di film polizieschi, western, d’azione e un’altra di film porno d’importazione. Osservando i titoli dei film porno e le immagini sui contenitori delle cassette si intuiva una certa predilezione di Savicchio per i giochi con fruste, manette e maschere di lattice.

La cucina era quella di uno scapolo che mangia poco a casa. Il frigorifero conteneva birre, vino, champagne, acqua minerale, Coca-Cola, qualche yogurt, formaggio, del prosciutto crudo. Nella dispensa c’erano scatole di cracker, patatine fritte, sughi pronti e qualche conserva di pomodoro. Nella credenza c’erano pentole e piatti che avevano tutta l’aria di essere poco usati. Savicchio era a suo agio, ed era chiaro che la perquisizione non lo preoccupava per niente. Nessuno parlava, Fenoglio sentiva crescere un senso di frustrazione insopportabile e già si immaginava il momento in cui sarebbero usciti di lí, dopo aver chiuso un inutile verbale di perquisizione negativa.

La camera da letto aveva arredi neri, laccati, in bilico fra il pacchiano e il torbido, e un grande specchio sul soffitto. Quell’accessorio e la collezione di film porno fornivano qualche indicazione sui gusti dell’uomo Savicchio, ma purtroppo nulla di utile per il procedimento sull’indagato Savicchio.

Rovistarono fra camicie, magliette, mutande, calze, cravatte, asciugamani, lenzuola e abiti firmati, solo per scoprire che non nascondevano nulla. Spostarono il letto all’inutile ricerca di botole o altri congegni. Frugarono dappertutto nel bagno, dove riuscirono a scoprire una certa predilezione di Savicchio per i profumi costosi, le creme antirughe, gli oli per il corpo e in generale per prodotti cosmetici che non ti aspetteresti di trovare nella toilette di un carabiniere. Ancora una volta: cose utili per cogliere i connotati del personaggio, del tutto inutili per l’indagine.

Non c’è niente. In questa maledetta casa non c’è niente, pensò Fenoglio mentre Montemurro e Grandolfo ributtavano negli armadietti del bagno medicine, cosmetici, profumi e dopobarba. E nel caso remoto ci sia qualcosa, è troppo ben nascosta per riuscire a trovarla. Abbiamo fatto una cazzata con questa perquisizione, e adesso l’indagine è finita. Pensò a Pellecchia che di sicuro stava aspettando sulle spine. Pensò che era giusto dirgli subito come stavano andando le cose.

– Posso fare una telefonata, Savicchio?

– Certo, – disse l’altro con cortesia eccessiva e venata di sarcasmo, indicandogli un telefono cordless, sul comodino.

Fenoglio lo prese, si spostò su un balcone in ombra e chiamò. Pellecchia rispose dopo un solo squillo.

– Sí?

– Sono Pietro.

– Cosa avete trovato?

– Niente.

– Cazzo. Com’è la casa?

– Non ci sei mai stato?

– Mai stato a casa sua e lui mai a casa mia. Lo so che ti può sembrare strano, ma non eravamo amici.

– La casa è abbastanza normale, tutto sommato. Ha una collezione di film porno stile sadomaso, dei soldi e dei gioielli in cassaforte, ma niente di rilevante.

– Niente botole, niente cassetti segreti?

– Se ce li ha, noi non siamo stati capaci di trovarli.

– Ha cantine, box, posti auto?

– Adesso controlliamo ma ti devo dire una cosa. Anche se ce li ha, secondo me non troviamo niente. È troppo tranquillo, troppo sicuro di sé, sembra quasi che si stia divertendo.

Dall’altra parte venne un lungo sospiro di frustrazione. Fenoglio si immaginò Pellecchia che socchiudeva gli occhi e cercava di tenere a bada la rabbia.

– Fammi venire a dare un’occhiata. Solo un’occhiata, magari mi viene qualche idea. Magari no, e allora me ne vado subito senza dire una parola, senza fare casino.

Fenoglio stava per ripetergli di no, che non era opportuno e che non c’era nulla che lui potesse fare che loro non avessero già fatto. Poi qualcosa lo trattenne. In fondo la perquisizione era già finita, Pellecchia poteva passare mentre compilavano il verbale, a quel punto il rischio di incidenti era quasi nullo.

– Va bene, vieni, ma mi prometti di non toccare niente. Dài un’occhiata in giro e poi ce ne andiamo tutti insieme. Quanto ti ci vuole?

– Cinque minuti.

– Cinque minuti? Dove sei?

– Al Bar Moderno, a due passi da voi.