7.

La D’Angelo andò via con il fedele Calcaterra e altri due carabinieri che le erano stati assegnati dal colonnello in attesa delle decisioni della prefettura sul servizio di scorta e tutela. Nessuno pensava di sottovalutare le «cattive intenzioni» di Grimaldi nei confronti della magistrata.

Pellecchia e Montemurro accompagnarono Lopez nella caserma in periferia dove era stato alloggiato e dove di fatto veniva sorvegliato, pur non essendo sottoposto ad alcuna misura cautelare.

Il capitano invitò Fenoglio a prendere qualcosa al bar della caserma.

– A volte penso che nel nostro lavoro si mescolino la tragedia con il ridicolo, – disse svuotando un calice di prosecco.

– In che senso, signor capitano?

– Riflettevo su ciò che scriviamo nei verbali, nelle informative. Oggi, per esempio, in una frase attribuita a Lopez, si parla di «consorterie criminali». Ovviamente lui non ha idea di cosa significhi «consorteria», anche se, devo dire, è uno dei pregiudicati piú intelligenti che abbia mai incontrato.

Valente era proprio un ufficiale strano: pareva interpretare a fatica, senza riuscire ad abituarsi, un ruolo che non era il suo.

– Ha ragione, è un linguaggio surreale. Lei ha mai letto Calvino?

– Ai tempi del liceo. Ho letto Il barone rampante, ma non mi è piaciuto tanto. In realtà il mio preferito è Il cavaliere inesistente.

– Anche il mio. Ci siamo immedesimati in tanti in Agilulfo.

– Perché mi ha chiesto di Calvino?

– Molti anni fa scrisse un articolo su un quotidiano, non ricordo quale. Si immaginava la verbalizzazione di una testimonianza su un furto di fiaschi di vino. Il testimone diceva: stamattina presto; il brigadiere verbalizzava: nelle prime ore antimeridiane; il testimone parlava di accensione della stufa e il brigadiere verbalizzava: avviamento dell’impianto termico; il testimone diceva: ho trovato dei fiaschi di vino, e il brigadiere verbalizzava: sono casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli. E cosí discorrendo*.

Il capitano sorrise. – Molto verosimile.

– Sí, il verbale è del tutto verosimile e molto divertente. Se riesco a trovarlo glielo porto. La cosa piú interessante però è quello che dice Calvino sul perché i verbali vengono scritti in questo modo.

– Perché?

– Calvino parla di terrore semantico. L’idea è che la lingua dei verbali eviti le parole di significato comune e concreto perché chi scrive vuole inconsciamente sottolineare di essere su un piano superiore rispetto alle cose materiali di cui gli capita di occuparsi. Un tentativo di prendere le distanze dalla concretezza del mondo reale. Antilingua, la chiama Calvino. Una lingua lontana dai significati e dalla vita.

Il capitano si fece di nuovo riempire il calice. Bevve ancora un sorso. Fenoglio giocherellò con un’oliva e la mangiò. Per due volte l’ufficiale parve sul punto di dire qualcosa e per due volte ci ripensò.

– Sembra giusto, sí. Forse però semplifica troppo. Forse è un’impostazione un po’ ideologica.

Non c’era dubbio, faceva un certo effetto sentire un capitano dei carabinieri, un ufficiale di carriera, parlare di impostazioni un po’ ideologiche.

– Perché le sembra ideologica?

– Credo che ridurre tutto al presunto senso di superiorità del verbalizzante rispetto alla materia verbalizzata sia un po’, come dicevo, semplificante. Ci sono anche ragioni pratiche. Se devo fare un verbale riassuntivo, che per definizione non contiene parola per parola quello che è stato detto, sono costretto a usare parole che sintetizzano, anche se magari non corrispondono in pieno al lessico di chi parla.

– Sono d’accordo. Però bisogna essere molto consapevoli di quello che si sta facendo. La dottoressa è brava, Lopez è intelligente e questi verbali sono buoni. Tra l’altro, secondo me, lui è cosí svelto che impara mentre lei verbalizza. Non mi stupirei se a dibattimento lo sentissimo usare certe espressioni: cose come «consorterie criminali», tanto per dire.

Che dialogo stravagante, pensò Fenoglio. Sottigliezze linguistiche fra un capitano e un maresciallo dei carabinieri a margine dell’interrogatorio di un mafioso pluriomicida. Cronache di un mondo parallelo.

– Ma a parte la dottoressa e Lopez, – riprese Fenoglio dopo la sua rapida digressione privata, – non ci vuole niente, in generale, perché una verbalizzazione troppo formale, mossa dalle ragioni di cui parlava Calvino, tradisca il senso di quello che ha detto il teste o l’indagato.

Tacquero entrambi per un poco.

– Non è frequente l’opportunità di fare conversazioni del genere, in una caserma, – disse il capitano.

– In effetti no, – rispose Fenoglio.

– Da bambino facevo un gioco. Sceglievo una parola e la ripetevo ad alta voce tante volte, fino a quando non perdeva il suo significato e diventava solo una sequenza di lettere.

– Anch’io lo facevo, – disse Fenoglio.

– Sí, credo sia piuttosto comune. Qualche volta mi capita di farlo anche adesso. È interessante – fa pure un po’ paura – verificare quanto sia fragile il legame fra le cose e le parole. Il mondo si regge sul collegamento fra le parole e le cose e questo collegamento può essere infranto in due minuti con un gioco da bambini. Mi sono sempre detto: deve significare qualcosa, qualcosa di importante. Ma non sono mai riuscito a capire cosa.

La lingua è una convenzione, un patto implicito fra le persone. Nessuna legge di natura dice che a un certo oggetto corrisponde una certa sequenza di segni – lettere e vocali. Questo è l’aspetto affascinante e un po’ pauroso della questione. Fenoglio pensò queste cose, ma non le disse. Dopo una lunga pausa e dopo aver di nuovo vuotato il calice fu il capitano a parlare ancora.

– Non credo che sarò un ufficiale dei carabinieri per tutta la vita. Mi ci sono trovato, ma sin dall’inizio ho pensato di non essere adatto.

– Forse questa è filosofia a buon mercato, ma io credo che certi lavori dovrebbero essere fatti da quelli che non si sentono adatti, per usare la sua espressione. Sentirsi un po’ fuori posto aiuta, rende piú vigili. Uno che si sente molto adatto, per esempio, non nota l’assurdità del modo in cui scriviamo i verbali. Non nota i particolari importanti.

– Non avevo mai pensato alla cosa in questi termini.

– Neanch’io. È un’idea che mi è venuta parlando.

– Quanti anni ha, maresciallo?

– Quarantuno.

– Io ne ho trentacinque. Da ragazzo pensavo che a quest’età sarei stato un famoso attore di teatro. Lei?

– Pensavo che avrei voluto scrivere. Giornalista o romanziere era indifferente nella mia immaginazione. L’idea era che mi sarei guadagnato da vivere scrivendo, in un modo o nell’altro.

Valente annuí, come se quella fosse esattamente la risposta che si era aspettato.

– Per certi versi è quello che fa. Le sue informative sono le migliori che abbia mai letto.

Fenoglio era sempre stato a disagio con i complimenti. Non sapeva cosa dire e sentiva il bisogno di cambiare discorso.

– Posso farle una domanda, signor capitano?

– Certo.

– Dà del lei a tutti i subalterni, anche ai carabinieri di vent’anni. Perché?

Il capitano sorrise, come un ragazzino colto in fallo. – Mi rende antipatico, vero? Il personale pensa che voglia mantenere le distanze, che sia superbo, lo so. Ma voglio raccontarle un aneddoto. Una volta, quando ero bambino, andai con i miei genitori a far visita a dei loro amici. Erano proprietari terrieri, avevano una masseria e figli piú grandi di me: il maggiore poteva avere sedici anni. A un certo punto sentii questo ragazzo che dava del tu – e impartiva degli ordini – a un vecchio contadino, che invece si rivolgeva a lui con il voi. Non ho mai dimenticato il senso di disagio che mi diede quella scena. Forse è per via di questo episodio che non mi riesce di dare del tu se non posso dire al mio interlocutore di fare lo stesso con me. E credo lei converrà che non sarebbe una buona idea se dicessi a tutto il personale che possono dare del tu al capitano.

– No, in effetti non sarebbe una buona idea, – rispose Fenoglio sorridendo.

* L’articolo di Italo Calvino dal titolo L’antilingua è stato pubblicato per la prima volta in «Il Giorno», 3 febbraio 1965, poi in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 2001.