4.

All’una e mezza Fenoglio chiuse il fascicolo che stava esaminando, chiuse il blocco per gli appunti, prese un libro dalla piccola biblioteca che teneva in ufficio e andò a mangiare.

La trattoria era in corso Sonnino, a cinque minuti dalla caserma. Un posto frequentato soprattutto di sera e a Fenoglio piaceva proprio per questo: a pranzo di solito c’era poca gente, lui poteva sedersi sempre allo stesso tavolo, trattenersi quanto voleva, leggere, ascoltare musica sul walkman.

Andava a pranzo in quel piccolo ristorante quasi tutti i giorni, da quando Serena era andata via; due mesi, ormai. Ho bisogno di fare una pausa, gli aveva detto, scusandosi subito dopo per la frase banale. Avevano dato troppe cose per scontate, che non è mai una buona idea, e a un certo punto si era resa conto del rancore, come di una macchia sulla pelle: ti sembra che il giorno prima non ci fosse, però non può essersi formata in una sola notte. Si sentiva in colpa, per quel rancore, se ne vergognava, aveva cercato di razionalizzare, aveva cercato di spiegare a sé stessa che era una reazione ingiusta, ma razionalizzare non serve mai in questi casi. Lui non le aveva chiesto le ragioni di quel sentimento, che negli ultimi mesi aveva percepito cercando di non farci caso, cercando di ignorarlo. Pessima strategia. Non le aveva chiesto le ragioni perché le intuiva e al tempo stesso perché aveva paura di sentirle nominare. Il lavoro, certo. Quel suo essere sempre fuori casa, giorno, notte, domeniche, giorni festivi, non facilitava la vita in comune. Ma non era il lavoro, la questione principale, il tema doloroso, il rovello irresolubile.

La questione principale era semplice e spietata, tutto il resto era accessorio: lui non poteva avere figli, lei invece sí. I medici erano stati chiari e unanimi sul punto. Era quella possibilità biologica inespressa, che si riduceva di anno in anno e che presto sarebbe scomparsa, il grumo angoscioso, la fonte della rabbia, il motivo di una decisione che nella sua dichiarata provvisorietà sembrava già prendere la forma di una condanna irrevocabile.

Mentre lei parlava Fenoglio aveva provato l’impulso fortissimo di abbracciarla e dirle quanto la amava, e di prometterle, e di pregarla di non andare via, ma non aveva trovato il coraggio, e non aveva trovato cosa prometterle, e non aveva trovato le parole. Non era mai stato capace di manifestare i sentimenti, come per un doloroso mutismo, per un ritegno che poteva sembrare freddezza. Forse, a pensarci bene, era questo il problema piú grave, piú ancora dell’impossibilità di avere figli. Del resto lei lo aveva appena detto: non bisogna dare le cose per scontate. Intendeva: non bisogna dare le emozioni e i sentimenti per scontati. Vanno condivisi, vanno detti e resi tangibili. Non bisogna dare l’amore per scontato.

Cosí aveva risposto soltanto che va bene, avrebbero fatto come voleva lei, sarebbe andato via di casa al piú presto. Serena aveva replicato, con un tono in cui si mischiavano colpa, dolcezza triste e sollievo inconsapevole, che era lei a dover andare via. Il problema era suo, era lei ad averlo creato ed era lei a doverlo risolvere, anche dal punto di vista pratico. Avrebbe abitato a casa di un’amica che si trasferiva a Roma per lavoro. Poi a luglio c’erano gli esami di maturità, avrebbe fatto la presidente di commissione da qualche parte nel Centro Italia. L’estate sarebbe passata e qualche mese era il tempo giusto per capire, per decifrare, eventualmente per decidere.

Hai un altro? Farai un figlio con un altro e io impazzirò di dolore?

Le stesse parole che gli erano apparse nella testa, come una scritta muta, quel pomeriggio a casa con Serena, gli affiorarono sulle labbra, al tavolo della trattoria al culmine di quell’eruzione di ricordi.

Il cameriere si era materializzato vicino al tavolo: il piatto del giorno era riso patate e cozze. Fenoglio non l’aveva visto arrivare, cosí disse imbarazzato che riso patate e cozze andava bene, senza ascoltare il resto del menu. Aveva parlato da solo e quello se n’era accorto? Aveva fatto la figura del lunatico in libera uscita?

Gli tornò in mente un episodio di qualche anno prima. Era in libreria, c’era poca gente e a un certo punto fece caso a una signora sui cinquant’anni. Era sola e parlava, a voce bassa ma perfettamente udibile a distanza ravvicinata.

Allora sarei io la stronza? No, lo stronzo sei tu. Ti guardo nelle tasche perché ho delle buone ragioni per farlo. Non vuoi dirmi perché avevi la ricevuta di quel ristorante? Io avrei violato il nostro patto di reciproco rispetto? Non sei tu che ti sei scopato quella studentessa? Eh no, col cazzo che adesso mi dici che te ne vai e basta, è troppo facile dopo che mi hai rubato quasi vent’anni di vita, tutti buttati. Non ti rendi nemmeno conto di quali cose schifose sei capace di dire? Un uomo ha dei bisogni che una donna non capisce? Io dovrei essere felice di aspettarti a casa mentre tu puoi scoparti colleghe e studentesse perché hai delle esigenze? Tutta la vita, tutto l’amore, tutta la dedizione, tutto il desiderio di bellezza trasformati in materia da urologi. Che schifo. Che schifo.

Andò avanti per qualche minuto, con la parola schifo che diventava sempre piú frequente. Fenoglio era rimasto ipnotizzato da quel soliloquio, da quello spaccato improvviso e impressionante sulla desolazione di un’anima. Era andato a prendersi un caffè e mentre era al bancone del bar aveva pensato a quello che aveva visto e sentito e, commentandolo mentalmente, aveva cercato interpretazioni e alternative. Un’abitudine che era quasi una nevrosi. Magari l’uomo non era cosí stronzo. Magari quella ricevuta era per un pranzo di lavoro e lui si era solo ribellato a un’intrusione nella sua sfera privatissima e aveva ritenuto non dignitoso rispondere alle accuse. Magari lei era pazza, e in effetti parlava da sola in quel modo. Chissà qual era la verità, ammesso che ce ne fosse una sola.

Nel bel mezzo di queste riflessioni, che assumevano la forma di un vero e proprio discorso, ordinato, scandito da domande e risposte e punteggiatura, Fenoglio fu colpito da un pensiero, come una sassata su un vetro. Anche lui stava parlando da solo, cosa che peraltro gli accadeva spesso. Forse in quella specifica occasione non aveva mosso le labbra per accompagnare il dialogo interiore, ma in altri casi era di certo accaduto. Serena glielo faceva notare: stai parlando da solo. Davvero? Come no, cambi anche espressione, gesticoli.

Come la donna nella libreria, appunto.

Il confine che separa i matti dai normali ci sembra netto, consistente, difficile da valicare. Invece è sottilissimo e in alcuni punti – in alcuni momenti – sfuma senza che ce ne accorgiamo. Ci troviamo nel territorio dei pazzi senza capire com’è successo – e del resto i pazzi lo sanno di essere da quelle parti?

Pensò di leggere qualche pagina del libro, ma arrivò il cameriere con il piatto di riso patate e cozze e la solita birra. Il cibo lo restituí a una rassicurante dimensione materiale e quando uscí dalla trattoria il disagio si era attenuato fin quasi a sparire.

Era stata una cosa momentanea, naturalmente. Ma non lo sono tutte?