12.
La D’Angelo e Fenoglio si ritrovarono nell’ufficio del capitano. Valente si era dovuto allontanare per un impegno imprecisato ma aveva messo a disposizione la sua stanza, che ovviamente era la piú confortevole del nucleo.
– Che ne pensa? Gli crede? – chiese la D’Angelo lasciandosi cadere in una poltrona.
Fenoglio represse l’impulso a dire che lui l’aveva pensato subito, che non erano stati Lopez e i suoi.
Non prendere un’indagine come l’occasione per dimostrare che sei piú bravo degli altri, si ripeteva spesso. È una delle ragioni – forse la principale – per cui si commettono gli errori piú gravi, con innocenti dietro le sbarre e criminali in libertà.
Però sí, lo aveva pensato subito, anche se poi aveva archiviato quell’idea come il riflesso della sua tendenza a dubitare di tutto e in particolare delle soluzioni troppo ovvie. Il fatto è che di regola le soluzioni che sembrano ovvie sono anche quelle giuste. Nella maggior parte dei casi gli eventi e i comportamenti umani seguono percorsi lineari e le cose sono proprio come sembrano. Di conseguenza la maggior parte dei casi si risolve proprio cosí, prendendo atto dei dati statistici e applicandoli alle situazioni concrete. La stragrande maggioranza degli omicidi è commessa da individui di sesso maschile, che la vittima già conosceva. Questa è la premessa ovvia di qualsiasi indagine su una morte violenta, di cui ogni investigatore deve tenere conto nel formulare e nel verificare le sue ipotesi. Quasi sempre i fatti si sono verificati coerentemente alle statistiche, e non bisogna dimenticarlo.
Quasi sempre. Neanche questo bisogna dimenticarlo.
– Mi sembra credibile. Certo, ammettere di essere responsabili della morte di un bambino non è facile, a prescindere dalle conseguenze pratiche. Quindi il suo ragionamento – cosa ci guadagnerei a negare, visto che mi sono già accusato di reati da ergastolo? – ha senso ma non è definitivo. Ci sono cose difficili da ammettere perché rischiano di incrinare l’immagine che hai di te stesso. Del tipo: sono un criminale ma non me la prendo con donne e bambini. Detto questo, io gli credo. Fra l’altro quello che dice è convincente: se in qualche modo salta fuori che sono stati loro – magari decide di collaborare uno dei Losurdo – Lopez perde tutto. Lui è intelligente, non credo che correrebbe un rischio del genere.
La D’Angelo accese un’altra sigaretta. Disse meccanicamente sí grazie all’appuntato che si era affacciato per chiedere se volessero un caffè, sistemò una ciocca di capelli con l’anulare della mano che teneva la sigaretta.
– E se nega perché teme la vendetta di Grimaldi?
– Quella deve temerla comunque. Gli ha ammazzato degli uomini, gli ha rubato la droga, gli ha rovinato la reputazione mafiosa e fra poco lo farà andare in galera. Mi sembra piú che sufficiente perché il Biondo voglia vederlo morto.
– Ha ragione. È che mi ero convinta di poter chiudere il caso del piccolo Grimaldi e non riesco a rassegnarmi al fatto che non sia cosí.
– Lo capisco. Però non è che dobbiamo rassegnarci a non prenderli, quelli del bambino.
La D’Angelo aspirò il fumo e, con lo stesso gesto di prima, si sistemò di nuovo la ciocca portandola dietro l’orecchio.
– In effetti a carico di Lopez e compagni non c’è assolutamente nulla, sul sequestro. Nemmeno un principio di indizio. Nessuno può dirci che abbiamo trascurato qualcosa per dare credito al collaboratore a tutti i costi. Glielo abbiamo chiesto, abbiamo anche insistito e lui ci ha detto che non è stato lui, peraltro accusandosi di reati gravissimi per i quali non era nemmeno sospettato. La motivazione dei provvedimenti, sul punto dell’attendibilità di Lopez, è tutta qua. Gli avvocati potranno agitarsi un poco, ma non c’è nulla che possano utilizzare concretamente contro di lui.
– È cosí.
Era cosí. Perché allora anche lui si sentiva a disagio? Non era una domanda difficile, in realtà. Avrebbero continuato ad ascoltare i racconti di Lopez; avrebbero indagato per trovare le necessarie conferme; avrebbero arrestato un mucchio di gente assestando un colpo micidiale a quella mafia tanto stracciona quanto pericolosa. Ma la piú oscura delle vicende accadute in quei giorni sarebbe rimasta fuori dal cerchio rassicurante delle indagini che dànno senso ai fatti e placano l’ansia.
Fenoglio sapeva benissimo che quel caso lo avrebbe ossessionato fino a quando non fossero riusciti a risolverlo. Il problema era: non esisteva nessuna certezza che sarebbero riusciti a risolverlo. Non esiste mai.
L’appuntato entrò nella stanza con un vassoio sul quale c’erano due caffè e anche due piccole pastiere napoletane.
– Non dovete mettermi davanti questa roba. Sono golosa e sono grassa, – disse la D’Angelo accennando un sorriso nervoso e prendendo il dolce.
Poi bevve il caffè e si accese l’ennesima sigaretta. Fenoglio pensò che fumava davvero troppo. Come Serena.
Serena. Fitta nello stomaco. Chissà dov’era, in quel momento.
– C’è una cosa che volevo chiederle da tempo. Lei è piemontese, vero? – disse la D’Angelo, interrompendo sul nascere quella cogitazione dolorosa.
– Sí, di Torino.
– È una domanda stupida, ma gliela faccio lo stesso perché Beppe Fenoglio è uno dei miei scrittori preferiti. C’è qualche rapporto di parentela?
– Nella mia famiglia qualcuno diceva che siamo parenti alla lontana. Io francamente non ci ho mai creduto. Quando sei omonimo di un personaggio famoso e vieni dalla stessa zona c’è sempre uno della famiglia che dice che siete parenti. È un modo per darsi importanza.
La D’Angelo giocherellò con la sigaretta fumata a metà, osservando la brace come se nascondesse un mistero decisivo.
– Però un po’ vi somigliate.