6.

Fenoglio camminò fino a casa, cioè per circa tre chilometri e mezzo. Entrando dovette reprimere la consueta ondata di angoscia che gli dava l’appartamento senza Serena, anche se negli ultimi giorni la situazione sembrava un po’ migliorata: l’urto era meno violento e il senso di vertigine meno intenso.

Fece una doccia, si cambiò, mise gli abiti sporchi nel cesto della biancheria. Sei spacciato, se ti lasci andare. Cominci a raderti male, indossi la stessa camicia per tre giorni, parlare da solo diventa un’abitudine. Dicono che è come una malattia, quando si viene lasciati. C’è una fase acuta, poi c’è la convalescenza. Non voleva farsi sorprendere dalla guarigione ridotto come un miserabile. E per guarire non doveva a tutti i costi scacciare il pensiero di Serena. Scacciare equivale a prendere un analgesico il cui effetto dura solo qualche minuto. Dopo il dolore torna piú forte. Quando il pensiero arriva bisogna lasciarlo andare, senza cercare di fermarlo o di controllarlo. Il problema è che vorremmo controllare tutto: un’idea stupida, inutile e dannosa. Occorre avere l’attitudine opposta, accettare il fatto che nessuno ha davvero il controllo sulla propria vita, cosí gli aveva detto una volta il barista Nicola, del Caffè Bohème. Era stato alcolizzato e una sera, in orario di chiusura, aveva raccontato a Fenoglio di come ne era uscito frequentando le riunioni degli Alcolisti Anonimi e seguendo il loro programma dei Dodici Passi. Un giorno alla volta. Aveva anche aggiunto che è buona regola non prendere nulla sul piano personale. Pensiamo che tutto ruoti attorno a noi: sia quello che gli altri fanno sia quello che non fanno. Non è vero quasi mai. I fatti accadono e basta; gli altri, perlopiú, si disinteressano di noi, nel bene e nel male. Giusto, gli aveva risposto Fenoglio, alzandosi e salutandolo sulle note dell’Intermezzo di Manon Lescaut.

Dunque era sabato. L’aria era tiepida. La serata ideale per andare a mangiare una buona pizza e a vedere un film in un cinema all’aperto.

Da solo.

Va bene, da solo. Per qualche istante pensò di chiamare Pellecchia. Ciao Tonino, ho deciso di accettare l’offerta, per piacere puoi chiedere alla tua compagna di invitare un’amica?

Gli venne da piangere, un’esperienza non consueta per lui. Per fortuna era solo. L’ultima volta che qualcuno l’aveva visto piangere era stato quando era morto suo padre. Aveva quella strana, stupida convinzione che piangere non fosse dignitoso. Un problema di vanità, in fin dei conti.

Potrei chiamare la D’Angelo. Forse è sola anche lei, magari non le dispiace. L’idea durò solo qualche secondo di piú.

Vai a mangiare la pizza, poi al cinema, poi a dormire. Domani si pensa. Un giorno alla volta, come dice il barista Nicola.

Fece cosí. Andò in un locale in centro, vicino alla stazione. Mangiò una pizza e bevve un paio di birre. Poi si spostò a qualche centinaio di metri per vedere cosa davano all’Arena. C’era Robin Hood, principe dei ladri, con Kevin Costner. Un film dell’anno prima, che stranamente si era perso. Stranamente, perché Robin Hood era uno dei suoi personaggi preferiti. Comprò il biglietto; dopo un attimo di esitazione – Serena avrebbe disapprovato – comprò un’altra birra gelata e si immerse nell’atmosfera irreale e fuori dal tempo della vecchia arena. Il film era buono, Kevin Costner bravo, anche se nessuno mai potrà interpretare Robin Hood meglio di Errol Flynn, ma il personaggio piú bello era quello di Morgan Freeman. Grande attore, pensò Fenoglio, prima o poi avrebbe vinto l’Oscar.

Quando tornò a casa era quasi di buon umore. Andò a dormire dopo essersi lavato i denti e aver ripiegato con cura i pantaloni su una sedia. Prima di prendere sonno si disse che Serena avrebbe apprezzato. Se fosse tornata non l’avrebbe trovato come un barbone.

La mattina seguente si svegliò tardi, cosa strana. Gli fece piacere. Uno degli aspetti sgradevoli dello svegliarsi presto, quando non c’è ancora luce, è che ci si confronta con l’angoscia. Di regola vince lei, almeno finché rimani nel letto. Se ti svegli e scopri che, per dire, sono le nove e mezza, significa che sei sfuggito ai tentacoli della notte, puoi persino permetterti di rimanere ancora un poco a oziare. Cosí accese la radio e restò a letto un’altra mezz’ora, scivolando, con meno sforzo delle settimane passate, sulle ondate di ansia che si propagavano dal lato vuoto del letto.

Infine si alzò, fece la doccia, si preparò la colazione. Dopo aver mangiato mise tutto a posto e decise di non scappare via per sfuggire alla solitudine. Prima di tutto non sarebbe andato in ufficio, come aveva fatto quasi tutte le domeniche di quel primo segmento d’estate. Avrebbe letto, avrebbe ascoltato della musica, avrebbe visto il telegiornale, avrebbe pranzato e sarebbe uscito a fare una passeggiata solo nel pomeriggio. Durante la passeggiata avrebbe cercato di riordinare le idee sull’indagine del bambino. Forse però riordinare non era la parola giusta. Non c’erano tante cose da mettere in ordine, in verità. C’era piuttosto da tirar fuori un’ipotesi su cui si potesse lavorare concretamente. Cosa che fino a quel momento non gli era riuscita.

Ascoltò per due volte di seguito il Concerto Imperatore di Beethoven e lesse per un po’ La vita interiore di Moravia, trovandolo molto noioso. Alla fine cedette, passò a un libro di Bertrand Russell – Scienza e religione – e la lettura diventò piú piacevole. Sottolineò diverse frasi e una in particolare la segnò a margine della pagina, con un punto esclamativo: «Verso la fine del XVI secolo, Flade, rettore dell’università di Treviri, nonché supremo giudice della corte elettorale, dopo aver condannato un numero indefinito di streghe, iniziò a pensare che forse le loro confessioni fossero dovute al desiderio di evitare la tortura della ruota, e di conseguenza si dimostrò restio a condannarle. Fu accusato di essersi venduto a Satana e sottoposto alle stesse torture che aveva inflitto in precedenza alle sue vittime. Come loro confessò la propria colpa, e nel 1589 fu prima strangolato e poi bruciato»*.

All’una smise di leggere, spense lo stereo e si trasferí in cucina dove si preparò una frittata con le patate; mangiò, vide il telegiornale, prese il caffè, ripulí, lasciando tutto in perfetto ordine. Per un attimo pensò seriamente che se Serena fosse tornata senza preavviso non avrebbe trovato il lavandino colmo di stoviglie e posate sporche. Poi si ricordò che lei era a Pesaro per gli esami di maturità – gli aveva telefonato qualche giorno prima per avvertirlo, e lui non aveva saputo decifrare il tono esitante della sua voce, la nota inespressa.

Uscí. Fuori il tempo era incerto, non sembrava luglio, l’aria aveva la freschezza ambigua di settembre. Non aveva mai amato i colori violenti, i contrasti netti, l’assenza di dubbi e di malinconia dell’estate piena. Settembre invece gli era sempre piaciuto, sin da ragazzino. Era un mese elusivo, difficile da classificare. In quel vecchio gioco – se fossi un treno? se fossi un animale? se fossi un fiore? – quando la domanda era: se fossi un mese? lui rispondeva sempre settembre.

Settembre è il mese delle nuove responsabilità, aveva detto qualcuno. Sembrava una definizione giusta e responsabilità era una parola che gli piaceva. Ci aveva riflettuto spesso: odiava l’idea del senso di colpa e amava quella del senso di responsabilità.

Passò davanti a un condominio di via De Ruggiero. Uno di quei bellissimi complessi di case popolari degli anni Venti, con grandi appartamenti dagli alti soffitti, grandi finestre, scale luminose. C’era una coppia di sessantenni che aveva vissuto lí dentro per trentacinque anni. Avevano avuto due figlie che si erano sposate ed erano andate via. Una coppia normale, per i vicini, anche se molto riservata – non davano confidenza a nessuno. Una mattina la donna si era presentata alla stazione dei carabinieri di viale Unità d’Italia. Indossava una vestaglietta sporca di sangue. Ho ucciso mio marito, aveva detto depositando un martello, anch’esso sporco di sangue, sulla scrivania di un esterrefatto brigadiere. A quel tempo Fenoglio era appena arrivato al nucleo operativo. Fu lui, con due colleghi e la donna, a entrare nell’appartamento e a trovare il marito, in canottiera, seduto in poltrona davanti al televisore ancora acceso. A prima vista sembrava assopito, vicino a lui una tazzina di caffè e un posacenere pieno di cicche. Piú da vicino si vedeva il cranio sfondato. Negli occhi sbarrati c’era uno stupore infinito.

La donna era tranquilla, non diceva nulla. Quando le chiesero perché l’aveva fatto si alzò dalla sedia, si sollevò la camicia e fece vedere i segni delle frustate. Poi i segni delle bruciature. E raccontò della sua vita con quell’uomo che qualche ora prima aveva ucciso a martellate. Non volevo piú tutte quelle cose, disse. Mi sono svegliata e ho pensato che non volevo che mi facesse ancora quelle cose. Allora ho preso il martello e quando lui ha finito il caffè ho fatto quello che ho fatto. Era serena. La cosa piú strana era che comunicava serenità. Come se il suo gesto avesse rimesso a posto un pezzo di mondo.

Erano cose accadute tanto tempo prima. O forse no, non era tanto. Il tempo – tanto o pochissimo – dipende da come lo misuri.

Comunque sia, fu un’indagine facilissima. Anzi, a ben vedere, non fu nemmeno un’indagine, visto che il caso era già risolto nel momento stesso in cui la donna si era presentata in caserma.

In una ipotetica scala della difficoltà investigativa, quell’omicidio valeva uno; la morte del piccolo Grimaldi valeva dieci. Serviva a qualcosa ciò che avevano appreso sui sequestri della Patruno e di Angiuli? L’episodio di Japigia sembrava proprio un’altra cosa. Gente del posto, quasi di sicuro. Soggetti che si muovevano per le strade del quartiere come predatori nel loro territorio. Molto improbabile – se l’erano già detto con Pellecchia – che personaggi di Japigia si fossero spostati nella zona nord per sequestrare addirittura il figlio del capo clan che governava quel pezzo di città.

Il caso del costruttore, invece, sembrava meno riferibile a un’azione territoriale. Gli autori erano meno balordi e piú cattivi; non parlavano in dialetto; erano violenti, anche piú di quanto fosse necessario; si erano preoccupati di tenere sotto controllo il sequestrato con legacci o manette di plastica e benda sugli occhi, mentre non avevano preso troppe precauzioni per incassare il prezzo del rilascio. Queste due cose erano in qualche modo contraddittorie: piú cautela nel controllo della vittima, meno cautela in una fase estremamente delicata come il recupero del denaro. L’opposto del modus operandi di quelli di Japigia, meno preoccupati del controllo della vittima, piú attenti al recupero.

Cosa significava questa differenza? Ammesso che fosse rilevante. Come aveva raccontato Lopez, i sequestri brevi erano diventati un’attività diffusa, conveniente e poco rischiosa. Dunque, riflettere su cosa significassero quelle differenze poteva rivelarsi un esercizio inutile.

Gli tornò in mente l’apologo dell’ubriaco che ha perso le chiavi di casa e le cerca per strada, sotto un lampione. Le cerca ma non le trova. A un certo punto un passante gli chiede cosa stia facendo e lui, appunto, gli risponde che ha perso le chiavi e le sta cercando. Le hai perse sotto questo lampione?, gli domanda il passante. No, le ho perse in quel vicolo, risponde l’ubriaco. E allora perché le cerchi qua? Perché qua c’è luce e lí è buio e non si vede niente. Una storiella molto, molto arguta. Spiega quello che facciamo spesso, senza rendercene conto, quando cerchiamo di risolvere un problema senza averne le coordinate. Cerchiamo dove c’è luce, anche se è esattamente il modo per non risolvere il problema.

Fenoglio aveva raggiunto corso Cavour. Il cielo adesso era coperto e il vento era diventato piú fresco. Arriva il maestrale, si disse infilando la giacca che fino a quel momento aveva portato sulla spalla.

Si sentí chiamare.

– Maresciallo! – la voce era cosí carica di accento da sembrare caricatura. Si voltò e riconobbe Albanese Francesco, rapinatore maldestro.

– Buongiorno, marescia’.

Fenoglio gli sorrise. – Non riesci a togliertelo questo accento di Bolzano.

L’altro lo guardò per qualche istante, perplesso. Poi capí la battuta e sorrise anche lui.

– Sei fuori, allora?

– Sí, marescia’, ho fatto il patteggiamento, come mi avete detto voi. Mi hanno dato un anno e siccome ero incensurato mi hanno liberato subito.

Fenoglio lo fissò per qualche istante. – E che fai adesso?

– Rapine non ci provo piú, giuro. Faccio le sigarette, qualche volta un po’ di fumo.

– Un lavoro normale no?

– Un lavoro normale? E che fate, mi assumete voi? Faccio anche il posteggiatore.

– Abusivo.

– Vabbun’, abusivo sí. Ma mi comporto bene. Prima di tutto non pretendo. Se mi vogliono dare qualcosa, a piacere, bene. Se no, non dico niente, non minaccio. Niente. Se mi lasciano le chiavi, le uso solo per parcheggiare la macchina che sta in doppia fila, per non far fare la multa. Sono onesto.

– Vuoi un caffè, Albanese? – Ecco, una qualità che sicuramente Fenoglio possedeva era di non dimenticarsi mai una faccia e un nome, e una faccia accoppiata a un nome. Gli veniva spontaneo ed è una cosa che aiuta in molti lavori. In quello dello sbirro in particolare, per molte ragioni. Alcune ovvie, altre molto meno ovvie.

Albanese sorrise, stupito. – Grazie, maresciallo, un caffè non si rifiuta mai.

Entrarono alla Saicaf. Il ragazzo salutava tutti come un cliente abituale e tutti lo salutavano cordialmente.

– Ti conoscono qua, eh? – chiese Fenoglio.

– Mi conoscono, e lo sanno che si possono fidare. Se magari gli rubano il motore a qualcuno, tutti mi chiedono a me e tante volte glielo faccio ritrovare.

– Cosí, per amicizia, vero?

– Vabbe’, poi magari mi fanno un regalo.

– Bravo, cosí prima o poi ti ritrovi arrestato per concorso in estorsione.

– E che c’entra l’estorsione? Io faccio solo qualche piacere.

Fenoglio decise di lasciar perdere. Non era il caso di impegnarsi in sottili questioni giuridiche sul concetto di concorso nell’estorsione da parte dell’intermediario. Quando uscirono Albanese riprese a parlare.

– Voi dite che io sono abusivo. Va bene, sono abusivo. Ma lo sapete che fanno quelli dei parcheggi autorizzati, tutti regolari, col permesso del comune? Quelli alla stazione o vicino al porto.

– Che fanno?

– Si fanno lasciare le chiavi, se il parcheggio è pieno. Sembra che stanno facendo un piacere, tanto sono autorizzati dal comune, c’hanno pure la divisa, no? – Fece una pausa, come se aspettasse una conferma da Fenoglio sul fatto che erano autorizzati dal comune o chissà che altro.

– E allora?

– E allora gliele fanno prendere ai loro amici pregiudicati, le macchine, quando devono andare a fare qualche cosa. Una consegna, una rapina, qualche cosa. Cosí c’hanno la macchina pulita e se uno prende la targa sono cazzi vostri, del padrone voglio dire. Voi magari siete partito, col treno o con la nave, pensate che la macchina sta al sicuro e invece è diventata un taxi dei malamente.

Adesso Fenoglio era interessato.

– E lo fanno alla stazione e al porto?

– Sí, lo fanno sempre. I posteggiatori non abusivi, con la divisa del comune, avete capito. Che la gente si pensa che se c’hai una divisa sei una persona per bene e ti puoi fidare, e se non ce l’hai – come me – sei un delinquente. Voi non ve lo immaginate le porcherie di quelli con le divise. Quando facevo il militare certe merde di marescialli – senza offesa per voi, è chiaro – si rubavano la benzina, si rubavano le cose da mangiare, si rubavano pure le coperte…

Il ragazzo continuò il suo discorso, ma il maresciallo aveva smesso di ascoltare.

Poco dopo si salutarono. Fenoglio avrebbe potuto riferire parola per parola quanto il ragazzo aveva detto fino a un certo punto. Nulla dell’ultima parte della conversazione.

Perché a sentir parlare di delinquenti in divisa gli era venuta un’idea. Una di quelle per cui è inutile pensare che è domenica e che adesso te ne torni a casa a vedere la tv o continui la tua passeggiata e magari te ne vai di nuovo al cinema o altro.

Mentre pensava queste cose aveva già imboccato via Imbriani diretto in caserma. Doveva fare dei controlli. E doveva farli quel pomeriggio, neanche a parlarne di aspettare l’indomani.

* B. Russell, Scienza e religione, trad. di P. Vittorelli, Longanesi, Milano 1974.