12.

Fenoglio lo sapeva già che il bambino era morto. Se rapiscono qualcuno, chiedono un riscatto, il riscatto viene pagato e il sequestrato non torna a casa in tempi brevi, significa una cosa sola: è morto.

Non c’è alcun motivo plausibile per cui un sequestratore dovrebbe continuare a tenere con sé la persona rapita – materiale pericolosissimo da custodire – una volta ottenuto ciò che voleva.

Lo sapeva già, e allora non avrebbe dovuto sentire quella botta sotto lo sterno, come se qualcuno gli avesse dato un pugno; non avrebbe dovuto percepire quel senso insopportabile di rabbia, di vuoto, di inutilità; non avrebbe dovuto avvertire quella debolezza inconfessabile nelle gambe, come se fossero pronte a cedere. Nulla di tutto questo sarebbe dovuto accadere, pensava, pizzicandosi il mento e le guance mentre l’auto con il lampeggiante acceso – ma senza la sirena – attraversava la campagna luminosa e stranamente livida. In macchina c’erano anche il capitano Valente e Pellecchia; Montemurro guidava; nessuno parlava.

Quando arrivarono sul posto, alcune auto e un furgone dei vigili del fuoco erano già lí. Scendendo dal mezzo furono avvolti da un silenzio primordiale. Non c’erano rumori di macchine – la strada provinciale era lontana – e nessuno parlava. Ogni tanto una folata di vento passava tra le foglie degli ulivi e il fruscio sembrava il faticoso respiro del tempo.

Per arrivare al pozzo bisognava percorrere un sentiero stretto, una striscia bianca e sinuosa fra alberi e zolle di terra marrone, quasi rossa. Ci avevano già camminato in tanti, su quel sentiero e su quelle zolle. Ogni eventuale traccia di chi aveva portato lí il bambino era irrimediabilmente persa.

Il pozzo aveva un diametro di circa un metro, nel mezzo di un quadrato di cemento vecchio, di lato un coperchio di metallo. Fenoglio pensò che avrebbe voluto essere altrove. Sapeva quello che avrebbe visto di lí a pochi minuti, e non aveva voglia di vederlo. Sapeva che odore avrebbe sentito, e non aveva voglia di sentirlo. Sapeva che sarebbe toccato a lui andare dai genitori del bambino, e non aveva voglia neanche di questo.

Si avvicinò all’apertura e guardò in basso. Era buio. Nero. Nero, ripeté mentalmente, come se si trattasse di un’intuizione capitale.

Tutto nero.

Qualcuno disse qualcosa che Fenoglio non sentí; qualcuno puntò una torcia potente all’interno del pozzo. Adesso si distingueva quello che pareva un corpo, piegato in una posizione innaturale. Certo che era in una posizione innaturale. Era morto. Cosa c’è di piú innaturale della morte? Maledizione.

I vigili del fuoco erano pronti a scendere. Aspettavano solo l’autorizzazione.

– Il magistrato sta arrivando, – disse Fenoglio, sentendo la sua voce come fosse stata quella di un altro.

Subito prima di partire dalla caserma aveva chiamato la D’Angelo, l’aveva avvertita, le aveva chiesto se voleva essere presente. Se preferiva, avrebbero provveduto loro a tutto. La pm gli aveva risposto di mandarle subito la macchina.

Arrivò il medico legale di turno. Salutò i presenti con un cenno del capo. Non ci furono strette di mano. Nemmeno lui sembrava entusiasta di partecipare a quell’intervento.

Alcuni minuti dopo arrivò la D’Angelo. Percorse il sentiero bianco fra due carabinieri in divisa molto alti, e la sequenza contribuí a enfatizzare il tono tragicamente surreale della situazione. Scambiò qualche parola con il capitano che incontrava per la prima volta e disse che si poteva procedere. Il medico legale offrí ai presenti una specie di balsamo dall’odore fortissimo di mentolo. Da mettere sotto il naso, per vincere il tanfo della morte. Fenoglio non lo prese. Sapeva che non serviva. Anzi era peggio. Dopo, per ore o addirittura per giorni, l’odore osceno che pensavi di avere sconfitto ti rimaneva addosso comunque. Sugli abiti, sulla pelle, nella testa. Allora tanto valeva evitarsi l’unguento, che era quasi altrettanto nauseante.

Un vigile del fuoco piccolo, magro, scuro di carnagione, si calò nel pozzo con un fazzoletto che gli copriva la bocca e il naso – come i banditi dei film western, pensò incongruamente Fenoglio – e con un’imbracatura per il cadavere. Lavorò lí sotto per un paio di minuti, poi uscí. Era grigio in faccia; la sua espressione sgomenta diceva quello che aveva visto in fondo al pozzo. I suoi colleghi, azionando il paranco, tirarono fuori il corpo.

Il bambino era raggomitolato. Sembrava avesse cercato di abbracciarsi a qualcosa, o a qualcuno.

Lo deposero, ed era com’è il corpo di un essere umano morto da qualche giorno e abbandonato in campagna. Dove ci sono i topi, e altri piccoli predatori, e le mosche.

– Mio Dio, – sussurrò la D’Angelo. Quasi nello stesso momento si sentí il rumore come di un secchio d’acqua svuotato per terra. Un giovane carabiniere in divisa, troppo vicino, aveva vomitato. Altri due si girarono per non guardare.

Fenoglio aveva visto tanti morti. Se fai certi lavori è inevitabile. Ti abitui, ovvio. Ti devi abituare, per una questione di sopravvivenza. È quello che ti direbbe qualunque investigatore. Ma qualunque investigatore, anche il piú indurito, ti direbbe che, però, c’è una cosa cui non ti abitui mai.

La morte violenta dei bambini.