14.

Il capitano, all’inizio, sembrava non capire. Cos’era questo sviluppo improvviso dell’indagine – casuale, aveva detto Fenoglio – e soprattutto cosa significava che erano implicati dei carabinieri?

Sí signor capitano, purtroppo sí, sono carabinieri. Entrambi carabinieri, sí. Sí, il soggetto ha spontaneamente – sentí il suono della propria voce, mentre pronunciava quell’avverbio, una bugia – deciso di collaborare. Forse è meglio di no, eviterei di portarlo in caserma da noi, credo sia opportuno mantenere la cosa riservata il piú a lungo possibile. Anche per scongiurare il rischio che l’altro intuisca qualcosa e si metta sull’avviso. Sí, abbiamo pensato fosse meglio scegliere un luogo appartato per questo incontro. Credo che la scelta migliore sia portarlo direttamente dalla dottoressa. Va bene, signor capitano, provvedo io ad avvertirla. Se mi permette, occorre raccomandare al signor colonnello, con il dovuto rispetto, la massima cautela. Savicchio lavora al nucleo comando; il problema è la vicinanza fisica con l’ufficio del colonnello e la facilità con cui può accedere a tutte le informative importanti. Se lei è d’accordo, per il momento eviterei qualsiasi comunicazione scritta. Certo, l’avverto quando ci stiamo muovendo per andare in procura e ci vediamo lí.

Fenoglio era nell’ufficio del maresciallo Iannantuono, che aveva capito quanto la questione fosse seria, ma non aveva fatto domande. Aveva lasciato la sua stanza al collega perché potesse parlare liberamente al telefono e aveva ordinato ai suoi di non disturbarlo per nessun motivo.

Chiusa la comunicazione con il capitano, Fenoglio rimase a lungo con la mano poggiata sui tasti del telefono. Non pensava a niente. La cosa piú strana, se ne rese conto dopo, era che non avvertiva alcuna soddisfazione per lo sviluppo dell’indagine. Solo stanchezza, e un interesse autistico per alcune piccole lesioni sul muro che aveva davanti. La caserma è nuova, chissà da cosa dipendono, si chiese subito prima di comporre il numero della D’Angelo.

Fece squillare quattro volte. Sentí la voce della dottoressa che rispondeva mentre stava per riattaccare.

– Dottoressa, buongiorno, sono Fenoglio.

– Maresciallo, buongiorno.

– È impegnata?

– In che senso?

– Ci sarebbe da fare un verbale. Una cosa un po’ urgente.

– Un verbale?

– Abbiamo qui con noi uno dei responsabili del sequestro del bambino Grimaldi. Vuole rendere dichiarazioni.

– Chi è?

– Un carabiniere, – disse Fenoglio.

– Come?

– Sono stati due carabinieri.

– Dove siete?

– Possiamo raggiungerla in un’ora. Con il soggetto.

– Ha un avvocato?

– Mi sono permesso di dire che lei avrebbe fatto cercare un difensore immediatamente disponibile e che avrebbe evitato di chiamare professionisti compromessi con la criminalità organizzata.

– Va bene, me la vedo io. Vi aspetto in ufficio. Prima di verbalizzare spero che mi spiegherete cosa è successo.

Con il capitano si incontrarono all’ingresso del palazzo di giustizia.

Fenoglio non sapeva che reazione attendersi dall’ufficiale. La svolta era con ogni evidenza il frutto di un’indagine condotta a sua insaputa, e lui avrebbe avuto tutto il diritto di non prenderla bene.

– Davvero questo brigadiere vuole confessare davanti al pm il sequestro del bambino? – chiese Valente.

– Sí, signor capitano.

– Immagino non sia stata una decisione spontanea.

– No, signor capitano, – rispose Fenoglio, indeciso su come proseguire e chiedendosi come avrebbe risposto a ulteriori domande su quell’indagine irrituale. Ma non ci furono ulteriori domande.

– Ha fatto un ottimo lavoro.

– Gran parte del merito è dell’appuntato Pellecchia, – disse Fenoglio, senza riuscire a decifrare l’espressione del capitano.

– Prima di salire dalla dottoressa, mi racconti quello che mi serve sapere, per non sembrare uno di passaggio –. Il tono era amichevole, quasi complice.

Un quarto d’ora dopo entrarono nell’ufficio del pubblico ministero. Il capitano le spiegò ogni cosa – escluse le parti che avrebbero potuto mettere in imbarazzo un magistrato – in modo asciutto e preciso, come se fosse stato costantemente informato dell’indagine e dei suoi sviluppi, ma senza prendersene alcun merito. Fenoglio pensò che aveva sottovalutato l’uomo.

Quando la D’Angelo disse che le informazioni erano sufficienti per procedere all’interrogatorio, furono introdotti Ruotolo e il difensore d’ufficio, che avevano atteso insieme a Pellecchia nella segreteria. Seguirono tre ore di verbalizzazione. Alla fine la pm spinse una decina di fogli verso l’indagato, dall’altra parte della scrivania.

– Legga, e mi dica se c’è qualcosa da correggere, se c’è qualche punto in cui ho travisato il suo pensiero.

Ruotolo scosse la testa, fece un gesto con la mano aperta. – Non ho bisogno di leggere. Se mi dà una penna…

Legga, per piacere. Non è una questione di fiducia. Verifichi che tutto corrisponda al suo racconto e al suo pensiero. Alla fine del verbale c’è scritto: «Letto, confermato e sottoscritto». Dunque lei legge, conferma – o rettifica, se c’è qualcosa da rettificare – e dopo sottoscrive –. Il tono della D’Angelo era solo in apparenza neutro. – Legga anche lei per piacere, avvocato, – concluse.

I due riguardarono insieme tutto il verbale, corressero a penna qualche imprecisione e alla fine entrambi firmarono, pagina per pagina.

– Quando finisce il suo periodo di convalescenza, Ruotolo?

– Ho ancora due settimane, dottoressa.

– Si faccia fare un nuovo certificato dal suo medico. Un altro mese, poi vediamo. Arrivederci, avvocato, grazie.

– Come procediamo adesso, dottoressa? – chiese il capitano quando Ruotolo e l’avvocato furono usciti. La D’Angelo non rispose. Si guardò attorno come se non riconoscesse il suo ufficio. Andò alla finestra, l’aprí come per cercare conforto nel rumore del traffico. Prese una sigaretta e l’accese, stando appoggiata alla finestra. Fuori era buio.

Era estate, ma non sembrava.