4.
L’Albino si affacciò alla porta.
– Buonasera, maresciallo.
– Vito, accomodati.
Fenoglio indicò all’Albino una sedia davanti alla scrivania e si sedette sull’altra, lasciando vuoto il suo posto abituale.
– Hai trovato qualcosa?
– Ho tre nomi.
Fenoglio prese il foglietto che Marasciulo gli porgeva.
– Hai parlato con qualcuno di loro?
– No. Ho chiesto a qualche amico di cui mi fido e che non fa domande.
– Sai chi sono?
L’Albino si schiarí la voce e si mosse sulla sedia. In caserma non era a suo agio.
– No. Vicino ai nomi c’è scritto di dove sono. Il resto lo dovete fare voi.
– Mi sembra giusto.
– Però secondo me non vi dicono niente. Quando uno ha avuto una cosa come quella vuole solo dimenticare. Perché si dovrebbero inchiavicare, scusate il termine, a parlare con i carabinieri?
Già, perché si dovrebbero inchiavicare? Rifletté Fenoglio mentre congedava l’Albino.
La mattina dopo Pellecchia e Fenoglio arrivarono in caserma alla stessa ora.
– È venuto l’Albino, ieri sera?
– È venuto. Mi ha portato un foglietto con tre nomi.
– Come vuoi procedere?
– Tu li identifichi e poi andiamo insieme a trovarli.
Pellecchia prese il foglietto e lesse.
– Secondo te ci raccontano qualcosa?
– Non lo so. Adesso identifichiamoli. Un passo alla volta.
Pellecchia uscí e Fenoglio decise di riguardare un po’ di informative già pronte in minuta da passare alla firma del capitano. Lavorò per qualche ora su vecchi fascicoli, ascoltando la musica e godendosi il senso di appagamento, gradevole e un po’ ottuso, che deriva dallo smaltimento di un arretrato poco impegnativo.
Era appena rientrato da una passeggiata di pausa quando il telefono prese a squillare.
– Capo, sono l’appuntato Pellecchia Antonio, ti ricordi di me?
– Sarebbe difficile scordarsi.
– Ne ho trovati due. Mi raggiungi?
– Dove?
Pellecchia lo aspettava davanti a un bar del rione Japigia.
– Come si chiama questo? – domandò Fenoglio.
– Patruno. È un gioielliere e, ti avverto subito, è strano. Due anni fa hanno preso la figlia. Ha pagato e gliel’hanno restituita dopo due ore, tutta intera. Non le hanno fatto niente. Non l’hanno picchiata e non l’hanno violentata. Questo non le ha fatto piacere.
– Scusa?
– Adesso la vedi.
La gioielleria era a qualche decina di metri dal bar. L’arredamento era antiquato, nell’aria c’era odore di cera per legno. Dietro il banco una donna e un uomo stavano in piedi, uno accanto all’altra, come in posa per una fotografia. Lui poteva avere cinquanta come settanta anni, era alto, con braccia lunghe e ossute. I capelli erano grigi e radi e aveva una strana pancia prominente. Pareva come se pezzi di corpi diversi fossero stati montati insieme, creando un insieme bizzarro e privo di armonia. Anche il viso mostrava una sorta di sproporzione programmatica: troppo largo, con una bocca troppo piccola e un vistoso esoftalmo. La donna era la figlia. Una versione femminile, molto piú giovane, dello stesso assemblaggio disarmonico.
– Il signor Patruno dice che è disponibile a parlarci, ma che preferirebbe non verbalizzare. Lo stesso vale per sua figlia. Gli ho detto che possiamo andargli incontro.
Fenoglio gli tese la mano. Quella del commerciante era fiacca e inanimata, come una creatura senza vertebre.
– Buongiorno, signor Patruno. Sono il maresciallo Fenoglio. C’è un posto tranquillo dove possiamo parlare? Forse un ufficio nel retro?
Il gioielliere e la figlia si guardarono negli occhi. Poi lui uscí dal bancone e fece strada, addentrandosi in uno stretto corridoio fino a un piccolo ufficio.
Sulla scrivania e sugli scaffali tutto era in un ordine perfetto e ossessivo. La macchina per scrivere, la calcolatrice, il portadocumenti di finta pelle, il portapenne con due matite ben temperate.
Patruno si sedette al suo posto e invitò i due carabinieri ad accomodarsi sulle due brutte sedie che erano davanti alla scrivania.
– L’appuntato Pellecchia mi ha accennato, – esordí Fenoglio. – Le sarei grato se ci raccontasse cosa è successo a sua figlia.
– Io non ho capito come avete saputo di questa cosa, – disse l’altro con voce neutra e nasale.
– Nel nostro lavoro capita di avere informazioni dalle fonti piú disparate. Spesso da appartenenti al mondo del crimine.
– Mia figlia e io vogliamo dimenticare questa storia. Quelli hanno detto che se parlavamo con qualcuno tornavano qui. Sanno dov’è il negozio, dov’è casa. Sanno tutto.
– Non si preoccupi, signor Patruno. Anche per noi la cosa piú importante è la vostra sicurezza. Voglio spiegarle il motivo del nostro interesse per la vicenda che riguarda lei e sua figlia. Ma prima di tutto mi dica di lei. In famiglia quanti siete?
– Ci siamo solo mia figlia e io. Mia moglie è morta di cancro cinque anni fa. Ci occupavamo insieme della gioielleria. Mia figlia studiava Economia, ma non le piaceva molto. Con la morte della mamma ha deciso di prendere il suo posto. Io le do uno stipendio. Regolare, con la busta paga e i contributi.
– Certo. È chiaro che lei è una persona precisa, cui piace essere in regola –. Fenoglio accennò un sorriso.
– Sí, sono una persona ordinata.
– Vogliamo sapere cosa è successo a sua figlia perché questo potrebbe aiutarci in un’altra indagine.
– Come le ho detto, maresciallo, noi…
– Non si preoccupi. Non sarete coinvolti.
Patruno guardò Pellecchia. – Tranquillo, Patruno. Se il maresciallo ti dice che non sarete coinvolti, ti puoi fidare.
Il gioielliere si sistemò la cravatta e si schiarí la voce, producendo un suono strano, come il verso di un piccolo animale. – Quella mattina io avevo una visita medica e mia figlia doveva aprire il negozio. Di ritorno dal dottore ho trovato la saracinesca abbassata e mi sono preoccupato. Mentre stavo lí davanti a chiedermi cosa poteva essere successo è passato un ragazzo su un motorino e mi ha detto di stare vicino al telefono che qualcuno mi doveva chiamare.
– Sarebbe in grado di descriverlo, questo ragazzo?
– No. Cioè, è passato, mi ha detto queste cose e se n’è andato. Io ero confuso, non sono stato a guardare la faccia. Era uno normale.
– Lo aveva mai visto in giro?
– No.
– Parlava in italiano o in dialetto?
– Non sono sicuro, ma direi piú dialetto che italiano. Era un ragazzo di strada. Sí, sí, ora che ci penso: ha parlato in dialetto.
– Quando hanno chiamato?
– Subito. Non è passato neanche un minuto.
Qualcuno nei dintorni lo stava osservando, pensò Fenoglio. Gente del quartiere.
– Cosa le hanno detto?
– Che avevano preso Fiorella e che se la volevo indietro dovevo portargli trenta milioni in contanti entro il pomeriggio. Altrimenti la ammazzavano.
– Parlavano in italiano o in dialetto?
– Dialetto. Cioè misto, dialetto e italiano. Ma erano di Bari, sono sicuro.
– E poi?
– Ho chiesto chi erano e quello mi ha detto che se gli facevo ancora una domanda, tagliavano un dito a mia figlia e me lo mandavano. Allora io gli ho detto che non ce li avevo trenta milioni in contanti e lui mi ha detto di andare in banca a prenderli.
Raccontando quei fatti, Patruno prese un po’ di vita, come se rievocare un momento tanto pauroso attenuasse l’inerzia della sua fisionomia.
– E lei li aveva in banca quei soldi?
Patruno fece una pausa piuttosto lunga, come se d’un tratto si fosse reso conto che quanto stava raccontando poteva essere usato contro di lui.
– Signor Patruno, non si preoccupi. Non siamo la Finanza, non ci interessa se paga le tasse e tutto il resto. Vogliamo solo capire come agisce questa gente. Ha recuperato i trenta milioni?
– Sí. Ho due conti, ho ritirato venti milioni da uno e dieci dall’altro, poi sono tornato qui.
– L’hanno richiamata subito anche stavolta?
– Subito, appena rientrato. Mi hanno ordinato di avvolgere i soldi in un giornale, di mettere tutto in un sacchetto della spesa e di andare al Bar Biancorosso, che è a due isolati da qua. Lí davanti avrei trovato un ragazzo vicino a una Panda. Mi avrebbe aperto il portabagagli e io avrei dovuto metterci il sacchetto. Poi dovevo andarmene senza voltarmi. Se avessi fatto come mi dicevano, Fiorella sarebbe ritornata direttamente in negozio.
– Lei ha seguito le istruzioni?
– Sí.
– Il ragazzo che le ha aperto il portabagagli…
– Non me lo ricordo com’era. Probabilmente non me lo ricordavo neanche se me lo chiedevate mezz’ora dopo. Perché proprio non l’ho voluto guardare in faccia, non volevo correre il rischio di riconoscerlo.
Fenoglio non insistette.
– Immagino che non abbia dato un’occhiata alla targa dell’auto?
– Senza volerlo ho dato uno sguardo. Era coperta da uno straccio.
Banale, semplice ed efficace. Mica bisogna fare per forza cose complicate.
– Cos’è successo dopo il pagamento?
– Ho continuato a fare quello che mi avevano detto: sono tornato verso la gioielleria senza voltarmi indietro. Mezz’ora dopo mia figlia è arrivata.
– Come stava?
– Abbastanza bene. Lo spavento era stato soprattutto quando l’avevano presa: lei pensava che volessero violentarla, – Fenoglio dovette sforzarsi per evitare lo sguardo di Pellecchia, – ma invece non le hanno fatto niente.
Patruno teneva le mani sul tavolo, con i dorsi verso l’alto; una specie di posizione di attesa. Pellecchia si alzò, fece il giro della scrivania, poggiò una mano sulla spalla del gioielliere. Il gesto voleva essere amichevole, ma sembrava una minaccia.
– Senti, Patruno, apprezziamo il tuo aiuto. Però ti dobbiamo chiedere ancora un piacere. Dobbiamo parlare con tua figlia.
Patruno guardò Pellecchia; poi guardò Fenoglio. Poi cercò uno spazio in cui i suoi occhi potessero muoversi senza incrociarne altri, in quella piccola stanza. Un angolo di fuga.
– Le facciamo solo qualche domanda per avere il suo punto di vista sulla storia e ce ne andiamo, – disse Fenoglio sporgendosi un po’ sulla scrivania.
Patruno si alzò e andò a chiamare la figlia che comparve nell’ufficio poco dopo. Fenoglio la invitò a sedersi e lei lo fece, con una compostezza legnosa, come un automa costruito male. A guardarla cosí, indifesa e meccanica, una creatura umana diminuita, Fenoglio ebbe un senso di tristezza, quasi di angoscia. Si immaginò vagamente l’esistenza di quella ragazza brutta e sola, che abitava con suo padre e lavorava con suo padre e avrebbe passato i suoi giorni, uno dopo l’altro, con suo padre che invecchiava, a difendere il miserabile benessere di quella vita e di quel lavoro: gioiellieri di periferia, venditori di anellini, di collanine, di orecchini in oro scadente, di brillanti minuscoli; piccole evasioni fiscali, magari qualche piccola ricettazione. Vedere attraverso le vite delle persone cominciava a pesargli, si disse.
– Signora Fiorella…
– Signorina.
– Mi scusi, signorina Fiorella. Suo padre ci ha già raccontato la spiacevole vicenda in cui si è trovata coinvolta. Avremmo però bisogno di qualche dettaglio in piú, che può fornirci solo lei.
– Prego.
– Com’è accaduto il rapimento? Mi riferisco a quando l’hanno presa.
– Ero arrivata vicino al negozio con la macchina. Quel giorno dovevo aprire io perché mio padre aveva un impegno…
– Una visita medica, vero?
– Esatto. Ho parcheggiato e stavo per montare il bloster quando un ragazzo è salito dall’altro lato…
– Intende davanti, dal lato del passeggero?
– Sí. Ha aperto, si è seduto e aveva un coltello. Me lo ha avvicinato al collo e ha detto che non lo dovevo guardare in faccia, altrimenti mi tagliava la gola.
– Ma lei lo aveva visto, quando è salito sulla macchina?
– Un poco. Aveva un grosso cerotto sul naso. Mi ricordo solo il cerotto.
Vecchia tecnica, sempre efficace. Se sei in condizioni di stress e vedi qualcuno con un grosso cerotto in faccia, novantanove volte su cento ti ricordi solo il cerotto.
– Poi?
– Dovevo rimettere in moto e partire. Siamo andati nella campagna fra Torre a Mare e Noicattaro. A un certo punto, in una stradina di campagna mi ha detto di scendere dall’auto, di fare due passi avanti e di non voltarmi. Ho obbedito e qualcun altro, da dietro, mi ha messo un cappuccio sulla testa. Mi hanno portato in un posto al chiuso e mi hanno fatto sedere; sono rimasta lí forse un’ora. Quindi siamo risaliti in macchina – mi hanno fatto distendere sul sedile posteriore – e siamo andati via. Un quarto d’ora dopo ci siamo fermati e quello che era entrato in macchina e che è stato l’unico a parlare mi ha detto di contare fino a cento. Poi mi potevo alzare e tornare a casa.
– Le hanno lasciato le chiavi nel quadro?
– Sí.
– Dove si trovava?
– Qui nel rione Japigia, in fondo a via Caldarola, in una strada secondaria da cui non ero mai passata, alle spalle del distributore di benzina.
Criminali professionisti, tranquilli, sicuri di sé. Con ogni probabilità quel sequestro non era il primo e, considerato il sangue freddo, doveva trattarsi di persone con esperienza di rapine.
– Quando è accaduto questo episodio?
– 26 aprile 1990.
– Abbiamo quasi finito. Saprebbe descrivermi le voci dei due sequestratori?
– Come le dicevo, ho sentito solo quella del primo.
– Fra loro non hanno mai parlato?
– No.
– E com’era questa voce?
– Non saprei.
– Le dico degli aggettivi. Vediamo se qualcuno è adatto a descriverla. Acuta o bassa?
La donna parve concentrarsi. – Di sicuro non era acuta. Era… come quando uno fuma molto.
– Roca?
– Sí, roca.
– C’è qualche altro motivo per cui ha fatto riferimento al fumo?
– Adesso che mi ci fa pensare, puzzava di sigarette. Sa quando uno fuma molto e ha quell’odore…
– Certo, quello che rimane anche sugli abiti. Le viene in mente altro?
Scosse la testa. Sembrava stupita di essersi ricordata quel dettaglio.
– Torniamo a come parlava. Dialetto o italiano?
– Misto, però piú dialetto.
– Dunque, riepilogando: aveva una voce bassa e arrochita; era un fumatore accanito e parlava soprattutto in dialetto. Riguardo all’aspetto fisico? La corporatura, la statura?
Scosse di nuovo la testa. – Non so dire. Era… normale. Non sembrava né alto né basso. Certo non era grosso.
– Se dovesse ipotizzare, cosí, senza spiegare le ragioni: quanti anni poteva avere?
– Una trentina, forse di piú. Non era un ragazzo.
– Non è che per caso, nei mesi successivi ha avuto l’impressione di incontrare questa persona? Anche solo l’impressione. Magari ha incrociato qualcuno e ha sentito quella voce, oppure lo stesso odore di sigaretta.
– No.
Fenoglio le lasciò un minuto o due per vedere se saltava fuori qualche ulteriore ricordo. Non accadde.
– Va bene, signorina Fiorella, se le viene in mente qualche altra cosa per piacere mi chiami. Le scrivo il mio numero dell’ufficio. Io sono il maresciallo Fenoglio. Se non mi trovasse, lasci pure detto e io la richiamerò.
– Io e mio padre vogliamo solo dimenticarcela, questa storia.