13.
Non si erano conosciuti sul lavoro, ma in una discoteca dove Ruotolo lavorava come buttafuori per arrotondare lo stipendio.
Una sera ci fu un problema con dei ragazzi ubriachi. Savicchio era nel locale, come cliente, con una donna.
– Ci aiutò a risolvere il casino e a sbatterli fuori. Alcuni riuscirono a scappare, altri li menammo e li identificammo. Mi ricordo che eravamo sul retro della discoteca e c’erano questi in ginocchio con la faccia verso il muro e le mani incrociate dietro la nuca. Savicchio gli prendeva il portafogli, guardava i documenti, annotava su un taccuino le generalità e a ciascuno diceva: adesso so dove abiti. Ti trovo quando voglio. Poi rimetteva a posto il documento, prendeva i soldi e se li metteva in tasca.
– Nessuno ha protestato?
– Uno solo. Ha avuto un sacco di botte, hanno dovuto portarlo via a spalla i suoi amici.
– Savicchio ti ha dato una parte dei soldi?
– No, ha tenuto tutto lui.
– Va bene, vai avanti.
– Dopo aver finito con quelli rientrammo nella discoteca e andammo a bere nel privé – uno dei titolari volle offrire lo champagne per ringraziare Savicchio. Rimanemmo a chiacchierare e a bere fino a tardi e Guglielmo a un certo punto mi chiese quanto guadagnavo facendo la sicurezza nella discoteca. Prendevo trecentomila a serata e lui disse che era un’elemosina. Mi chiese se volevo fare i soldi veri, se mi consideravo un ragazzo d’azione. Io risposi di sí e lui mi disse che si sarebbe fatto sentire. Qualche giorno dopo mi chiamò e mi disse che, se volevo, potevo aiutarlo.
– Per cosa?
– Recupero crediti.
– Per gli usurai?
– A volte è capitato, in seguito, ma quella volta fu per un imprenditore normale, uno che vendeva materiali da costruzioni. C’era un cliente che non pagava una grossa fornitura; calcestruzzo o mattoni, non ricordo. Non so per quale motivo, ma questo tizio, il creditore, invece di andare dall’avvocato si era rivolto a Savicchio. Credo fosse un’abitudine.
– Quindi che avete fatto?
– Andammo dal tizio, Savicchio gli parlò, gli disse che se non pagava potevano sorgere problemi molto seri e alla fine, per farla breve, quello saldò il debito.
– Perché Savicchio ti ha coinvolto in questa cosa?
– Diceva che gli serviva un assistente, per tutti i lavori che faceva. Quelli che c’erano stati prima non lo soddisfacevano. Io gli avevo fatto una buona impressione, gli sembravo affidabile.
Fenoglio provò un senso di disagio. Perse per qualche secondo contatto con l’ambiente circostante. Aveva la sensazione di avere già sentito quelle risposte e non riusciva a capire perché. Poi si rese conto. Un racconto analogo, piú o meno con le stesse parole, lo aveva fatto Lopez due mesi prima, parlando della sua conoscenza con Grimaldi.
– Facevamo la scorta per trasporti di roba di valore. A volte erano gioielli; gioielli rubati. Una volta anche un quadro prezioso.
Ruotolo rievocò tre anni di vita criminale in divisa. Fenoglio lo lasciò parlare quasi senza interromperlo né fargli domande. Infine arrivarono ai sequestri di persona.
– Un giorno Mino, Savicchio, venne da me dicendo che dovevamo lanciarci in una nuova attività, un modo per fare davvero tanti soldi facili. Io gli chiesi di cosa stava parlando e lui mi domandò se avessi mai sentito parlare dei sequestri lampo. Non ne sapevo niente e lui mi spiegò. Era una cosa cominciata a Cerignola, ma adesso la facevano anche dalle nostre parti. Disse che poteva essere una miniera d’oro e dovevamo studiare il modo di entrare in quell’affare. Io non ero d’accordo. Un conto era fare la scorta per i trasporti di roba ricettata, recuperare crediti o rapinare le prostitute. Un altro conto un reato cosí grave, mettendo in mezzo persone che non c’entravano niente col mondo criminale.
Ecco la nota autoassolutoria che compare sempre, a volte di piú, a volte di meno, in tutte le confessioni. Sia chiaro che non volevo fare male a nessuno. Avrò pure sgarrato, ma ho dei principî. Una cosa è rapinare le puttane, un’altra sequestrare le persone per bene.
– Insomma gli stavo rispondendo che non me la sentivo, che mi sembrava un’idea sbagliata, ma lui mi disse di lasciarlo finire. Non voleva mica sequestrare le persone per bene; l’idea geniale era sequestrare i parenti dei malavitosi. Diceva: pensa a un trafficante di droga che ha appena venduto un carico; ha centinaia di milioni in contanti. Noi gli prendiamo la moglie, chiamiamo mezz’ora dopo e gli chiediamo cento milioni se non vuole che la restituiamo morta. Quello paga subito, nessuno si fa male e con mezza giornata di lavoro tiriamo su due anni di stipendio.
– Come avreste scelto le vittime, secondo lui?
– Semplice: dovevano avere molta disponibilità di contanti sporchi. Per individuare i soggetti avremmo utilizzato sia le informazioni di ufficio, sia i nostri contatti nella malavita.
– Quanti ne avete fatti?
– Tre, in tutto.
– Il piccolo Grimaldi, Angiuli, e qual è il terzo?
– Come sapete di Angiuli?
Fenoglio ebbe di nuovo l’impulso di schiaffeggiarlo.
– Ascoltami, Ruotolo, non preoccuparti di quello che sappiamo e di come l’abbiamo saputo. Preoccupati solo di raccontarci tutto, dal principio alla fine. I benefici di cui ti ho parlato prima si dissolvono, se saltano fuori bugie o omissioni. Comprendi?
Ruotolo annuí. Raccontò del terzo sequestro, che poi era stato il primo in ordine di tempo: avevano rapito la moglie di un grosso usuraio e ne avevano ricavato quaranta milioni.
Usavano macchine – in un caso un furgoncino – prese in prestito da concessionari amici di Savicchio; le targhe erano sostituite con altre rubate poco prima e che poi venivano rimesse a posto.
– Spiegami una cosa, Tony. È vero che ad Angiuli avete detto che eravate la polizia? – chiese Pellecchia.
– Anche alla donna. Era un’idea di Mino. Diceva che se fosse emerso che i sequestratori si erano spacciati per appartenenti alle forze di polizia, sarebbe stato ancora piú improbabile che qualcuno pensasse che era vero. Però sapete una cosa?
– Cosa?
– Io credo che gli piacesse commettere un reato dicendo che era la polizia. Gli sembrava… divertente. Un’idea spiritosa.
– Spiritosissima. Adesso parliamo del bambino. Prima di tutto: come è nato il progetto?
– Un giorno, all’inizio di maggio, mi ha detto che la guerra in corso in città era interna al clan Grimaldi: un gruppetto si era rivoltato contro il capo. Secondo Savicchio era il momento perfetto per sequestrare il figlio di Grimaldi. Tutti avrebbero pensato che erano stati i ribelli. Il Biondo, che di sicuro era pieno di contanti, avrebbe pagato subito per salvare il bambino. Poi avrebbe scatenato una caccia spietata agli altri e in un modo o nell’altro sarebbe riuscito a farli uccidere. Noi avremmo fatto come il torero.
– Come il torero?
– Sí, lui dice queste cazzate. Voleva intendere che saremmo andati vicinissimi a una situazione pericolosa, come fa il torero con il toro, e ne saremmo usciti senza farci male e con le tasche piene di soldi.
– Ma il torero può anche prendersi una cornata nel culo, – lo interruppe Pellecchia.
– È quello che gli ho detto io. Proprio le stesse parole, – riprese Ruotolo. Per un attimo gli sfuggí un sorriso. – Lui ha risposto che cominciava a rompersi il cazzo, che per ogni idea che gli veniva stavo lí a cacare dubbi e che forse si era sbagliato a pensare che ero il suo compagno ideale. Se non mi interessava potevo dirglielo e chiudevamo lí la nostra collaborazione. Se non mi interessavano duecento milioni da dividerci in due, potevamo salutarci anche subito. Avrebbe trovato qualcun altro.
– E tu hai pensato che in realtà ti interessavano, duecento bustoni, vero? – fece Pellecchia.
Ruotolo si accese una sigaretta. – Sono stato un coglione. Lo sentivo che sarebbe andata male.
– Come avete proceduto?
– Aveva già preparato tutto. Sapeva a che scuola andava il ragazzino, che percorso faceva, a che ora usciva e qual era il punto migliore per il prelievo.
– Aveva fatto lui gli appostamenti o queste informazioni gliele aveva fornite qualcun altro?
– Non lo so. Non me lo ha detto. Era sempre evasivo su certe cose. Mi lasciava intendere di poter sapere tutto, sia in ambienti criminali, sia nell’ambiente… nostro. Diceva che lavorando al nucleo comando aveva accesso a tutto. Non succedeva nulla senza che lui ne venisse a conoscenza. È un megalomane. Però davvero, in un modo o nell’altro, riesce a sapere un sacco di cose.
– Ha mai parlato di qualche altro carabiniere o qualche altro appartenente alle forze dell’ordine che collaborasse con lui?
– Diceva che in passato aveva fatto affari con altri –. Fenoglio evitò di guardare Pellecchia. – Diceva però che al momento ero il suo unico socio.
– Secondo te era vero?
Ruotolo si strinse nelle spalle. – Sí, penso di sí. Stavamo sempre insieme. Mi sembra difficile che trovasse il tempo… insomma, di fare quel genere di attività anche con altri. Poi con Mino Savicchio non sei mai sicuro di niente.
– Torniamo all’episodio del bambino, – disse Fenoglio.
Episodio. Fenoglio per un attimo pensò al modo disciplinato con cui rispettava le regole di interrogatorio. La scelta delle parole è fondamentale per ottenere un risultato. Bisogna scegliere espressioni il piú possibile neutre, come fatto, incidente, episodio e simili; evitare parole come stupro, omicidio, morto, delitto. Le espressioni cariche dal punto di vista emozionale (come, appunto, stupro, omicidio, morto, delitto) riportano il soggetto alla gravità del suo comportamento, evocano conseguenze indistinte e paurose, riducono le probabilità di una confessione.
– Avvicinammo il bambino a qualche centinaio di metri dalla scuola, dove era piú improbabile che qualcuno ci notasse. Avevamo una Bmw station-wagon con i vetri oscurati, che come al solito Savicchio si era fatto prestare da uno dei suoi amici concessionari. Avevamo cambiato le targhe con altre che avevamo rubato in un garage poco prima.
– Perché in un garage?
– Savicchio teneva d’occhio le auto che nel suo garage – quello dove lasciava la macchina – non venivano mai usate. Prendevamo le targhe di quelle perché era piú difficile che i proprietari si accorgessero del furto.
Fenoglio annuí e fece cenno di proseguire.
– Io guidavo, Savicchio scese dall’auto e disse al ragazzino che eravamo amici del padre e che dovevamo riportarlo a casa perché c’era un problema. Lui chiese quale fosse il problema e Savicchio disse che avevano sparato a sua madre. Non so come gli venissero certe idee. A quel punto, comunque, quello salí in macchina senza fare storie.
– Avete agito a volto scoperto?
– Avevamo parrucche e baffi finti. Savicchio si mise sul sedile posteriore con il ragazzino. Quando il ragazzino si accorse che non stavamo andando a casa sua, cominciò ad agitarsi. Savicchio gli diede due ceffoni dicendogli di non fare casino, ma quello non si calmò, si mise a gridare che il padre ci avrebbe ammazzato e cose del genere, e allora Savicchio lo menò, gli mise un cappuccio in testa e gli legò mani e piedi con delle fascette di plastica. Poi ci fermammo e lo mettemmo nel portabagagli.
Il racconto proseguí, monotono e banale. Come quasi tutte le confessioni di cose orrende.
Andarono a telefonare alla famiglia, sempre tenendo il bambino nel portabagagli – era spazioso, non c’era nessun problema, pensavano. Poi fecero la seconda e la terza telefonata, spostandosi di paese in paese. No, non c’era nessun criterio e nessuna ragione particolare nella scelta dei luoghi da cui chiamare, l’idea era proprio di muoversi in modo casuale per non offrire alcuno spunto a un’eventuale indagine. Una volta ottenuto il consenso del padre al pagamento – avevano chiesto duecento milioni – dovevano attendere qualche ora perché il contante fosse raccolto. Dunque decisero di andare in una cava abbandonata dalle parti di Trani, dove fare uscire il bambino e attendere.
Quando aprirono il portabagagli il bambino non si muoveva. Lo tirarono fuori, gli tolsero il cappuccio, gli liberarono le mani e cercarono di rianimarlo.
– Io dissi che dovevamo portarlo subito al pronto soccorso e Savicchio mi disse che ero pazzo. Il bambino era morto – diceva – e se volevo andare al pronto soccorso, tanto valeva andare direttamente in carcere. Fui preso da una crisi, mi misi a piangere e lui, per farmi smettere, mi diede uno schiaffo. Poi disse che dovevamo sbarazzarci subito del corpo, senza perdere un minuto. Ci spostammo nella campagna di Casamassima, dove c’era un pozzo, e… lo…
Non trovava la parola. Non voleva dire: lo buttammo; un verbo che fa pensare a un sacco della spazzatura.
– Lo mettemmo lí, – disse infine.
– Sei sicuro che fosse morto?
– Sí, sono sicuro. Non c’era polso; gli passammo la lama di un temperino sotto le narici, ma non si appannò nemmeno un poco. Provammo anche a pungerlo, per vedere se aveva qualche reazione. Era morto, ve lo giuro. Se non fosse stato morto lo avrei preso io e lo avrei portato al pronto soccorso. Ma quello stronzo aveva ragione: andando al pronto soccorso non avremmo salvato il bambino e avremmo firmato la nostra condanna.
– Perché nella campagna di Casamassima?
– Perché non c’era un perché.
– Scusa?
– Cosí ha detto Savicchio. Portiamolo in un posto che non c’entra niente con noi, ha detto. Cercheranno un significato, faranno ogni tipo di ipotesi – i maniaci della zona, per esempio – e saranno tutte sbagliate perché non c’è nessun significato da scoprire. Un gioco della Settimana Enigmistica per il quale non esiste la soluzione.
– Ha detto cosí?
– Sí. Lui è fissato con l’enigmistica. Gli piacciono i rebus, gli piacciono gli anagrammi, legge le parole al contrario. Sono come l’Anticristo, dice.
– Figlio di puttana, – ringhiò Pellecchia.
– Dopo aver messo il bambino nel pozzo cosa avete fatto? – chiese Fenoglio.
– Savicchio disse che dovevamo andare avanti con la cosa dei soldi. Non tanto per i soldi, ma perché ci avrebbe fatto guadagnare tempo. Se non ci fossimo fatti sentire poteva succedere di tutto. Poteva addirittura succedere che Grimaldi avvertisse la polizia o i carabinieri, che iniziassero delle ricerche e un’indagine, che magari trovassero qualche testimone e insomma sarebbe stato molto pericoloso. Dovevamo farci dare i soldi, recuperarli con cautela e scomparire.
Ruotolo accese un’altra sigaretta, si strofinò il viso, guardò da qualche parte, nel mezzo fra Pellecchia e Fenoglio. Mosse la testa come per accompagnare una frase che non pronunciò. Aveva gli occhi lucidi.
– Io ho detto che avevo chiuso. Lui poteva fare quello che voleva, ma io avevo chiuso. Mi sono fatto lasciare in città e ho detto che non ne volevo sapere piú niente di lui e di tutto il resto. Mi ha chiesto se pensavo di fare qualche stronzata, se stava sicuro che non andavo a cantarmela subito dopo. Io gli ho risposto che lo sapevo benissimo che se me la cantavo ero fottuto. Volevo solo essere lasciato in pace, avevo chiuso.
Si stropicciò gli occhi. – Ha preso i soldi, vero?
– Non lo sai? – gli chiese Pellecchia, incredulo.
– No. Cioè, lo immagino, ma non me lo ha mai detto in modo esplicito.
– Ma dopo quel giorno non vi siete piú visti?
– No. Ci siamo solo sentiti per telefono, qualche giorno dopo il fatto. Mi ha chiesto di vederci. Ha detto che aveva qualcosa di mio, che mi doveva restituire. Ho pensato che fosse la mia parte del riscatto. Ho risposto che non me la sentivo di incontrarlo. Credo che la ragione della telefonata fosse chiedermi se ero stato io a far ritrovare il bambino, ma è stato molto attento a non dire nulla di compromettente.
– Hai chiamato tu il 112, vero?
– Sí. Non ce la facevo a pensare che il bambino era lí dentro e che non sarebbe stato sepolto o che lo avrebbero ritrovato… insomma, come si ritrovano i cadaveri quando è passato molto tempo.
– Dopo quella telefonata ce ne sono state altre?
– Mi ha chiamato ogni dieci giorni, piú o meno. Diceva che voleva sapere come stavo. Diceva anche qualcosa del tipo: «Quando ti vuoi venire a prendere quella cosa…» e lasciava la frase in sospeso.
– Intendeva dire i soldi?
– Penso di sí, anche se non li ha mai menzionati espressamente. In realtà chiamava per capire se stavo crollando e se c’era il rischio che parlassi con qualcuno.
– Quando ti ha chiamato l’ultima volta?
– Una ventina di giorni fa. Gli ho detto di stare tranquillo, che non c’erano problemi, che se aveva dei timori poteva farseli passare. Avevo solo bisogno di stare un po’ da solo.
– E lui?
– Che se mi serviva qualcosa dovevo solo chiamarlo.