5.

Lopez si era dimostrato da subito un collaboratore di giustizia ideale: capiva il senso delle domande e rispondeva a tono, con precisione, senza divagare e anche con buona proprietà di linguaggio. Poi, certo, c’era la trasformazione delle sue parole nella lingua un po’ surreale della verbalizzazione riassuntiva, ma l’uomo dava l’idea che avrebbe retto bene e si sarebbe spiegato anche a dibattimento, sotto il fuoco dell’esame incrociato degli avvocati.

La dottoressa si era allontanata per un paio d’ore. Un passaggio dal suo ufficio per qualche firma e alcune istanze da evadere. Il capitano e gli altri erano andati a pranzo. Fenoglio era rimasto con Lopez. Si erano fatti portare dei panini e delle birre e mangiavano in silenzio.

Appena ebbe finito, Lopez chiese se poteva fumare.

Fenoglio rispose di sí e aprí una finestra.

– Che succede quando ho detto tutto? – domandò Lopez dopo un paio di boccate.

– Ti portiamo dalla tua famiglia. Poi facciamo i controlli su quello che hai detto e se salta fuori qualche fesseria perdi tutti i benefici. Quando dico «fesserie» non mi riferisco a delle imprecisioni. Parlo di accusare qualcuno falsamente o di omettere di proposito qualcosa di importante. Non te lo scordare mai.

– Ma voi che dite, maresciallo, questa avvocatessa va bene? Mi sembra un po’ insicura. Io l’ho voluta nominare di fiducia, però non lo so come si comporterà quando arriviamo ai processi.

– È una civilista. Se avessimo chiamato un penalista c’era il rischio che la notizia della tua collaborazione venisse fuori prima del tempo. Quando arriveremo ai processi potrai decidere se tenere lei o prendere qualcun altro, magari uno di fuori, lontano dall’ambiente di Bari.

Lopez finí di fumare la sua sigaretta. La spense e andò alla finestra; al di là delle sbarre il cortile era deserto.

– Cosa avete pensato mentre vi raccontavo come abbiamo ammazzato ’u Rizz’? – disse continuando a guardare fuori.

– Perché me lo chiedi?

– Vi ho fatto schifo, vero?

In realtà la risposta immediata e corretta sarebbe stata: no, non gli aveva fatto schifo. Non perché non fosse un fatto ripugnante, ma perché era piú o meno quello che si aspettava di sentire. Non gli aveva fatto schifo perché quello era lavoro, perché ne aveva sentite o incrociate tante di storie piú o meno simili. Non gli aveva fatto schifo perché aveva il callo, o l’anestesia o chiamatelo come vi pare quel meccanismo degli sbirri per cui gli orrori della vita vanno ridotti a pratiche e fascicoli. Il meccanismo per cui, mentre ti raccontano di un poveraccio torturato, massacrato di botte, ammazzato come un cane e bruciato, magari ancora vivo, tu pensi alle indagini da fare, ai procedimenti da riaprire, ai riscontri da trovare. È che diventi pazzo, se non hai quel sistema di sicurezza molto ben funzionante.

Dunque no, non gli aveva fatto schifo, ma dirlo a Lopez non gli parve opportuno. Non gli parve giusto. Cosí rimase in silenzio. La sua espressione diceva solo: vai avanti, se vuoi. Lopez si accese un’altra sigaretta.

– Il giorno che siamo andati per ammazzarlo mi sentivo forte. Stavo per cambiare la mia vita, diventavo qualcuno, non il pezzente che ero sempre stato. Lo sapete quando non mi sono piú sentito cosí?

– Quando?

– Quando lo ha fatto mettere in ginocchio. Ve l’ho detto che aveva la faccia tutta insanguinata per i pugni con la cazzottiera, ma di quello non me ne fregava un cazzo. Anch’io avevo spaccato la faccia a un sacco di gente. È normale. Però nel momento in cui lo ha fatto mettere in ginocchio e quello ha capito che lo stavamo ammazzando e io ho capito che Grimaldi me lo faceva ammazzare a me, mi è venuto… come si dice?

– Il panico?

– Il panico, mi è venuto il panico. Ho pensato che me ne volevo scappare via e stavo quasi per farlo. E poi ho pensato che se scappavo via mi ammazzavano pure a me. Mi ammazzava Capocchiani, che gli piaceva a quel pezzo di merda ammazzare la gente. Voi avete mai avuto paura della morte, maresciallo? Non della morte in generale. Una volta che avete pensato che potevate morire proprio in quel momento?

– È capitato.

– Allora sapete cosa voglio dire. Mi sono sentito che mi stavo per cacare addosso, che proprio ho dovuto stringere, e infatti poi ho vomitato. Quando Grimaldi ha detto di spararlo io tremavo tutto e non glielo volevo far vedere, cosí, come vi ho detto, ho preso la pistola con due mani e l’ho ammazzato, per farla finita. Poi me lo sono sognato per una settimana. Me lo sono sognato che mi pregava, mi diceva di non ammazzarlo, me lo sono sognato che bruciava vivo. Una volta mi sono pure sognato mio padre – che allora era già morto – che stava là dopo che l’avevamo bruciato, a ’u Rizz’, e mi chiedeva cosa avevo fatto.

Fenoglio si domandò per quale motivo Lopez gli stesse raccontando quelle cose. Ammesso che un motivo ci fosse.

– Voi non fumate mai, maresciallo? – chiese ’u Viccier’, tendendogli il pacchetto di sigarette.

– Quasi mai, – rispose Fenoglio scuotendo il capo.

– Poi, a poco a poco, non me lo sono sognato piú, – riprese Lopez come se avesse lasciato in sospeso una parte importante.

– E gli altri omicidi?

– Ve li devo dire adesso?

– No, voglio sapere come ti sei sentito, cos’hai provato.

Lopez rimase in silenzio a lungo. Non sembrava stupito per la domanda, sembrava alla ricerca delle parole adatte. Che quasi sempre sono le piú semplici.

– Sapete una cosa, maresciallo? Non mi sono sentito niente. Qualche mese dopo ho fatto un altro omicidio, che poi doveva essere una gambizzazione ed è finita male. Il giorno dopo me l’ero già dimenticato. E il terzo ancora di meno. Era un tossico, lo ammazzammo io e Capocchiani e dopo me ne andai a mangiare.

Fenoglio sentí il bisogno di bere un sorso di birra, ma la sua bottiglia era vuota.

– Il problema, maresciallo, è che uno si abitua a tutto. Anche a fare gli omicidi.

Già, il problema è proprio quello: uno si abitua a tutto.