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La domanda di Fenoglio era retorica. Quello che bisognava fare era chiaro e, concettualmente, semplice: trovare i riscontri alle dichiarazioni di Ruotolo, per renderle utilizzabili nei confronti di Savicchio. Proprio come per Lopez. Senza riscontri, niente arresto e niente condanna.

La D’Angelo scrisse una delega dettagliata e puntigliosa richiedendo:

1) di identificare il concessionario d’auto che avrebbe prestato la macchina utilizzata per il sequestro del bambino e sentirlo a verbale per verificare se confermava la circostanza riferita da Ruotolo;

2) di sentire a verbale tutti gli abitanti dei condomini e i titolari degli esercizi commerciali che si trovavano nelle vicinanze del luogo dove, secondo il racconto di Ruotolo, c’era stato il sequestro;

3) di verificare la situazione patrimoniale – immobili, autovetture, posizioni bancarie – di Savicchio;

4) di acquisire i tabulati dei telefoni cellulari di Savicchio e di Ruotolo;

5) di procedere all’intercettazione del telefono cellulare, del telefono fisso di casa e del telefono d’ufficio di Savicchio; e all’intercettazione ambientale presso la sua abitazione e all’interno della sua autovettura.

In allegato c’erano i decreti per l’acquisizione dei tabulati e per le intercettazioni. La delega si chiudeva con una raccomandazione alla massima riservatezza e con la richiesta di indicare all’ufficio della procura i nominativi degli ufficiali di polizia giudiziaria coinvolti nell’investigazione o comunque a conoscenza della stessa.

Si misero al lavoro, cominciando dalla ricerca di un testimone oculare che potesse confermare il racconto di Ruotolo sul materiale svolgimento del sequestro. Fu subito chiaro che sapere con precisione dove si era verificato il prelievo del bambino non cambiava di molto la situazione registrata al momento delle prime indagini. Anzi: non la cambiava affatto. Nessuno aveva visto niente; nessuno si era accorto di niente, molti degli interpellati nemmeno sapevano che a due passi da casa era avvenuto un episodio cosí grave.

La questione – si disse Fenoglio dopo due giorni trascorsi inutilmente a pigiare pulsanti di citofoni, a entrare e uscire da appartamenti di ogni genere, a parlare con anziani e ragazzini, con balordi e piccoli impiegati, con casalinghe e prostitute – era che non c’era modo di sapere niente con certezza.

Poteva addirittura essere che davvero nessuno avesse visto nulla. Non ci accorgiamo di tante cose che succedono proprio sotto i nostri occhi. A volte autentiche tragedie o perfino eventi storici ci sfiorano nella nostra totale inconsapevolezza.

La convinzione del senso comune è che se ti trovi nelle vicinanze di un episodio drammatico, non puoi non accorgertene. La verità è che di solito la gente pensa ai fatti suoi; che l’attenzione e la percezione sono soggettive; che la capacità di cogliere le modifiche al ritmo ordinario delle cose dipende dalla predisposizione e dall’occasione. Insomma, non è affatto inusuale che accadano fatti rilevantissimi sotto gli occhi di tutti senza che nessuno se ne accorga.

Poi naturalmente c’è anche l’omertà, che dipende dalla paura o, peggio, dalla scelta deliberata di farsi i fatti propri: comportarsi diversamente produce solo guai. In ogni caso, quale che fosse la ragione, parlare con tutti gli inquilini e tutti i commercianti dell’isolato in cui era avvenuto il sequestro, non aggiunse nulla al fascicolo dell’indagine.

Dai tabulati risultò quello che sapevano già – ma che per ovvi motivi non avevano potuto dire alla pm – grazie all’indagine, come dire, informale di Pellecchia. Un principio di riscontro alle dichiarazioni di Ruotolo, ma nulla di piú.

Le conversazioni telefoniche – fisso e cellulare – di Savicchio erano del tutto inutili, ai fini investigativi. Brevi comunicazioni di servizio, con il tono di chi non ha tempo da perdere e che, comunque, per costume consolidato, parla come se i suoi telefoni fossero sempre intercettati. Anche le captazioni ambientali non produssero risultati, a parte la pessima registrazione di ore e ore di musica heavy metal.

Ruotolo aveva detto che Savicchio si faceva prestare le macchine da alcuni amici concessionari e rivenditori di auto usate. Uno di questi aveva il suo autosalone nella periferia di Bari, verso la zona industriale, degli altri non sapeva nulla.

I carabinieri identificarono il concessionario e lo sentirono a verbale.

L’uomo ammise di conoscere Savicchio, di avergli venduto un’auto, anni prima, e di avergliene prestate altre; negò però, nonostante le insistenze degli investigatori, che ci fossero stati prestiti negli ultimi mesi.

Sembrava sincero, pensò Fenoglio. Dunque risentirono Ruotolo, per identificare qualcuno degli altri rivenditori amici di Savicchio, ma il brigadiere non poté che confermare quanto aveva già detto nel primo verbale: conosceva un solo concessionario, sapeva che ce n’erano altri, non chi fossero.

Le indagini patrimoniali, soprattutto quelle bancarie, richiedono tempo. Dai primi accertamenti risultò che Savicchio era proprietario dell’appartamento in cui abitava da scapolo, che pagava un mutuo e che la relativa rata era del tutto compatibile con lo stipendio di un maresciallo dei carabinieri. Risultò che aveva due auto e un conto corrente – quello su cui gli veniva accreditato lo stipendio – senza alcun movimento sospetto di denaro. Il suo tenore di vita era certo un po’ piú alto di quello di un normale sottufficiale dell’Arma e bisognava aspettare gli esiti degli altri accertamenti patrimoniali – conti e titoli in tutte le banche del territorio nazionale –, ma dopo dieci giorni di indagini alla ricerca di riscontri, i carabinieri e il pubblico ministero dovettero prendere atto di una spiacevole verità. Quasi niente di quello che aveva detto Ruotolo aveva trovato conferma nelle indagini di polizia giudiziaria.