19.

I due si salutarono con un cenno del capo. Per la prima volta da quando la perquisizione era iniziata, Savicchio parve incerto su come comportarsi. Fino a quel momento aveva tutto sotto controllo, gli era chiaro il senso di quello che stava succedendo e non percepiva alcun pericolo. L’arrivo dell’appuntato, quasi alla fine di tutto, sfuggiva allo schema.

– Hai chiesto se ci sono cantine o box auto? – chiese Pellecchia a Fenoglio entrando nel salone.

– Dice di no. Comunque appena finiamo qua andiamo a dare un’occhiata giú, per controllare, giusto per scrupolo.

Grandolfo e Montemurro stavano rimettendo a posto i manifesti. Il capitano era andato via poco prima. La pm gli aveva detto che non era necessario che si trattenesse oltre. Era un’attività di indagine seguita direttamente da lei; tre militari erano piú che sufficienti per assisterla, visto che si trattava solo di redigere e sottoscrivere un verbale di vana perquisizione.

– Buongiorno, dottoressa, – disse Pellecchia. Lei alzò lo sguardo dal foglio.

– Buongiorno, appuntato, in effetti mi ero chiesta come mai non fosse venuto anche lei.

– Ho avuto una piccola difficoltà, sono venuto appena possibile.

– Un po’ tardi, temo. Qui stiamo per finire.

Pellecchia si guardò attorno, come per orientarsi. A un certo punto si immobilizzò, per qualche lunghissimo istante, con la testa girata sulla sua destra: fissava uno dei manifesti, sul muro. Poi distolse lo sguardo in modo brusco. – Possiamo parlare? – disse subito dopo rivolgendosi a Fenoglio, negli occhi un’improvvisa frenesia.

– Andiamo sul balcone.

– Hai guardato dietro quel manifesto, quello del Mucchio selvaggio?

– Abbiamo guardato dietro tutti i manifesti, gli specchi e i mobili. Non c’è niente. Perché mi chiedi proprio di quello?

Pellecchia tirò su col naso. – È il suo nome.

– Cosa?

– Il mucchio selvaggio è l’anagramma di Guglielmo Savicchio. Ti ricordi, te l’avevo detto? Lo stronzo è ossessionato dagli anagrammi e dalle parole lette al contrario.

– Mi ricordo.

– Gli piaceva da morire che l’anagramma del suo nome fosse il titolo di quel cazzo di film, anche se non mi ricordo per quale motivo.

– Secondo te c’è spessore sufficiente per un nascondiglio?

– Sí, è il muro esterno, a occhio sono almeno trentacinque, forse quaranta centimetri.

– Dobbiamo guardare di nuovo lí dietro, – disse Fenoglio parlando lentamente, scandendo le parole come per compensare l’accelerazione del battito cardiaco.

Rientrarono. La scena aveva una sua strana immobilità, quasi metafisica. La pm era seduta al tavolo del soggiorno. Savicchio in piedi, con le mani dietro la schiena, sembrava ammanettato. Grandolfo e Montemurro stavano finendo di riappendere l’ultimo manifesto ed erano lí, quasi fermi in un gesto sospeso.

– Come mai hai questo? – disse Fenoglio avvicinandosi alla parete su cui era appeso il manifesto del Mucchio selvaggio.

– Mi piace il film, questo è un manifesto originale, l’ho trovato da un rigattiere.

A Fenoglio parve di cogliere un lampo di paura negli occhi, un’impercettibile incrinatura nella voce. Forse era solo immaginazione, pensò. O forse no. Forse stava per arrivare uno di quei momenti, cosí rari nelle indagini, in cui una congerie di materiale inutile e caotico si mette d’un tratto a funzionare tutta insieme, in ordine, come una macchina perfetta.

Prese il manifesto, lo poggiò sul divano e cominciò a battere con le nocche sul muro. La dottoressa smise di scrivere, gli altri militari si voltarono a guardare, Savicchio era immobile, come pietrificato. Dopo quattro o cinque colpi il muro restituí un rumore di cavità, poi un altro e un altro ancora, proprio al centro dello spazio occupato dal manifesto.

– Cosa c’è lí? – chiese la D’Angelo.

– Mi dà l’idea di un piccolo ripostiglio molto ben nascosto, – rispose Fenoglio, scandendo bene le parole.

Lei si alzò, si avvicinò, provò anche lei a bussare e il muro di nuovo produsse il nitido suono di una cavità percossa.

– Faccia portare un piccone.

– Cosa volete fare? – disse Savicchio. Adesso l’incrinatura nella voce era inequivocabile, come un cristallo filato che stesse per infrangersi.

– Temo che ci toccherà danneggiare il tuo muro, a meno che non ci sia un modo meno brutale per vedere cosa c’è qui dietro.

– Non potete… non è previsto… non potete sfondare un muro. Chi paga i danni?

La D’Angelo lo fissò per qualche istante, quasi volesse imprimersi bene nella memoria quella faccia per non dimenticarla piú. Quando parlò c’era qualcosa di feroce e ineluttabile nella piega della sua bocca.

– Ci faccia causa.

Successero molte cose in sequenza, come segmenti di un destino che si compie con ordine. A volte capita.

Fenoglio si fece consegnare la pistola di Savicchio, perché, come aveva ricordato Lopez, fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Arrivarono altri carabinieri muniti di piccone, martelli, punteruoli, e con loro tornò anche il capitano. Pochi colpi di piccone ben dati sbriciolarono un pannello di cartongesso, mostrando un piccolo vano di forma cubica. All’interno c’erano tre fagotti di stoffa morbida e un sacchetto di plastica.

Poggiarono tutto sul tavolo e controllarono, anche con le torce, che nella nicchia non ci fosse piú niente. I tre involti di stoffa rivelarono altrettante pistole perfettamente oliate, ognuna con una scatola di munizioni: una Colt 38, una Sig Sauer calibro 9 e una Beretta 6.35.

Savicchio era livido, aveva le labbra bluastre, come quelle di un morto o di uno che non riesce a respirare. Il che, con ogni probabilità, era proprio quello che stava succedendo.

Fenoglio controllò le armi per assicurarsi che fossero scariche. Poi cercò i numeri di matricola che, com’era facile immaginare, non c’erano, erano stati limati. Detenzione abusiva di armi clandestine e relativo munizionamento, arresto obbligatorio in flagranza. Recitò mentalmente quelle frasi, come formule segrete per decifrare la brusca deviazione che avevano preso gli eventi.

Il sacchetto di plastica conteneva soldi – molti soldi – e una bustina trasparente con dei brillanti. La D’Angelo, che non aveva detto una parola da quando avevano cominciato a sfondare il muro, prese una delle pietre fra pollice e medio e la sollevò verso la luce, per guardarla.

– Tagliata benissimo, trasparente, peserà almeno due carati. Forse di piú, – disse con tono astratto, parlando da sola. C’era qualcosa di ingenuo, quasi infantile, in quel gesto e nel tono della sua voce. L’improvvisa manifestazione di un tratto femminile che non le era consueto.

– Credo che dovremo riscrivere il verbale, – disse poi, rimettendo a posto il brillante con cautela.

– Quanti sono? – chiese Fenoglio, indicando il denaro.

Savicchio scosse la testa, come uno che non capisca la lingua. – Sono miei, sono risparmi…

– Certo non sono miei. Vorrei conoscere il tuo consulente finanziario, deve essere bravo.

– Forse è meglio spostarci in caserma, – disse la D’Angelo, appallottolando il verbale di vana perquisizione, quasi completo, pronto per essere firmato.

– Hai le manette? – chiese Fenoglio, rivolgendosi a Pellecchia. L’altro lo guardò come per essere sicuro di avere capito bene; poi fece sí col capo, lentamente, e le estrasse da una custodia agganciata alla cintura.

– Che bisogno c’è delle manette? Sono un collega, – disse Savicchio.

Collega. Fenoglio scandí mentalmente la parola, come se la sentisse per la prima volta.

– Dottoressa, che bisogno c’è delle manette? – ripeté Savicchio, con un tono di implorazione che aveva qualcosa di osceno.

– L’arresto in flagranza e le relative modalità sono competenza esclusiva della polizia giudiziaria. Non posso dare nessuna disposizione sul punto, signor Savicchio –. Lo disse calcando l’accento sulla parola «signor». Signor Savicchio, non maresciallo Savicchio. Non piú.

Pellecchia si avvicinò.

– Metti le mani dietro la schiena, – disse soltanto.