15.

Fecero in fretta.

La prima fase degli interrogatori di Lopez si protrasse fino al 28 maggio.

Poi, per dieci giorni, Fenoglio e la sua squadra lavorarono senza interruzione. Fecero molti sopralluoghi, accompagnati da Lopez. Riaprirono fascicoli, sfogliarono relazioni di servizio, recuperarono intercettazioni, deposizioni, vecchi verbali di arresto e di sequestro.

Il collaboratore di giustizia aveva riconosciuto in fotografia sessantotto soggetti, indicandoli come affiliati alla Società Nostra. I carabinieri trovarono riscontri significativi per quarantuno di loro e, con una informativa di oltre cinquecento pagine, ne chiesero il fermo alla Procura della Repubblica.

La D’Angelo si chiuse in ufficio e dopo quattro giorni il provvedimento di fermo era pronto. Le accuse andavano dall’associazione mafiosa all’omicidio; dalla rapina all’estorsione; dal traffico di stupefacenti alla detenzione e al porto di armi ed esplosivi. Piú molte altre imputazioni minori.

Rimaneva fuori dalla prima fase dell’operazione tutta la rete degli spacciatori di strada. Lopez aveva spiegato che non erano affiliati all’associazione mafiosa; erano molto meno pericolosi degli altri e il chiarimento delle loro singole posizioni richiedeva tempi investigativi piuttosto lunghi. A una seconda fase si rinviavano anche gli accertamenti sulle dichiarazioni di Lopez relative a politici, a dipendenti comunali, a poliziotti e carabinieri che – a pagamento – avrebbero rivelato agli uomini del clan informazioni riservate. Tutti accertamenti piú delicati e lunghi e incompatibili con l’urgenza dei fermi.

Fu cosí che la sera del 12 giugno 1992 il capitano Valente e il maresciallo Fenoglio andarono in procura a ritirare i provvedimenti da eseguire nella notte. Erano accompagnati da quattro carabinieri, per trasportare gli scatoloni con le copie dei voluminosi decreti, tante quanti erano gli indagati cui notificarle. Pioveva e il termometro indicava l’incredibile temperatura di 11 gradi.

Le metafore atmosferiche sono fra le piú efficaci e potenti. Fenoglio lo aveva letto da qualche parte, ma non ricordava dove.

– I nostri superiori vorrebbero dare un nome all’operazione. È una cosa che facciamo sempre, lo sa. Ce lo chiedono da Roma, per il comunicato stampa, per i giornali e le televisioni, – disse il capitano, con un po’ di imbarazzo.

La D’Angelo lo guardò senza dire niente. Fenoglio era convinto che si sarebbe accesa una sigaretta, ma non lo fece.

– Magari lei ha un nome da dare all’operazione, dottoressa?

Fuori era buio e la pioggia batteva con una cadenza autunnale.

– Estate fredda.

– Eh, sí, freddissima, veramente incredibile. Anche se a rigore manca ancora qualche giorno al 21 giugno, – rispose il capitano.

– Volevo dire: Estate fredda. Il nome che mi stava chiedendo. Sarà davvero difficile dimenticarcela.

Era vero. Sarebbe stato molto difficile dimenticare quell’estate.

Nessuno andò a dormire. Il concentramento del personale nella caserma del battaglione, per la formazione delle pattuglie – una per ogni soggetto da sottoporre a fermo – e per le istruzioni sull’esecuzione, era fissato alle due di notte. Gli uomini coinvolti erano centocinquanta. Il colonnello diede il suo fondamentale contributo disponendo che, una volta eseguiti i provvedimenti, si alzasse in volo un elicottero; gli fu detto che l’elicottero non era necessario perché non c’era il rischio che qualcuno si desse alla macchia in campagne inaccessibili ai normali mezzi su ruote. Rispose che l’elicottero era indispensabile per le televisioni. Essendo lui il colonnello, l’argomento parve inoppugnabile, nessuno si sentí di fare obiezioni e la questione fu chiusa.

Alle tre in punto decine di vetture uscirono dal cortile della caserma, ciascuna con un indirizzo e un nome. Fenoglio, il capitano e Montemurro, accompagnati da una seconda auto di supporto, erano diretti a casa di Grimaldi Nicola, anche detto il Biondo, anche detto Tre Cilindri.

Aveva smesso di piovere. Le strade erano deserte, nere e lucide. Nessuno parlava. Puoi aver fatto quel lavoro per tanti anni, ma quando stai per entrare, di notte, nella casa di un pluriomicida per prenderlo e portarlo in carcere, non ci sono certezze. Di regola i pregiudicati seri non fanno storie quando vai ad arrestarli, sanno che non è una buona idea per molte ragioni e dunque si lasciano mettere le manette, nella speranza che i loro costosi avvocati trovino il grimaldello per riaprirle. Però non si sa mai: è impossibile prevedere tutte le reazioni.

Arrivarono a Santo Spirito dopo essere usciti dalla tangenziale. All’ingresso dell’abitato trovarono ad aspettarli – il saluto fu un colpo di abbaglianti – la macchina del maresciallo Fornaro, che avrebbe fatto da ulteriore scorta. Le tre vetture scivolarono silenziose fra palazzine anonime, villette e giardini malandati, scorci improvvisi da cui s’intravvedeva – s’intuiva – il mare.

Passarono davanti a un panificio con la saracinesca semiaperta e la porta socchiusa. Fenoglio si immaginò l’odore delle pagnotte, della focaccia e dei maritozzi.

L’insegna al neon di un pub chiuso lampeggiava nell’oscurità a scatti irregolari, come se singhiozzasse.

Cinque minuti dopo erano sotto casa di Grimaldi. Davanti al portone, per almeno dieci metri da un lato e dall’altro non c’erano auto parcheggiate, come se ci fosse stato un divieto di sosta. Ma non c’era nessun cartello stradale. Evidentemente gli abitanti della zona sapevano che lí non si doveva lasciare la macchina. Non c’era bisogno di segnaletica.

Fenoglio schiacciò il pulsante del citofono. Dopo un minuto trascorso senza ottenere risposta lo schiacciò di nuovo, piú a lungo. Rispose una voce di donna.

– Aprite, carabinieri.

– Che volete, a quest’ora? – l’astio che virava in una nota rabbiosa e in una vibrazione isterica. Era la moglie di Grimaldi Nicola, lo sapeva benissimo cosa vogliono i carabinieri se si presentano a casa alle tre e mezza di notte.

– Apra, dobbiamo parlare con suo marito.

La donna non aprí e non disse nulla. Si sentiva solo il fruscio dissonante del vecchio citofono.

– Signora, se non apre dobbiamo buttare giú il portone, e poi anche la porta di casa.

Trascorsero ancora una decina di secondi e il portone emise un rapido, sordo ronzio seguito da uno scatto. Fenoglio, il capitano, Montemurro e Fornaro salirono a piedi i due piani di scale. Gli altri carabinieri rimasero giú, a sorvegliare le auto e la situazione in generale. Di lí a poco, con l’inizio dell’esecuzione dei fermi, il quartiere si sarebbe piuttosto movimentato.

Trovarono Grimaldi che li aspettava sulla porta, in pantaloni del pigiama e canottiera. Aveva i capelli castano chiari scompigliati e troppo lunghi per un uomo ormai vicino ai cinquanta.

Guardò con una deliberata espressione di disprezzo le pistole che Valente, Montemurro e Fornaro tenevano in mano, il braccio disteso lungo la gamba, la canna rivolta verso il pavimento.

Fenoglio aveva le mani libere.

– Vestiti, Grimaldi, devi venire con noi.

– Che ho fatto? – disse quello, senza scostarsi dalla porta.

– Parecchie cose, sembra, – gli rispose Fenoglio, consegnandogli la copia del fermo. – Spostati, che dobbiamo anche fare la perquisizione.

La perquisizione era una formalità – nessuno si immaginava che Grimaldi Nicola tenesse proprio in casa sua armi, droga o altro materiale illecito – ma richiese comunque una mezz’ora. In quello spazio di tempo Grimaldi aveva buttato giú dal letto il suo avvocato, si era vestito, si era fatto preparare dalla moglie un borsone di indumenti per il carcere e aveva cominciato a sfogliare il decreto. Fenoglio notò che maneggiava il documento con i gesti esperti di chi, non avendo mai studiato, ha però estrema dimestichezza con gli atti giudiziari.

– Cudd’ chin’ d’ merda cornut’ ’nfmone, – ringhiò a un certo punto, in modo che tutti potessero sentire. Non ci voleva un interprete per capire che stava parlando di Lopez.

– Gli devo mangiare il cuore. Devo morire cinque minuti dopo, ma gli devo mangiare il cuore.

Il capitano parve sul punto di replicare qualcosa; Fenoglio gli fece un cenno col capo. Come un consiglio: meglio lasciarlo sfogare.

Gli misero le manette.

– Almeno quel grandissimo pezzo di merda vi ha detto come mi ha ammazzato il figlio? Ora che fate, gli date la medaglia per la sua infamità vigliacca di merda?

Ci fu un breve silenzio.

– Dice che non è stato lui, – rispose Fenoglio. Lentamente, a voce bassa.

Grimaldi li guardò tutti, a uno a uno, con gli occhi pieni di rabbia incredula.

– Tutti infami, voi e quella puttana della giudice femmina.

E sputò sul decreto, proprio dove c’era l’intestazione: Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari. Direzione Distrettuale Antimafia.