1.

Uscendo dalla sua casa solitaria per andare al lavoro, Fenoglio si ritrovò a pensare al figlio di Grimaldi e a chiedersi com’era, quel bambino, prima di diventare una vittima del caso.

Perché tutti sono vittime del caso, anche negli omicidi premeditati.

La sera prima era andato a rileggersi un brano del Pasticciaccio: «Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti»*.

Quello sconfinare nella speculazione filosofica era il segno piú evidente della frustrazione investigativa. Non ti metti a speculare – in ottima compagnia, per carità – sul caso, sul destino e sul concetto di causali convergenti se il tuo cervello ha qualcosa di concreto su cui lavorare. Com’era il bambino? Com’era stato? L’unica cosa che mancava nella montagna di carte del fascicolo – verbali, informative, autopsie, deleghe, relazioni di servizio – era proprio questo. Era un bambino normale, nato nella famiglia sbagliata? Era un piccolo balordo che sarebbe diventato un criminale come suo padre? Oppure aveva qualche attitudine, qualche talento, qualche dote speciale e nascosta?

Stava andando a scuola. Allegro, tranquillo, annoiato, arrabbiato, chi lo sa, ma comunque ignaro di tutto. Ignaro anche del difetto nel suo cuore; di quell’eredità paterna e fatale. D’un tratto tutto era cambiato. E poi tutto era finito.

Chissà cosa aveva pensato, mentre lo prendevano. Chissà cosa aveva pensato – ma si pensa in quei momenti? – quando aveva sentito il cuore che gli mancava. Cos’era, una fitta? Un dolore lacerante? Qualcosa che ti esplodeva dentro? Fenoglio una volta aveva sentito in un documentario che le persone assalite da una belva perdono conoscenza prima ancora di percepire il dolore fisico. Pare che il corpo rilasci delle sostanze analgesiche, come una specie di anestesia per garantire una morte dolce, senza dolore e senza paura. Chissà se era vero. Chissà se esiste, la morte dolce. A lui la morte era sempre parsa amara, e brutta: aveva visto tanti cadaveri e quasi nessuno aveva un aspetto sereno o dignitoso. Quello che non smetteva di turbarlo, come un simbolo di oscenità, erano le bocche semiaperte e rigide dei morti ammazzati. Con quei denti in vista, quasi l’uccisione li avesse restituiti a una dimensione ferina e privati di ogni decoro.

Fece uno sforzo per togliersi dalla testa l’immagine del piccolo Grimaldi quando l’avevano ritrovato. Com’era ridotto, l’odore che dava, dopo oltre quattro giorni in quel pozzo.

Cosa pensava Pietro Fenoglio quando era un ragazzino? Quando andava a scuola o quando tornava a casa, o in certi pomeriggi infiniti d’inverno, senza la televisione.

Non lo sapeva, non ne aveva idea. L’assenza di ricordi sui propri pensieri era cosí totale da procurargli un senso di panico. Come se la sua vita interiore di ragazzino non fosse mai esistita. Ricordava un certo numero di eventi del mondo esterno, ma nulla di quello che aveva pensato; nulla di quello che aveva sognato.

Ma poi, si disse, qualcuno ricorda davvero i pensieri di quando era bambino o ragazzo? In generale: i pensieri del passato. Forse chiederlo a qualcuno non sarebbe stato male. Magari lo avrebbe aiutato a mettere le cose nella giusta prospettiva, a sentirsi meno anormale, meno sradicato dalla sua vita interiore.

Entrò nel Caffè Bohème a fare colazione. Nicola aveva messo l’aria del Rinaldo di Händel – Lascia ch’io pianga. Una delle sue preferite. Fenoglio pensò a un viaggio fatto qualche anno prima con Serena, a Salisburgo. Una donna cantava Lascia ch’io pianga per strada. Gli tornò nella mente, d’improvviso, l’atmosfera di quella vacanza, l’aria fresca e dolcemente stranita della città, con le coppie di anziani in abito da sera – ma era pomeriggio – che entravano o uscivano dai teatri. Provò una fitta di nostalgia e di altre emozioni dolorose. Io ti amo Serena, gli sfuggí sottovoce.

Si ritrovò in ufficio senza accorgersene. Senza ricordare la strada che aveva fatto per arrivarci, con una camminata di mezz’ora. Considerò che di lí a qualche anno non si sarebbe ricordato i pensieri di quella mattina e di quei giorni. Non li avrebbe ricordati. Non ne avrebbe ricordato nessuno. Tutto disperso, tutto perduto per sempre.

Accese il piccolo stereo che teneva in ufficio, e rimase fermo lí davanti all’impianto per qualche secondo, indeciso su cosa ascoltare. Si disse che voleva qualcosa di vivace, luminoso e scelse il concerto per flauto e arpa di Mozart. Lo aveva sentito un numero infinito di volte, e questa è una buona cosa con la musica, se cerchi un po’ di quiete.

Prese da un cassetto il blocco con gli appunti sulla vicenda del ragazzino. Un gesto nevrotico, per guadagnare tempo. Cosa ci fosse scritto sul blocco lo sapeva a memoria, eppure si mise lo stesso a sfogliarlo e a rileggere le brevi frasi, fatte di lettere nitide e quadrate.

In quel momento sentí bussare alla porta con una certa energia.

– Avanti!

Pellecchia entrò. Era di ritorno da qualche giorno di licenza e sembrava in gran forma, abbronzato, dimagrito, con i capelli tagliati corti. Indossava una camicia bianca ben stirata, invece delle solite magliette dall’aria un po’ sdrucita. Sembrava che il sole lo avesse pulito e asciugato.

– Tonino.

– Maresciallo –. L’appuntato lo squadrò per un istante: – Sai che non hai un bell’aspetto? Non ti sei preso qualche giorno di pausa?

– No.

– Sei stato chiuso qui dentro dalla mattina alla sera, come sempre?

Fenoglio si alzò per abbassare al minimo il volume della musica.

– In effetti sí, piú o meno.

– Tua moglie?

– Sta facendo il presidente di commissione per gli esami di maturità, a Pesaro.

Pellecchia parve riflettere, come per interpretare la situazione ed elaborare una strategia. – Senti, Pietro, la mia compagna ha un sacco di amiche single. Alcune non sono niente male. Belle quarantenni, divorziate, in forma. Un paio sono anche delle gran porche. Adesso dico ad Agnese di organizzare, una sera di queste. Usciamo in quattro, andiamo a mangiare…

– Grazie. Non appena sono pronto a uscire con qualche bella quarantenne, divorziata, in forma…

– … e porca.

– … e porca, sí. Appena sono pronto, tu sarai il primo a saperlo.

Pellecchia tirò su col naso. C’era qualcosa di piú autentico nella sua espressione, come se stesse dismettendo il ruolo che aveva interpretato per tanto tempo.

– Sei stato in vacanza?

– Cinque giorni alle isole Tremiti. Le conosci?

– Bellissimo posto. Però ricordo che c’erano le meduse.

– Quest’anno niente meduse. Ho fatto le immersioni, preso il sole, mangiato, bevuto e tutto il resto. Insomma, ci siamo capiti.

Altra pausa.

– Ti sei fissato con il ragazzino, vero? – disse poi Pellecchia, cambiando tono.

Fenoglio annuí.

– Non eri tu quello che diceva che ci vuole distacco in questo lavoro, altrimenti si diventa matti?

– Ero io. La coerenza non è una mia qualità.

Pellecchia tirò fuori un mozzicone di sigaro dal taschino della camicia e se lo mise in bocca.

– Hai trovato qualcosa?

Fenoglio fece una smorfia involontaria e scosse il capo.

– Sembra un rompicapo. Da qualunque parte la prendi, non quadra.

– Certo Lopez e i suoi sarebbero stati i colpevoli perfetti.

– Se sono stati loro e non l’abbiamo capito, è meglio che andiamo a coltivare la terra. Ma se non sono stati loro, chi può essere stato? Chi poteva essere cosí pazzo da esporsi a un pericolo del genere?

Pellecchia si mosse sulla sedia. Fenoglio pensò che sembrava un poco a disagio.

– Posso accendere?

– Vai.

Pellecchia si accese il sigaro con un fiammifero svedese, soffiò una nuvola di fumo grigio e denso. Fenoglio pensò che se quella fosse stata la scena di un romanzo, l’ipotetico scrittore avrebbe scritto: «fumo azzurrino». Lui però, nel mondo reale, il fumo azzurrino non l’aveva mai visto, come molte altre cose di cui parlavano certi romanzi.

– E l’idea classica del maniaco?

– Ci ho pensato e ho provato a lavorarci. Il medico legale, in ogni caso, ha escluso la violenza sessuale, anche se c’è traccia di percosse. Il bambino aveva un difetto al cuore, come suo padre. Nessuno lo sapeva. Ha avuto un arresto cardiaco, probabilmente al momento stesso del sequestro, o poco dopo.

– In ogni caso l’idea del maniaco non quadra con la richiesta del riscatto. Ce lo vedi uno di questi maiali bavosi di merda a progettare un’estorsione a uno come Grimaldi?

– Uno psicopatico potrebbe fare una cosa del genere.

– Psicopatico nel senso di pazzo?

– Psicopatico nel senso del disturbo della personalità. Gli psicopatici non sono pazzi, sono del tutto anaffettivi – non hanno nessun tipo di sentimento – e manipolatori. Ragionano perfettamente e possono stuprare, torturare e uccidere senza avvertire nemmeno una punta di rimorso. I serial killer, per esempio, di regola sono psicopatici –. Fenoglio si interruppe e sorrise. – Sto facendo il perfettino, vero?

– Stai facendo il professore, in effetti. Però ho capito. Uno molto cattivo, magari anche un maniaco, ma che può essere intelligente. Ti sorride mentre ti taglia i coglioni.

– Esatto. I testi di criminologia sono pieni di storie su soggetti del genere. In teoria potrebbe quadrare.

– E dunque?

– E dunque ho pensato che, se l’ipotesi aveva un senso, un tizio cosí non poteva essere alle prime armi. Non poteva essere la prima volta. Per fare una cosa simile, oltre all’indole, devi avere la pratica. Devi aver fatto una specie di tirocinio. Inoltre, per sapere chi è Grimaldi – e sapere che può raccogliere in poco tempo tanti soldi – devi essere della zona. Cosí ho fatto un po’ di ricerche sui soggetti con precedenti specifici.

– E cosa hai trovato?

– Ho controllato quelli con precedenti per violenza carnale, atti di libidine, atti contrari alla pubblica decenza, atti osceni e abitanti nel nord barese. Un criterio arbitrario, poco piú che casuale, lo so. Ma era giusto un tentativo, come mettere una fiche su un numero della roulette.

– Quanti ne hai trovati?

– Parecchi, a prima vista. Ma andando a guardare da vicino, molti erano disgraziati che girano nei giardini di sera e quando passa una ragazza si aprono l’impermeabile per farle vedere l’oggetto. Qualcuno aveva condanne per violenza carnale, ma si trattava di episodi occasionali, lontani nel tempo. Fra quelli con precedenti piú seri e ripetuti diversi erano in carcere e qualcuno era andato a vivere da un’altra parte. Insomma ne sono rimasti due che in teoria potevano corrispondere allo schema.

– E questi li hai controllati?

– Sí.

– Hai lavorato da solo?

– Sí.

– Perché non ti sei fatto aiutare?

– Non lo so. Forse non ci credevo nemmeno io.

– E questi due?

– Sono andato a trovarli, per guardarli in faccia. Uno è un mezzo demente, il classico bruto. Ritardato mentale, con una situazione familiare spaventosa. Condannato due volte per abusi su bambini. Avresti dovuto vedere la casa, nel mezzo del Cep. Non ha la patente, non sa guidare la macchina e con tutta la fantasia del mondo era impossibile immaginare che fosse il nostro uomo.

– E l’altro?

– L’altro l’ho visto ieri, in sedia a rotelle. Ci sta da diversi anni. Era stato accusato di aver violentato una bambina, alla fine del processo l’avevano assolto e scarcerato. Qualche giorno dopo un gruppo di persone incappucciate gli ha rotto la schiena. I responsabili sono rimasti ignoti. Lui non si è piú alzato in piedi.

– Conosco la storia. I responsabili non sono affatto ignoti: sono stati il padre e gli zii, e hanno fatto bene. Quella è stata l’ultima bambina violentata dal pezzo di merda.

– Apprezzo il tuo garantismo.

– Giustizia del cazzo. Niente altro?

– Ho pensato di lavorare sui sequestri lampo.

– Quella roba che ci ha raccontato il cantante?

– Il cantante?

– Lopez, l’infamone. Il pentito.

– Adesso mi ricordo perché non parlavamo molto, tu e io.

– Ho bisogno di un caffè doppio.

– Anch’io. Poi dobbiamo vedere una persona.

* C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 2011.