7.
La mattina dopo andò a cercare Pellecchia e lo trovò nel cortile della caserma, che chiacchierava amichevolmente con un ragazzotto ammanettato. La scena aveva una sua grottesca normalità.
– Andiamo su, dobbiamo parlare.
– Cosa è successo?
– Un’idea. Tanto assurda che al momento non mi sentirei di parlarne con i superiori o con il pm. Siccome questo pezzo di indagine lo abbiamo fatto insieme, posso discuterne solo con te.
– Non ho capito un cazzo. Ma va bene.
Arrivarono nell’ufficio di Fenoglio. Lui chiuse la porta e si sedette sulla scrivania.
– Allora?
– E se il sequestro del piccolo Grimaldi lo avessero fatto dei poliziotti o dei carabinieri?
Pellecchia non rispose subito e non manifestò stupore. Andò a sedersi, come se ne avesse bisogno, e accese un sigaro senza chiedere il permesso.
– Perché ti è venuta questa idea?
Neanche Fenoglio rispose subito. La reazione di Pellecchia era strana. Aveva una strana lentezza. Cercò di decifrarla e non ci riuscí.
– Mi era passato per la testa quando Angiuli ha parlato di manette, cioè quando ha detto che il padre è stato ammanettato. Un’associazione ovvia, senti manette e pensi sbirri. Per di piú quelli avevano detto di essere della polizia. Quando è stato chiaro che si trattava di manette di plastica, ho lasciato perdere l’idea. Quelle fascette se le può procurare chiunque da un ferramenta.
Pellecchia tirò su col naso; poi si passò la mano sul mento. Annuí serrando le labbra. Sembrava quasi che sapesse già ciò che Fenoglio stava per dirgli.
– Ieri ho incontrato un tizio che ho arrestato per una tentata rapina un paio di mesi fa, proprio il giorno che abbiamo saputo del sequestro del bambino e c’è stata la sparatoria a Enziteto. Ci siamo fermati a fare due chiacchiere e lui a un certo punto ha detto una cosa che mi ha fatto tornare in mente l’ipotesi. Cosí ho deciso di fare un controllo.
– Cioè?
– Ho verificato i precedenti e le pendenze delle persone sequestrate e dei loro familiari.
– Giusto. Cazzo, giusto, – disse Pellecchia dopo aver riflettuto. – Ne è venuto fuori qualcosa?
– Il gioielliere non ha nemmeno una guida senza patente.
– E l’altro?
– Anche Angiuli è formalmente incensurato. Però, consultando il Ced e facendo qualche telefonata, ho scoperto che di lui si è occupata la Procura di Napoli con la Finanza di qua; arrivo adesso dalla loro caserma, ho parlato con un mio amico, maresciallo dell’antidroga. Sono convinti che sia coinvolto in un grosso traffico internazionale di stupefacenti, dal Venezuela all’Italia, passando per la Spagna. Questa almeno era l’ipotesi investigativa. Ha sposato una donna venezuelana che secondo i finanzieri appartiene a una famiglia di trafficanti di quel Paese. Hanno indagato su di lui per mesi.
– Con che risultati?
– Niente. La Finanza dà per scontato che lui e la moglie siano il motore di questo traffico e che l’impresa di costruzioni sia solo uno strumento di riciclaggio. Però non è emerso nulla di concreto.
Il viso di Pellecchia, che fino a quel momento era stato inespressivo, parve riprendere vita.
– Un trafficante. Lo sapevo che quella faccia di merda non me la diceva giusta.
– Appunto. Immaginiamo per un attimo che la mia ipotesi abbia un senso. Immaginiamo che fra i responsabili del sequestro di Angiuli padre e del sequestro del bambino ci sia un carabiniere, o un finanziere, o un poliziotto. Qualcuno che ha accesso a informazioni riservate, o comunque che sa chi sono i delinquenti, quelli che hanno i soldi e che, d’altro canto, molto difficilmente si rivolgerebbero alle forze di polizia per denunciare il sequestro.
– In realtà nessuno di quelli che hanno subito i sequestri brevi ha mai denunciato.
– Hai ragione. Ma supponiamo che tu e io decidiamo di metterci a fare i sequestri. Vogliamo massimizzare i guadagni e ridurre al minimo dei minimi i rischi. A chi pensiamo come vittime, se siamo dei figli di puttana davvero decisi e intelligenti e senza scrupoli? A gente che ha immediata disponibilità di grosse somme in contanti e che non desidera affatto che tale disponibilità venga a conoscenza delle forze dell’ordine e della magistratura. Siccome siamo sbirri abbiamo accesso a informazioni riservate e siccome siamo sbirri criminali abbiamo le palle – magari la cosa ci eccita pure – per andare a prendere il figlio di un capo come Grimaldi nel pieno di una guerra di mafia con i suoi avversari, lasciando credere a tutti che i responsabili del sequestro siano appunto questi.
Pellecchia non rispose. Si diresse alla finestra che si affacciava sul cortile. Guardò fuori, socchiudendo gli occhi. Come se non riconoscesse ciò che vedeva; o come se d’un tratto, in quel preciso momento, avesse notato qualcosa che non aveva mai visto prima.
– Tutto bene? – gli domandò Fenoglio.
L’altro si voltò, come rendendosi conto in quel momento di non essere solo nella stanza.
– Ti va se facciamo due passi?
Fenoglio lo fissò a lungo. – Va bene, – disse infine.
Appena furono usciti una gigantesca nuvola bianca coprí il sole. Pellecchia mise le mani in tasca. Camminava e si guardava attorno. Come sperduto. Fenoglio pensò che non lo aveva mai visto con le mani in tasca. Le difformità. Le increspature. Le regolarità che d’un tratto perdono il loro ritmo e poi si riallineano in modo diverso.
– Andiamo dalla parte del mare –. Attraversò senza aspettare la risposta di Fenoglio. – L’acqua mi piace. Mi piace il mare. Mi piace andarci dentro, nuotare, navigare. Mi piace guardarlo. Mi fa sentire pulito. È una bella sensazione.
– Sentirsi puliti?
– Sí, una bella sensazione. Quando capita.
Si fermò vicino a un lampione di ghisa, a osservare l’orizzonte. Alla fine scosse la testa.
– Una volta ti ho sentito dire che sei diventato carabiniere per caso.
– Piú o meno, sí.
– Non riesco a capire come si possa fare il carabiniere per caso.
Fenoglio scrollò le spalle. Le nuvole si muovevano rapide per via del vento. L’aria profumava di salsedine. C’era qualcosa di drammatico e dolce nel fondale di quella scena.
– Facciamo quasi tutto per caso. Anche se perlopiú non ne siamo consapevoli, – disse Fenoglio. Si pentí immediatamente della sua frase, pensò che era banale.
– A volte non capisco quello che dici, – replicò Pellecchia. – Comunque io ho voluto fare il carabiniere.
– Perché?
– Perché non ero abbastanza bravo a giocare a calcio.
– In che senso?
– Giocavo. Ho fatto anche dei provini con squadre di serie B, ma è stato subito evidente che non sarei andato oltre i campionati interregionali e che non mi sarei guadagnato da vivere con il pallone. Da bambino se mi chiedevano cosa volevo fare da grande dicevo: il calciatore o il carabiniere. Escluso il calciatore, che era il sogno numero uno, sono passato al carabiniere, che era il numero due. Ma a parte i desideri da bambino, sai perché ho fatto il carabiniere?
– Perché?
– Perché i delinquenti non mi piacevano. Perché mi facevano paura, anche se non lo avrei mai ammesso. Volevo stare da una parte, volevo che le cose fossero chiare. Buoni e cattivi. I cornuti e gli altri, noi. Le regole. Chi le rispetta e chi no. Sono entrato a diciott’anni e molto presto ho capito che le cose non erano chiare affatto.
– Non è cosí facile stabilire chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
– Appunto.
Appunto, pensò Fenoglio. La questione delle regole, poi, è ancora piú complicata. È sbagliato violarle in modo sistematico, ma è anche impossibile rispettarle sempre. A volte si lascia andare qualcuno che si dovrebbe arrestare. A volte si forza la mano su qualcun altro e lo si rinchiude anche se mancherebbero i presupposti. Non ci si muove nel mondo di sotto se non si gestisce il rapporto con le regole in maniera elastica. Le regole ci sono, e di regola vanno rispettate, ma bisogna essere disposti a metterle da parte, almeno ogni tanto. Altrimenti meglio lasciar perdere certi lavori. Il bianco e il nero sono concetti astratti. C’è un ampio territorio grigio nel quale bisogna muoversi con circospezione, perché le mappe sono imprecise.
– Supponiamo che io abbia fatto delle cose… sbagliate. E supponiamo che te le racconti. Cosa faresti di queste informazioni? – domandò Pellecchia. Fenoglio si sorprese a tirare su col naso, proprio come faceva l’appuntato.
– Dipende.
– Da cosa?
– Da quello che mi racconti. E dalle ragioni per cui me lo racconti.
– Reati. Commessi da me.
Le nuvole continuavano a muoversi veloci, facendo apparire e scomparire il sole. – Se non ci sono ottime ragioni forse è meglio che non mi dici altro.
Pellecchia diede una boccata al sigaro e soffiò il fumo. – E se fosse utile per l’indagine?
– Quale?
– Questa del bambino.
Fenoglio lo guardò. Lo guardò come non aveva mai fatto prima, probabilmente. Fece quasi un inventario dei suoi connotati, neanche avesse dovuto registrarli per poi descriverlo con la massima precisione possibile. Il naso un po’ storto; la pelle resa spessa da molto sole preso senza alcuna cautela o protezione; le sopracciglia lunghe e gli occhi grigi, verdi alla luce del sole; i capelli brizzolati, corti e fitti. Era vero, assomigliava a De Niro. Fenoglio pensò che era strano non averci mai fatto caso.
– Magari non c’entra un cazzo. Magari invece è importante. Non lo so.
– Fammi capire se ti sto seguendo. Ci sono delle cose che hai fatto, o in cui ti sei trovato coinvolto, che potrebbero aiutarci nell’indagine sul sequestro del bambino?
– Sí.
– Cose accadute di recente?
– No. Sono cose del passato… – Fece un gesto di esasperazione con le mani. Di esasperazione e di rabbia. – Oh, cazzo, basta con questo balletto. Ti dico tutto, poi fai quello che vuoi. Decidi tu, tanto questa roba, a questo punto, non me la posso piú tenere.
Fenoglio stava per ripetere che non poteva dargli garanzie. Ma non disse nulla, non aveva senso. Erano nel pieno della zona grigia. Il bianco e il nero sono concetti astratti.
– Ti secca se rimaniamo qui a parlare, davanti al mare? Non ho voglia di andare al chiuso.
– Certo, stiamo qua.
– Ti ricordi quando siamo andati dalla maga?
– Sí?
– Ti ho detto che mi vergognavo. Tu hai pensato che mi vergognassi di me in generale. In parte è cosí, ma in quel momento pensavo a una cosa precisa, che non sono mai stato capace di perdonarmi.
Pellecchia aveva un’espressione di consapevolezza che non gli era abituale.
– Lo conosci Guglielmo Savicchio?
– Quello che sta al nucleo comando, con il colonnello?
– Lui. Ne sai qualcosa?
– Lo conosco appena, non ci ho mai lavorato.
– Parecchi anni fa, tu non eri ancora arrivato a Bari, stavamo insieme al nucleo operativo.
– Aspetta, aspetta. È quello che ha ucciso un ragazzo in un conflitto a fuoco?
– Sí –. Poi, dopo una lunga pausa: – Eravamo insieme, quella volta. Avevo avuto una segnalazione buona, su un tizio che doveva trasportare mezzo chilo di cocaina per conto di certa gente del quartiere Libertà. Lo aspettammo vicino al box in cui doveva depositare la roba. Quello arrivando si accorse di noi; cercammo di bloccarlo e lui fece una manovra pazzesca con la moto riuscendo a evitarci e a scappare. Savicchio aveva già la pistola in mano. Prese la mira e sparò. Cinque colpi, la moto sbandò e il ragazzo cadde. Ci avvicinammo e quello stava morendo. Savicchio prese dal marsupio un’altra pistola, piccola, e sparò due colpi in direzione del punto in cui eravamo prima. Tutti e due finirono sulla fiancata di una macchina. Anche quei rumori me li ricordo benissimo. Sono i rumori quello che mi ricordo meglio, di quella sera. I cinque spari della sua pistola d’ordinanza; i due colpi della 6.35, come dei rami che si spezzano. Pulí quella scacciacani del cazzo con la camicia, per togliere le sue impronte, e la mise in mano al ragazzo.
Fenoglio ci mise un po’ per rendersi conto che stava trattenendo il respiro.
– Io gli chiesi che cazzo stava facendo. Lui era calmissimo. Disse che non mi dovevo preoccupare, che ci avrebbe pensato lui; la relazione di servizio e tutto il resto. Io ero caduto a terra e non avevo visto l’azione. Dovevo solo confermare che avevo sentito i colpi dell’altro.
– Che stai dicendo?
– Hai capito bene.
Per qualche istante Fenoglio fu avvolto da un senso insopportabile e soffocante di irrealtà.
– La 6.35 aveva la matricola abrasa?
– Certo.
– Tu sapevi che ce l’aveva?
– No.
– Hai confermato la sua versione.
– Sí. Ho firmato la relazione di servizio, e quando mi ha sentito il magistrato ho ripetuto le stesse cose.
– Perché?
– Non sapevo che fare, mi sono sentito in trappola. Tutto si è svolto troppo velocemente. Sono arrivati gli altri e lui ha raccontato quella storia; poi hanno chiesto a me e io ho confermato. Sai quando le cose ti succedono e ti accorgi che non ne hai il controllo?
– Porca puttana.
– Ma non era solo quello. Avevo paura. Avevamo fatto delle cose insieme –. Pellecchia sembrava aver preso la rincorsa, non si sarebbe piú fermato. – Cose illecite. Cose che capitano se lavori per tanto tempo sulla droga.
– Vai avanti.
Pellecchia tirò su col naso, si stropicciò gli occhi e andò avanti.
– Qualche volta quando facevamo i sequestri di droga, ne trattenevamo una parte. Serviva per i confidenti –. Poi si scosse come se un’idea spiacevole gli fosse d’un tratto venuta in testa e fosse necessario chiarire subito. – Mai messa una bustina in tasca a qualcuno per incastrarlo, però. Te lo giuro. La usavo solo per dei regali ai tossici che mi facevano le confidenze.
– E magari ve ne facevate un po’.
Pellecchia annuí senza nemmeno tentare di negare. – È successo, con delle ragazze che conosceva lui, ragazze che si volevano divertire. Se avevi la neve era tutto piú facile.
– Che altro hai fatto?
– Niente. Solo la droga.
La frase rimase sospesa nell’aria per qualche minuto. L’odore del mare era diventato piú intenso.
– Savicchio, faceva altre cose.
– Cioè?
– Piú di una volta mi ha proposto di fare delle rapine. In una bisca, o a delle puttane. Io gli dicevo che non ero d’accordo e che comunque era troppo pericoloso. Lui mi rispondeva che non capivo un cazzo, che non facevamo niente di male, toglievamo i soldi a dei balordi, mica a delle persone per bene. Nessuno avrebbe mai denunciato e comunque era un lavoro sicuro, perché eravamo carabinieri. Andavamo col passamontagna e con la macchina di servizio ma con una targa rubata. Subito dopo l’azione ci toglievamo i passamontagna, rimettevamo a posto la targa e riprendevamo il nostro giro. Magari facevamo anche un arresto subito dopo.
– Tu pensi che lui le abbia fatte, queste rapine?
– Sí.
– Con chi?
– Non lo so.
– Con qualche… – Fenoglio si rese conto che non riusciva a usare la parola «collega», – … con qualche altro militare?
– È possibile. Come è possibile che abbia lavorato con dei delinquenti comuni. Lui è pazzo. Comunque dopo la storia del ragazzo chiesi di cambiare sezione. Mi misero all’antirapina, e un paio di anni dopo sono passato alla criminalità organizzata.
– Gli diedero la legittima difesa?
– Sí.
– Che c’entra questa storia col bambino?
Pellecchia strizzò gli occhi. Quando riusciva a farsi strada fra le nuvole, il sole era accecante.
– Savicchio parlava sempre di come si potevano fare soldi facili, era un’ossessione. Una volta disse che avremmo dovuto sequestrare la moglie di qualche grosso trafficante e chiedere il riscatto. Non sapevo se parlartene, perché se lo facevo dovevo anche dirti di me. Non riuscivo a decidermi, ma quando è saltata fuori la storia delle manette di plastica – e tu mi hai detto che il bambino aveva quel tipo di segni sui polsi – ho pensato che non potevo stare zitto.
– Perché?
– Perché Savicchio aveva la fissazione di questi gadget da sbirri dei film americani. Manette di plastica, spray urticanti, manganelli elettrici. In realtà era pieno di fissazioni di ogni tipo. Per esempio aveva l’ossessione della pulizia. Se stringeva la mano a qualcuno, correva subito a lavarsi, per liberarsi dai germi, diceva. Si depilava, anche le ascelle. E aveva la fissazione per gli anagrammi, oppure leggeva le parole al contrario. A volte mi chiamava Oninot.
– Come?
– Sarebbe Tonino letto al contrario. Lo faceva in continuazione, a volte intere frasi al contrario, a volte gli anagrammi. Io ero: Pennichella coito. Tonino Pellecchia.
Fenoglio si picchiettò la tempia con indice e medio: – Matto.
– Matto. La mia colpa è non averlo capito subito.
– Com’è possibile che una cosa cosí importante – che Savicchio immaginava di fare i sequestri di persona – ti sia tornata in mente solo adesso?
– Savicchio diceva tante cose, spesso solo per il gusto di spararla grossa. Parlava di rapinare una banca, parlava di fare un carico di coca dal Perú. Una volta disse che sarebbe stato divertente violentare una ragazza della squadra mobile. Ci trombiamo a sangue una poliziotta, diceva. Chi mai potrebbe pensare che sono stati dei carabinieri? Aveva bisogno di impressionare: sono il piú cattivo, sono il piú pericoloso. Sono l’Anticristo, diceva a volte. Ti ricordi quando mi hai spiegato cos’è uno psicopatico?
– Sí.
– In quel momento ho pensato che se mai avevo conosciuto un vero psicopatico, era lui. Comunque sia, il discorso sul sequestro della moglie di un trafficante me lo sono ricordato solo qualche giorno fa, quando ero alle Tremiti.
Fenoglio elaborò la risposta. Era una spiegazione plausibile, non c’era motivo di pensare che Pellecchia stesse mentendo.
– C’è qualcos’altro che non mi hai detto? Hai altri elementi per pensare che sia stato lui?
– No, e non ho elementi concreti per dire che è stato lui. Però pensaci: se fosse lui, tutto quadrerebbe.
Quadrerebbe, sí.
– Secondo te cosa dovrei fare, adesso? – disse Fenoglio.
– Se decidi di mettere per iscritto quello che ti ho raccontato, io non negherò. In ogni caso ho un’idea, su quello che potremmo fare.
Fenoglio si allontanò di una decina di metri. Aveva il mare di lato e di fronte, e sulla linea dell’orizzonte le nuvole si congiungevano all’acqua. Gli parve che la cosa avesse un significato, come una metafora. Rimase a guardare quella combinazione di colori – bianco e blu e verde – per qualche minuto. Alla fine si girò e tornò indietro.
– Dimmi di questa idea.