59

Quando si svegliò era nel bel mezzo di un set cinematografico con tanto di riflettori e di fondali dipinti. Di fronte a lui, a qualche metro di distanza, vide un microfono collegato a una costosa videocamera. Lui era uno degli attori protagonisti. L’altro, seduto accanto a lui, era il presidente degli Stati Uniti.

Bourne era seduto e aveva i polsi legati da una fascetta di plastica. Il presidente era immobilizzato nello stesso modo. Il fondale rappresentava una caverna dipinta in maniera sorprendentemente realistica. Chiunque avesse visto il video, avrebbe pensato che era stato girato molto lontano da Singapore: tra le montagne dell’Afghanistan o del Pakistan occidentale. In un angolo Bourne vide il suo corpetto protettivo, che qualcuno doveva avergli sfilato mentre era privo di sensi.

C’erano tre uomini nella stanza: Borz e altri due che credeva di essersi lasciato alle spalle all’ingresso del club. Adesso era chiaro che gli avevano raccontato soltanto bugie, e che la finta bomba era uno stratagemma per tenerlo lontano dall’evento principale: un atto di terrorismo così terribile che non era riuscito nemmeno a ipotizzarlo. Nel repertorio dei terroristi c’erano attacchi su larga scala, ma niente poteva competere con l’esecuzione pubblica del presidente degli Stati Uniti d’America.

La sua attenzione fu attirata dalla donna che si trovava a terra, in disparte. Chi era? Cosa ci faceva lì dentro con il presidente? Era il suo addetto stampa, o aveva finto di adescarlo per attirarlo lì dentro? Un’altra tessera del puzzle andò a posto.

«Quante vite hai?» gli chiese Borz, chinandosi in avanti per guardarlo in faccia. «Credo che lo scopriremo presto. La tua morte avverrà in questa stanza e servirà per uno scopo più alto.»

Il presidente era ancora svenuto. Bourne sapeva che non avrebbero iniziato finché non avesse ripreso conoscenza e capito dove si trovava. Borz si avvicinò e tirò fuori un astuccio di cuoio simile a una scatola per sigari. Conteneva alcune siringhe. Ne prese una, la infilò nel braccio di Magnus e abbassò lo stantuffo. Dopo alcuni istanti, il presidente si mosse, sollevò la testa e spalancò gli occhi.

«Cosa diavolo sta succedendo?» chiese con tono di voce imperioso.

«Secondo lei?» rispose placidamente Musa. «Presidente Magnus, stiamo per entrare nella storia. Lei e il più famoso tra i suoi assassini a pagamento sarete decapitati in diretta. Tutti sono capaci di piazzare una bomba o di spedire un attentatore suicida in mezzo alla folla, ma quello che sta per succedere è un vero e proprio atto di teatro terroristico: il cosiddetto leader del mondo libero decapitato davanti a milioni di persone che assistono alla sua meritata umiliazione. I cittadini degli Stati Uniti rimarranno traumatizzati per anni.»

«Mio Dio! Non potete farlo!» gridò il presidente, sconvolto, con gli occhi fuori dalle orbite. Si voltò verso Bourne. «È un imbroglio! Non so chi diavolo sia quest’uomo, ma sono certo che non è sul libro paga degli Stati Uniti.»

Musa scoppiò a ridere. «La smetta, presidente Magnus, non è bello morire con una bugia sulle labbra.»

«È la verità» protestò il presidente. Il sudore gli imperlava la faccia, macchiando il colletto della camicia bianca. «Dovete credermi!»

«Credere a una bugia americana?» Musa continuò a ridere e fece un cenno al tizio che manovrava la videocamera. «Ma è il momento di andare in onda. La fine dell’egemonia americana sta per arrivare.»

«Ci vorranno un paio di minuti per collegarsi alla rete di Al Jazeera» precisò il cameraman.

La ragazza si mosse.

«Camilla! Stai bene?» chiese il presidente, concentrandosi su di lei. Non ricevette alcuna risposta e imprecò a bassa voce.

«Ci siamo quasi. Ma cosa sta facendo l’assassino?» domandò l’operatore.

Musa guardò Bourne, che si era piegato su se stesso.

«Tiralo su! Deve essere inquadrato mentre gli tagliamo la testa» ordinò Musa all’altro uomo.

Il ceceno si avvicinò a Bourne, lo afferrò per i capelli e gli sollevò la testa. Jason borbottò qualcosa in russo, il ceceno si abbassò per sentire meglio e lui gli diede una testata in faccia. L’uomo barcollò e crollò accanto a Camilla con il volto coperto di sangue.

Musa si lanciò su Bourne mentre il cameraman estraeva la .45 che portava al fianco e teneva sotto tiro i prigionieri. Era così concentrato sui due uomini che non si accorse di Camilla, che era riuscita a impadronirsi dell’arma del ceceno caduto accanto a lei. Usò entrambe le mani, appoggiandosi sui gomiti per avere maggiore stabilità. Il narcotico che le avevano iniettato stava ancora facendo effetto: la vista andava e veniva, e sentiva un ronzio come di voci umane che gridassero da lontano.

Ma era un’agente ben addestrata e fece ricorso a tutti gli insegnamenti che aveva ricevuto. Prese la mira, respirò profondamente e tirò il grilletto. Il primo proiettile colpì il cameraman al fianco, il secondo lo fece cadere a terra, in un lago di sangue.

Bourne era pronto a reagire all’assalto di Musa. Puntò i piedi e poi si scaraventò all’indietro con tutta la sua forza. Lo schienale della sedia sbatté contro il muro di cemento e si ruppe, proprio come sperava. Con le braccia finalmente libere, sollevò le ginocchia e fece passare le mani sotto i piedi. Musa estrasse la pistola e Bourne gli lanciò uno dei pezzi dello schienale, colpendolo al mento. Musa barcollò ma non lasciò andare l’arma e fece fuoco.

Bourne si era già spostato ed evitò il proiettile. Sollevò le braccia e abbassò i pugni sul cranio di Musa, in corrispondenza della fontanella. Il colpo avrebbe fatto crollare anche un toro, ma il ceceno rimase in piedi.

La pistola non gli serviva più. La lasciò cadere a terra e usò le mani per colpire l’avversario. Bourne, con i polsi legati, era in una posizione di netto svantaggio.

«Vediamo come te le cavi senza il corpetto» gli sussurrò Musa. Gli infilò le dita sotto lo sterno e con l’altra mano cercò di colpirlo sull’orecchio, costringendolo ad arretrare. Bourne cercò di parare la mossa sollevando un gomito, ma con i polsi legati fu costretto ad alzare entrambe le braccia, scoprendo il torace. Musa lo colpì con un pugno appena sopra il cuore. Era una vecchia mossa del KGB per interferire con l’attività elettrica del cuore e provocare un infarto.

Bourne sentì che il battito si fermava, quasi sospeso nel tempo, e poi fluttuava, come se avesse perso il suo ritmo naturale. Il respiro era caldo e amaro in gola, i suoi polmoni sembravano saturi di gas velenosi.

Con un disperato sforzo si impose di ignorare i sintomi e si concentrò su Musa. Riuscì a passare i polsi legati dietro al suo collo e applicò una violenta torsione, costringendolo a voltarsi. La fascetta di plastica affondò nella gola del ceceno.

Gli tirò la testa all’indietro con tutte le forze che gli rimanevano e poi, aiutandosi con il petto, premette per cercare di svuotargli i polmoni dall’ossigeno, finché il volto dell’uomo non si fece paonazzo e congestionato.

Musa aprì la bocca in uno spasmo incontrollato, mentre cercava disperatamente di inspirare, invano. Infine, uno strano sorriso si dipinse sul suo volto.

«Non lo saprai finché non sarà troppo tardi» bisbigliò in russo.

Il ceceno si accasciò contro Bourne, che sollevò le braccia e si spostò di un passo lasciandolo cadere a terra.