44
El Ghadan insistette per accompagnare Sara nella zona industriale con il suo SUV americano. Aveva attivato il pannello divisorio perché autista e guardia del corpo non potessero ascoltare le loro parole.
«Se sei con me, non ti devi preoccupare della polizia.» Sara si rendeva conto ogni volta di più quanto fosse estesa la sua influenza in Qatar.
«Dove siamo diretti?» chiese.
«Tra la Cinquantaduesima strada e Al Manajer. Agenzie Omega e Gulf.» Si voltò a guardarla. «Ti sto gettando in mare aperto.»
«Davvero hai bisogno di mettermi alla prova? Dopo le informazioni che ti ho passato? Dopo che ho ucciso Blum per te?»
«Ellie, nuotare o affogare. Non hai scelta.»
Il SUV si avvicinò alla zona industriale, nella parte sudoccidentale della città. I turisti non sospettavano nemmeno l’esistenza di quell’area. Stranamente nessuno li guardò né tentò di fermarli. Un’altra conferma dell’influenza esercitata da El Ghadan in quella parte del mondo. Si diressero verso sud.
L’auto accostò al marciapiede, davanti a un edificio basso e lungo, quasi privo di finestre. Sopra la porta d’ingresso c’era un cartello: AGENZIE OMEGA E GULF. Non c’erano veicoli né pedoni. Solo la strada assolata.
«E adesso?»
«Adesso aspettiamo.»
El Ghadan era seduto molto vicino a lei, e Sara ne avvertiva la presenza come quella di un serpente pronto ad attaccare.
«Cosa stiamo aspettando? Ho il diritto di sapere che vuoi da me.»
El Ghadan fissò la porta d’ingresso dell’edificio. «Non sta a me dirlo.»
«E allora come farò a…?»
«Ellie, sarai tu a scegliere.»
A scegliere? Di quale scelta stava parlando? Sara sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena.
Provò a insistere. «Che cosa succede lì dentro? Di cosa si occupano le agenzie?»
«Per il momento, hai tutte le informazioni necessarie.»
Il suo tono era diventato aspro e tagliente e Sara, suo malgrado, ne fu intimorita. Le porte si spalancarono e un giovane uscì in strada. Indossava un paio di jeans, una maglietta bianca e scarpe da ginnastica Nike. Gli occhi erano nascosti da occhiali da sole a mascherina. Guardò il SUV, ma non si avvicinò. La sua bocca era una linea sottile e inespressiva.
«Ecco Islam!» El Ghadan sorrise. «Ora puoi andare. Non farlo aspettare.»
Sara scivolò fuori dal SUV lentamente, un po’ stordita. All’esterno, il calore era asfissiante.
Era in una situazione di cui non sapeva nulla e doveva affrontare un test di cui ignorava i parametri. Iniziò a chiedersi se El Ghadan non avesse sospetti su di lei. Forse aveva capito che non era un’amica di Martine Heur, la misteriosa mercante di diamanti, né un’agente free lance.
Pensava che lei fosse americana o israeliana? Ancora peggio, era al corrente della sua relazione con Jason? Cercò di calmarsi: come avrebbe potuto saperlo? Ma le nebbie dell’ignoto la avvolsero di nuovo. E se invece lo avesse saputo? In quel caso, che cosa ci faceva all’angolo tra la Cinquantaduesima e Al Manajer?
Aveva l’impressione di sprofondare nelle sabbie mobili. Improvvisamente non sapeva più dove si trovava.
Aveva perso l’orientamento.
La matassa di fili colorati ricordò a Bourne un mattino in Bosnia, quando Soraya era inciampata in un cavo elettrico nascosto che innescava un ordigno posto appena sotto il suolo ghiacciato. Era caduta sul terreno coperto di neve e non poteva muoversi, né avanti né indietro. L’odore di resina e foglie gli riempiva le narici.
«Non muoverti. Rilassati, ci penso io» le aveva detto.
Aveva usato i polpastrelli per scoprire l’esplosivo: tre pacchetti di C4, tenuti assieme dal nastro adesivo nero. A differenza di altre bombe di quel genere, quella aveva un timer che si era attivato quando la ragazza aveva urtato il cavo nascosto.
C’erano quattro fili: bianco, nero, giallo e rosso. Due erano attivi, gli altri erano finti. Il rosso era quasi sempre attivo. Bourne aveva aperto un piccolo coltello a gravità e aveva iniziato a spostare il cavo bianco e quello nero, ma all’improvviso si era bloccato. Sotto i primi quattro, c’erano altri quattro fili. L’orologio digitale continuava il suo conto alla rovescia. Due minuti. Un minuto e mezzo.
«Jason?»
«Sono qui, Soraya. Ce l’ho quasi fatta.»
Ma non era vero: otto cavi e pochissimo tempo per agire. Meno di un minuto. Aveva esaminato i fili uno per uno, verificando i collegamenti, ma aveva meno di trenta secondi, prima che la bomba dilaniasse lui e Soraya.
Era un’impresa impossibile. Il meccanismo era stato messo a punto con astuzia diabolica, non era possibile determinare il cavo da staccare.
Quindici secondi. Dieci.
E allora lo aveva visto: al centro della bomba si era mosso un microscopico innesco, e aveva subito individuato il cavo al quale era collegato. A tre secondi dall’esplosione, aveva tagliato il filo bianco della matassa inferiore.
«Yusuf! Abbiamo finito il carburante! Devo scendere!» urlò Borz.
Aashir fece capolino sulla soglia. «Yusuf, cosa succede?»
«Vieni qui!» ordinò Bourne. Quando il ragazzo si fu inginocchiato accanto a lui, continuò: «Solleva quei cavi. Lentamente!».
Allora vide la seconda matassa: stesso produttore, anche se non c’era il timer. La bomba era stata collegata all’altimetro.
«Borz, dammi la quota!»
«Settecento metri. Cinquecento.»
Bourne cercò l’innesco che gli avrebbe segnalato il cavo da tagliare, ma non lo vide. Eppure doveva esserci: era la firma del fabbricante.
«Trecento metri, e stiamo scendendo rapidamente. Yusuf, devo atterrare.»
Bourne si concentrò sugli ultimi quattro cavi, ma continuava a non vedere nulla.
«Duecento! Cento! Il carrello è fuori!»
A settanta metri Bourne capì dove stava sbagliando. La bomba era strutturata in modo speculare rispetto a quella che aveva visto in Bosnia: i cavi superiori erano attivi, quelli inferiori erano disattivati. Controllò di nuovo i fili. Niente. Nessun innesco.
«Trenta metri! Yusuf, dimmi che l’hai trovato!»
Aveva una probabilità su quattro: non era molto, ma non tentare significava morire.
«Venti metri! Le ruote toccheranno il suolo tra dieci secondi… nove… otto…»
Qualcosa si mosse davanti agli occhi di Bourne. Un movimento quasi impercettibile, lo stesso che aveva avvertito in Bosnia.
«Sei, cinque, quattro…»
Tagliò il filo nero, e proprio allora il velivolo toccò il suolo, rimbalzando sul terreno.
«Accidenti! Sono sudato come un maiale!» esclamò Borz, trionfante.
Si trovavano sull’altopiano afghano, a pochi metri da un Bombardier Challenger 890 CS che era stato dipinto con le insegne di una compagnia di trasporto merci, la Balinese Air Transport.
Il pilota parlò con Borz e non sembrò stupito dal numero ridotto dei passeggeri. Quando furono a bordo, il ceceno ordinò a tutti di lavarsi, radersi e indossare una divisa con il logo di una società di sorveglianza di Singapore cucito sul petto e sulla manica destra. Avevano anche le scarpe da lavoro. Si misero in fila davanti al bagno, dove trovarono forbici e rasoi.
Bourne era rimasto impressionato dall’efficienza di Borz. Il ceceno aveva pensato a tutto, nei minimi dettagli. Un vero professionista.
Mentre era in bagno esaminò il pezzo di carta che aveva preso nell’ufficio di Borz dopo l’attacco del drone. Aveva pensato che fosse il sistema fognario, ma si trattava di un impianto di irrigazione di forma perfettamente ovale. Faceva pensare a uno stadio, ma il nuovo stadio nazionale non era ancora stato completato. Ce n’erano altri dieci a Singapore, ma Bourne intuiva che doveva essere collegato alla visita del presidente in occasione del vertice di pace. Guardò attentamente l’angolino del foglio e vide una filigrana: la testa di un cavallo.
In quell’istante capì l’obiettivo dell’attacco.