26
Camilla scese a fare colazione all’alba. Cercò Hunter, ma al suo posto trovò un tizio con i capelli a spazzola, lo sguardo perso nel vuoto e un atteggiamento da imbonitore di fiera.
«Buongiorno. Mi chiamo Vincent Terrier.»
«Terrier come il cane?»
«Sono la tua nuova balia.»
Quel tipo non le piaceva. «Non ho bisogno di una balia.»
Lui si strinse nelle spalle. «È un periodo difficile.»
Lei guardò il menu con aria assente. «Dov’è Hunter?»
«Se n’è andata.» Per la prima volta l’uomo le sorrise, e quel gesto non le sembrò di buon auspicio.
Terrier ordinò una farinata d’avena che, come era lecito attendersi da uno come lui, chiamò «porridge senza latte né zucchero». Camilla rabbrividì e chiese la sua solita colazione. Due uova in camicia e pane bianco tostato. Non aveva più alcun appetito.
«Adesso sei mia» aggiunse Terrier, senza motivo se non quello di infastidirla.
Ancor più delle parole, era il tono a irritarla. La stava trattando come una merce che avesse appena acquistato. Un’auto o un orologio. Il cibo fu servito e Terrier iniziò a divorarlo.
«Sono sorvegliata?»
«Perché dovresti esserlo?» chiese lui, con la bocca piena di porridge.
Era un uomo di Anselm. Hunter le aveva promesso di proteggerla da Howard, e adesso era sparita. Puf! Volatilizzata. Di colpo Camilla sentì di averne abbastanza di Terrier e del suo capo e, come aveva letto in un romanzo di Le Carré, quando uno ne ha abbastanza, inizia a volerne di più. «Esigo di sapere cosa è successo a Hunter.»
Terrier continuò a ingurgitare la schifosa poltiglia che aveva ordinato e non alzò gli occhi dal tavolo.
Lei si sporse in avanti. «Mi hai sentita?»
«Le uova si stanno raffreddando.»
Lei prese il piatto e fece scivolare le uova nella ciotola del porridge. Lui rimase per un attimo con la forchetta a mezz’aria, poi la sprofondò con delicatezza in uno dei tuorli, facendolo colare sull’avena.
«Questo è il Caseificio» disse, con calma. «Non puoi fare una domanda del genere.»
«Io sono Camilla Stowe e faccio le domande che voglio, quando ne ho voglia» replicò lei, dura.
Lui si appoggiò allo schienale e la guardò negli occhi. «Dunque è questo che vuoi.»
Lei non si prese nemmeno la briga di rispondere.
«Voglio che Hunter torni a occuparsi di me.»
«Temo che sia imp…»
Camilla si alzò e uscì dalla stanza, pensando che l’aria aperta le avrebbe fatto bene. Ma una volta fuori, si rese conto che non era così.
Soraya amava sua figlia più della sua stessa vita, ma si era resa conto, con grande dispiacere, di non essere nata per fare la madre. Stare dietro a tutte le necessità di un neonato, e poi di un bambino, le costava molta fatica. La sua vita era cambiata per sempre: non era più interamente sua, ed era molto difficile da accettare e da gestire per una donna che aveva trascorso anni nei servizi segreti. Molto spesso era assalita dai sensi di colpa. Sensi di colpa che in alcuni momenti, come in quello, diventavano opprimenti. Non era riuscita a proteggere Sonya e Aaron dalla vita che si era scelta, e il pensiero la divorava come un tarlo vorace.
«Mamma, raccontami ancora la storia del genio» chiese Sonya con la sua vocina infantile.
Dopo la nascita della bambina, Soraya aveva scoperto di essere brava a raccontare storie. E ora, in quella prigione, cercava di usare il suo talento per evocare un’atmosfera di calma e ottimismo, per tenere lontano Islam e i suoi compagni, anche se era sempre più convinta che quell’uomo sarebbe potuto tornarle utile. Conosceva troppo bene i jihadisti per farsi illusioni circa la loro natura, ma stabilire una relazione con uno di essi e riuscire a farsi dire il suo nome era stato un grande passo avanti. Era come se avesse tenuto la testa fuori dall’acqua e forse, continuando così, sarebbe riuscita a raggiungere la riva e a uscire dallo stagno nella quale era stata gettata con Sonya.
Tornò a concentrarsi sul piccolo mondo di fantasia che aveva creato per sé e per la bambina. Sonya si era innamorata del genio e la obbligava a inventare un’infinità di storie che lo vedevano protagonista. Era strano, ma in quel modo si era avvicinata a sua figlia e alla maternità.
«C’era una volta un genio che viveva da solo. Era solo perché abitava al centro del deserto del Gobi e i suoi amici se n’erano andati da tempo.»
«Mamma, perché lui era rimasto nel deserto?» chiese Sonya, seduta sulle sue ginocchia.
«Perché suo padre era sepolto sotto la duna dove aveva vissuto, e lui non se ne poteva andare, a differenza dei suoi amici.»
«Non voleva lasciare il suo papà.»
«Sì, tesoro.»
«Nemmeno io voglio lasciare il mio papà.»
Gli occhi di Soraya si riempirono di lacrime.
«Mamma?»
«Sì, tesoro?»
«Il genio può fare tutto quello che vuole, vero?»
«Sì, è vero.»
«Vorrei che fosse qui.» La sua vocina sembrava ancora più flebile, ora. «E che facesse tornare il mio papà.»
«Vieni al mio tavolo. Da sola» ordinò la voce al telefono.
Sara appoggiò la cornetta con delicatezza, poi guardò Tamer e annunciò a Blum: «Qualcuno ci sta osservando. Adesso vado al suo tavolo».
Levi si spostò sulla sedia, ma riuscì a trattenere l’istinto di guardarsi attorno. «Credi che sia prudente?»
«Non ho altra scelta.» Vide il sorrisetto di Tamer. «Quando tornerò, la smetterai di ridere.»
«Se tornerai» replicò lui.
Blum si sporse in avanti. «Chi è?»
«Lo saprai presto.» Camilla riprese il bisturi, poi si chinò in avanti. «La prossima volta che lo userò, ti farò gridare per un bel po’ di tempo» sussurrò all’orecchio di Tamer.
Si allontanò e si diresse lentamente verso il tavolo più lontano, nella fila esterna, dove la lampada era stata spenta: era il segnale convenuto.
C’era un uomo, solo, parzialmente nascosto dalla penombra. Camilla si sedette senza una parola. Lo riconobbe subito, nonostante l’oscurità.
«El Ghadan, il Nite Jewel non è un locale adatto a te.»
«Tu sai come mi chiamo, ma io non conosco il tuo nome.»
«Meglio così, per il momento.»
«Parli arabo molto bene, ma non sei qatariota.» Socchiuse gli occhi. «Però non sei neppure americana.»
Sara sorrise. «Non credo che tu mi abbia chiamata per discutere delle mie origini.»
El Ghadan intrecciò le mani, sul tavolo. «E allora perché ti avrei chiamata?»
«Mi sembra ovvio che il cagnolino è corso dal padrone appena ha ricevuto la telefonata del mio amico.»
«Era la scelta più prudente.»
«È vero.» Sara cercò di ignorare lo sguardo penetrante di El Ghadan. Quei fanatici erano tutti uguali. Ma sapeva che sottovalutarlo sarebbe stato un errore. Era a conoscenza della sua storia e di quanto era stato abile a mettere in trappola Bourne e la famiglia di Soraya. Quell’uomo conosceva alla perfezione i trucchetti psicologici e li usava non appena ce ne fosse bisogno. «E adesso eccoci qua.»
Era di nuovo calato il silenzio. Il quintetto jazz stava facendo una pausa e il mormorio dei clienti si levava nel locale. Alcune donne, vestite con abiti eleganti e succinti, si alzarono per avvicinarsi ai tavoli degli uomini che le avevano invitate. L’atmosfera era voluttuosa e sensuale, ben diversa dal feroce duello psicologico che si combatteva al tavolo di El Ghadan.
«C’è un mistero che mi piacerebbe chiarire» riprese il jihadista.
«Quale? Ce ne sono così tanti…»
El Ghadan rimase impassibile, senza lasciar trapelare la rabbia che stava montando dentro di lui. Strinse le mani fino a far sbiancare le nocche. «Khalifa è scomparso, presumibilmente morto. Io mi preoccupo per le mie risorse, e voglio sapere che cosa gli è successo.»
Ci siamo, pensò Sara. «Che tu ci creda o no, io voglio aiutarti.»
«Sei in grado di farlo?»
«El Ghadan, c’è una falla nella tua organizzazione.»
Un rapido battito delle palpebre fu l’unico segno visibile dello stupore di El Ghadan. «Cos’hai detto?»
«Hai affermato che Khalifa era una delle tue risorse.»
«È così.»
«Un ingranaggio importante nella tua macchina da guerra.»
Il terrorista sollevò la testa, in uno scatto di impazienza. «E quindi?»
«El Ghadan, sei un uomo di assoluta integrità, non è difficile capirlo. Le tue convinzioni sono incrollabili e le tue azioni sono motivate dall’ideologia.»
El Ghadan scosse la testa, sconcertato. «Adesso stai cercando di adularmi?»
Sara sorrise e si sporse in avanti. «Niente affatto, non vedo cosa ci guadagnerei. No, io sto cercando di metterti in guardia.»
El Ghadan raddrizzò la schiena, sempre più nervoso. «Mettermi in guardia?»
«Le tue motivazioni e quelle di Khalifa non erano le stesse. A lui interessava soltanto il denaro, niente di più, e questo significa che era pronto a vendersi al miglior offerente.»
«E allora?» ribatté El Ghadan strizzando gli occhi.
«Stava per venderti agli israeliani.»
«È una follia. Non lo avrebbe mai fatto, lo conoscevo bene.»
«Forse non così bene.»
Sara appoggiò sul tavolo il dossier che Blum e i suoi collaboratori avevano prodotto su Mahmoud Tamer, e lo spinse verso El Ghadan. Descriveva nel dettaglio gli spostamenti di Tamer tra Doha e Beirut, dove scialacquava migliaia di dollari al Casino du Liban, tra puntate alla roulette e prostitute di alto bordo.
«Non ho bisogno di dirti che lo stipendio di un tenente non giustifica uno stile di vita del genere.»
El Ghadan scosse la testa. «Cosa c’entra con Khalifa?»
«Tamer è uno dei suoi più stretti collaboratori, ma ho un dossier come questo per tutti gli altri. El Ghadan, si chiama teoria del trickle-down: i tirapiedi di Khalifa raccoglievano le briciole che cadevano dal suo tavolo. Erano tutti corrotti: era così che lui si assicurava la loro lealtà.»
El Ghadan scosse la testa. «Non ci credo.»
«Non vuoi crederci.» Gli passò le informazioni che il Mossad aveva contraffatto su richiesta di suo padre: una tabella che riassumeva i movimenti bancari di un conto corrente nelle isole Cayman, aperto dallo stesso Khalifa. La parte più interessante era quella che mostrava il percorso del denaro. I bonifici arrivavano da un conto riconducibile a una banca del Mossad, a Tel Aviv. Il conto alle Cayman esisteva, ma i movimenti erano stati retrodatati. Era tutto vero, tranne il coinvolgimento di Khalifa. Ma se El Ghadan avesse deciso di spedire uno dei suoi alle Cayman, con una foto di Khalifa, avrebbe trovato un direttore di banca pronto a dichiarare che quello era l’uomo che aveva aperto il conto e ne avrebbe riconosciuto la firma. Il Mossad non lasciava nulla al caso.
El Ghadan allontanò i documenti con una smorfia di disgusto. «E la morte di Khalifa?»
«È stato Hassim, il proprietario della barca.» Era un’altra bugia, ma era inevitabile. Il giorno in cui avesse iniziato a essere sincera con un jihadista sarebbe stata pronta per la pensione. «Hassim aveva scoperto che Khalifa e i suoi uomini erano corrotti. Si sono messi a litigare sulla barca e non si sono accorti della burrasca che si stava avvicinando. Sono venuti alle mani e sono caduti in mare.»
El Ghadan si prese qualche istante per metabolizzare le informazioni di Sara. «E tu come fai a saperlo?»
«La donna che era sulla barca con loro, quella che è sopravvissuta…»
«La cosiddetta Martine Heur.»
«Siamo amiche di vecchia data. Siamo come sorelle.»
Gli occhi di El Ghadan si ridussero a due fessure. «Non credo che sia il suo vero nome.»
«Forse sì, forse no. Che differenza fa?»
«Lo sai qual è la differenza.»
«Lei è al sicuro, credimi. E poi, Martine ti ha fatto un favore, proprio come te l’ho fatto io.» Lanciò un’occhiata in direzione di Tamer. «Dovresti fare un po’ di pulizia, qui a Doha.»
Si alzò senza aggiungere una parola, fece per allontanarsi, ma la voce del jihadista la spinse a fermarsi. Il quintetto aveva ripreso a suonare un pezzo di Lerner e Loewe, e Sara dovette riavvicinarsi al tavolo per sentire le parole dell’uomo.
«Come faccio a rimanere in contatto con te?»
«E perché dovresti farlo?»
«Potrei chiederti di spiare gli israeliani per conto mio. Che ne dici?»