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«Dunyazad si era persa in un mare di stelle.» Sonya era seduta in grembo a Soraya e le aveva appoggiato la testa sul petto. «Si era smarrita da molto tempo.»

«Come noi, mamma?»

«Sì, tesoro, come noi.» Soraya cercò di ricacciare indietro le lacrime.

«Come aveva fatto a perdersi tra le stelle?»

«Per colpa di un mago cattivo che era geloso della sua bellezza e la voleva tutta per sé. Lei rifiutò e lui la rinchiuse in una prigione dalla quale non sarebbe più uscita.»

«Ma lei è scappata?»

«Tesoro, non essere impaziente: devi aspettare la fine della storia.»

«Mamma, devo andare in bagno.»

Soraya le sollevò la testa, poi chiamò Islam. Era riuscita a mettere insieme un piano, e la sua realizzazione comportava una sosta al gabinetto.

Dopo qualche istante Islam aprì la porta e si affacciò.

«Soraya, stai male? Peggio di prima?»

«Sì, e Sonya deve fare pipì.»

Islam la aiutò ad alzarsi. I giorni di inattività le avevano indebolito le gambe e faticava a mantenersi in equilibrio. Aveva cercato di camminare per tenersi in esercizio, ma Islam aveva capito le sue intenzioni e gliel’aveva proibito. Soraya era preoccupata: se non fosse riuscita a correre tenendo Sonya in braccio non sarebbe potuta scappare dai suoi carcerieri.

Soraya prese la figlia per mano e seguì Islam fuori dalla stanza, nel corridoio spoglio, fino alla prima porta sulla destra. Come sempre, il terrorista entrò assieme a loro, ma le due donne si infilarono nel gabinetto e chiusero la porta alle loro spalle.

«Soraya, devo chiamare il dottore? Stai male?»

Soraya finse un conato di vomito. «Ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. Non mi serve un medico, potresti aiutarmi tu.»

Lo sentì muoversi fuori dalla porta. Fece cenno a Sonya di voltarsi e appoggiarsi all’angolo più lontano, poi aprì il chiavistello. Quando Islam fece capolino, lo colpì con forza al mento, mandandolo a sbattere contro la porta. Colto di sorpresa, l’uomo cadde in ginocchio.

Soraya afferrò la bambina, scavalcò Islam e si diresse verso il corridoio, ma Sonya si divincolò e tornò indietro fino al terrorista, ancora inginocchiato a terra.

«Sonya, cosa fai? Vieni qui!»

«Mamma, Islam è ferito, dobbiamo aiutarlo!»

Islam alzò la testa e agguantò la bambina. Soraya, disperata, maledisse l’innocenza dell’infanzia.

Rimase immobile. Poteva sentire il profumo della libertà, al di là della porta, ma si trattava soltanto di un miraggio. Islam si alzò, prese la bambina per mano e uscì dal bagno. Non guardò nemmeno Soraya: sapeva che finché avesse avuto Sonya con sé lei lo avrebbe seguito docilmente.

Due jihadisti armati li attendevano nel corridoio.

«Hai visto quanto sei stupida?» sibilò Islam, quando furono rientrati nella stanza della prigionia.

Teneva ancora la bambina per mano. Soraya, terrorizzata, si sedette sulla sedia, con le mani intrecciate in grembo, come una scolaretta disobbediente. Islam era in piedi davanti a lei, con la piccola accanto a sé.

«Mamma?» disse Sonya. Il labbro inferiore le tremava violentemente.

«Tesoro, stai zitta. Lascia parlare Islam» le ordinò Soraya, sull’orlo delle lacrime.

«Mi sta a cuore la vostra salute, davvero. Per mostrarti che non sono la bestia che tu credi, ti darò una scelta. Promettimi che non proverai più a scappare.»

Soraya lo guardò con aria di sfida. «E se non lo facessi?»

«Sarei costretto a portare Sonya in un’altra stanza. La rivedresti soltanto alla fine di tutta questa vicenda.»

Soraya si sporse in avanti e strinse la bambina al petto. Islam non tentò di ostacolarla.

«Mamma, ci siamo perse tra le stelle?» sussurrò Sonya.

Soraya alzò lo sguardo verso il suo carceriere, senza riuscire a trattenere le lacrime. «Lo prometto.»

«Adesso imparerai a cadere.»

Hunter si girò sulla sella per guardare Camilla negli occhi. Era un mattino nebbioso e senza vento, e quell’immobilità sembrava annunciare improvvisi cambiamenti. Le strutture difensive ai margini dei terreni del Caseificio erano ancora avvolte nell’oscurità, e apparivano infinitamente lontane. Le donne si trovavano nel recinto ovale con gli ostacoli e le corsie per i cavalli: era l’ultima fase dell’addestramento.

«Non è indispensabile che tu vinca. La vittoria è un aspetto secondario: tu devi trovare Bourne e ucciderlo. Ma gareggerai con fantini professionisti e dovrai essere brava come loro… be’, meglio, se possibile.»

La notte era stata lunga e tormentata. Camilla aveva cercato di dipanare l’intrico di bugie nel quale era avvolta. Era come se la stessero trascinando in molte direzioni diverse. Finnerman e Howard l’avevano arruolata per una missione che aveva come obiettivo l’eliminazione di Jason Bourne, ma se Hunter diceva la verità il vero scopo era liberarsi di lei. La volevano morta, caduta nell’adempimento del dovere. Una cosa le era chiara: Hunter desiderava da lei qualcosa di radicalmente diverso. Aveva deciso di comportarsi da studentessa modello, almeno finché fosse stata al Caseificio, ma una volta fuori avrebbe cambiato strategia: ognuno per sé e Dio per tutti. Si sentiva una pedina che tutti potevano manovrare, a partire dal presidente fino ad arrivare a Hunter. Era il momento di decidere con la propria testa, e l’avrebbe fatto una volta arrivata sul campo, dove l’istinto le avrebbe suggerito la scelta giusta. L’impegno, la disciplina, prima nell’esercito e poi nell’amministrazione pubblica, il suo obiettivo di diventare una donna libera e arrivare al vertice della piramide: era stata soltanto un’illusione. Ora vedeva la realtà: per quanto salisse in alto, erano sempre gli uomini a tirare le fila e a farla ballare al suono della musica che preferivano.

Mai più: lo giurò a se stessa, in quell’alba fragile, al Caseificio.

«Non cadrò.»

«Certo che no! Ma il mio compito non è soltanto quello di addestrarti: devo anche insegnarti a tutelare la tua incolumità quando sei in sella.»

Camilla annuì, poco convinta.

«Allora, si fa così.» Hunter partì al galoppo.

Era china in avanti, con il sedere un po’ sollevato dalla sella: la posizione dei fantini professionisti. Alla prima curva si lasciò disarcionare e sbatté la spalla destra a terra. Rotolò lontano dal cavallo, riportò le gambe sotto il corpo e si rialzò, assolutamente incolume.

Fischiò per richiamare l’attenzione di Dagger, che si voltò e tornò verso di lei. Camilla si avvicinò a Hunter fino a sentire il profumo del suo shampoo al limone mescolato all’odore dei cavalli.

«Adesso tocca a te.» Hunter salì di nuovo in sella. «Hai le punte dei piedi infilate nella staffa. Regola numero uno: tirale fuori appena prima di cadere. Regola numero due: devi aspettare finché il cavallo non è arrivato in curva. Lui piegherà a sinistra, e allora tu ti butterai sulla destra, per evitare che ti scalci o, peggio ancora, ti calpesti. Regola numero tre: rilassati completamente. È la cosa più facile da fare, dal momento che sei stata addestrata nel combattimento corpo a corpo. Regola numero quattro: cadi sulla spalla destra. Farai un bel capitombolo, ma senza conseguenze: devi soltanto assecondare il movimento del corpo. Andrà tutto bene, te lo prometto. Sei pronta? Vai!»

Camilla affondò i talloni nei fianchi di Dixon, ma il cavallo non aveva bisogno di essere incitato. Partì a tutta velocità e si lanciò nel rettilineo. Hunter si manteneva a distanza, per osservare bene la scena e intervenire in caso di necessità.

A metà del tratto di pista dritto, Camilla si concentrò sull’attimo esatto nel quale si sarebbe buttata: appena prima del punto più stretto della curva, in modo che Dixon si allontanasse subito da lei.

Quando fu il momento fece per gettarsi a destra, ma il piede sinistro rimase intrappolato nella staffa per un istante di troppo. Cercò di aggrapparsi alla sella ma non trovò appigli e scivolò. Afferrò la staffa, i piedi che si trascinavano sul terreno. Dixon completò la curva a sinistra e si lanciò di nuovo sul rettilineo.

Camilla cercò di piegare le gambe per darsi la spinta verso l’alto, ma il cavallo era troppo veloce. Poi un braccio forte la afferrò per la vita e sentì la voce di Hunter. «Lasciati andare! Lasciati andare!»

La mente, terrorizzata, le ordinava di rimanere aggrappata, ma riuscì a obbedire. Hunter la sollevò e con un movimento fluido la depositò dietro di sé, in sella a Dagger. Dixon aveva rallentato e stava tornando indietro, al piccolo trotto. Hunter riprese in mano le redini.

Camilla scese a terra. «Non ci siamo» disse Hunter. «La prossima volta assicurati di avere la punta degli stivali perpendicolare alla staffa. E adesso sali e provaci ancora. Non voglio essere responsabile, se un cavallo dovesse farti schizzare il cervello fuori dalla testa. Sai che può succedere. Basta un calcio ed è finita.»

Il lungomare di Doha si stendeva davanti a Sara, che ormai ne conosceva ogni angolo. Sentiva il peso della pistola contro la schiena, all’altezza delle reni. La .38 a canna mozza che El Ghadan le aveva consegnato era caricata con proiettili a punta cava, pieni di mercurio. Era opportuno trovarsi vicino al bersaglio, ma non era necessario essere molto precisi. L’arma e le munizioni erano state scelte appositamente per la morte di Blum.

Era passata la mezzanotte. La brezza spingeva alcuni lembi di nebbia verso terra. Davanti a sé, Sara vedeva la sagoma di Blum proiettata contro le luci al neon dei grattacieli. Il SUV nero di El Ghadan, accompagnato dall’autista e da due guardie del corpo, la seguiva a distanza.

Era l’appuntamento finale. Non prevedeva un piano di riserva né misure di sicurezza particolarmente accurate.

Rivolse a Blum un sorriso privo di calore. Li stavano osservando, e forse avrebbero registrato la scena. La recita doveva essere perfetta se doveva convincere un uomo profondamente paranoico come El Ghadan.

«Stavolta hai davvero combinato un casino. Non c’era un solo motivo valido per ordinare la morte di Khalifa.»

«Era un coglione, non lo sopportavo più» replicò Blum, rancoroso. «La mia vita era diventata un inferno.»

«Avrebbe potuto fornirti informazioni molto preziose, ma tu non hai avuto pazienza. Blum, ti sei lasciato trasportare dall’emotività, come un pivello.»

«Come fai a saperlo?» replicò lui, stizzito.

«Secondo te? Me l’ha detto Martine.»

«Non aveva alcun interesse a dirti una cosa del genere.»

«La copertura di Martine è saltata, grazie alle tue azioni sconsiderate. Ha rischiato di morire. E adesso il gioco è in mano a me.»

Blum le si avvicinò con atteggiamento aggressivo.

«Stai attento!»

«Perché non te ne vai all’inferno? Sei stata tu a mandare a monte tutto quanto, non io!»

«Non posso. Blum, tu hai fallito il tuo incarico.» Strinse le dita attorno all’impugnatura della .38. «E adesso io devo portare a termine il mio.»

Estrasse la pistola e premette il grilletto. La violenza del proiettile colse Blum di sorpresa, e una chiazza rossa apparve sul suo petto. Barcollò, agitò freneticamente le braccia e infine cadde in acqua.

El Ghadan scese dal SUV, che aveva il motore ancora acceso. Strappò dalla mano di Sara la .38 e controllò le munizioni per accertarsi che non avesse sostituito i proiettili. Fece un cenno ai suoi uomini, che scesero lungo gli scogli che sostenevano il molo e ripescarono il corpo di Blum, aiutandosi con alcuni arpioni. Lo adagiarono sul molo, mentre El Ghadan e Sara li guardavano dall’alto.

«Allora?» chiese El Ghadan.

Uno dei suoi scagnozzi si inginocchiò e appoggiò le dita alla carotide. «Morto» dichiarò.

«Appesantitelo.»

Rimase a osservare mentre gli uomini riempivano le tasche di Blum di sassi e pezzi di cemento e lo spingevano di nuovo in acqua.

Affondò subito, prima ancora che Sara avesse il tempo di dire una preghiera per la sua anima.