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El Ghadan fece un cenno. «Seguimi, prego.»
Bourne non rispose né accennò a muoversi.
«Dunque è vero quel che si dice della tua testardaggine» commentò El Ghadan. Gli rivolse un sorriso malevolo. «Perquisitelo.»
Un tizio tarchiato gli si avvicinò e lo tastò rivolgendogli uno sguardo colmo d’odio. Conclusa la perquisizione, si allontanò con un cenno affermativo.
«Torniamo sulla scena del delitto.»
Un altro terrorista afferrò Bourne per le braccia e lo spinse all’interno della sala riunioni.
«Uno, due, tre, quattro morti» contò El Ghadan, guardando i cadaveri dei suoi uomini. Si piazzò davanti a Bourne. Non era alto, ma aveva le spalle larghe e la vita sottile, da ballerino: l’unico particolare aggraziato di tutta la sua figura. Per il resto, i lineamenti erano grossolani, le guance butterate e le mani grandi e forti. Era un beduino, nato e cresciuto nel deserto.
«Martiri. Ognuno di loro.» Aveva labbra carnose e i suoi occhi guardavano lontano, come se vedessero il futuro e non il presente. Forse era quello il motivo del suo soprannome. «Questo, tuttavia, non ti assolve dal tuo crimine.»
Bourne aveva sentito parlare di El Ghadan, ma era la prima volta che lo incontrava di persona. Aveva letto il suo dossier a Treadstone, ma come accadeva sempre, il rapporto era molto dettagliato per quel che riguardava i fatti e incompleto, o addirittura impreciso, sulla personalità del soggetto. El Ghadan era un fanatico della peggior specie e non poteva essere affrontato con successo se non si comprendeva la sua indole. Bourne si concentrò su di lui, attento a ogni dettaglio.
«Non sei preoccupato per l’arrivo della polizia?»
«La polizia!» rise il terrorista. «I poliziotti sono tutti sul mio libro paga!»
Bourne valutò la risposta: arroganza e disprezzo. Quando l’avversario era così sicuro di controllare la situazione, allora era possibile ottenere su di lui un margine di vantaggio. Ogni informazione era preziosa.
El Ghadan schioccò le dita e i due terroristi che trattenevano Bourne lo spinsero a sedere su una sedia, in mezzo a due dei compagni uccisi. Il jihadista allungò la mano e il suo vice gli porse un tablet.
El Ghadan sfiorò lo schermo, poi girò l’apparecchio in modo che Bourne potesse vedere ciò che trasmetteva: le immagini in diretta di Soraya Moore, di sua figlia e del marito, Aaron Lipkin-Renais, ispettore del ministero degli Esteri francese. Erano seduti uno accanto all’altro, con le mani legate dietro la schiena. La bambina non aveva più di due anni e piangeva per la paura.
Bourne sentì una fitta al petto. La sua relazione con Soraya era iniziata molto tempo prima; era stata complicata e a tratti molto intima. Come aveva fatto El Ghadan a catturarla insieme alla sua famiglia? Si rese conto che lo aveva sottovalutato.
Soraya guardava dritto in camera. Bourne non la vedeva da più di tre anni, ma sapeva che aveva lasciato Treadstone dopo il matrimonio con Lipkin-Renais. Si era trasferita a Parigi e aveva iniziato una nuova fase della sua vita, con il marito e la figlia Sonya, nata nella Ville Lumière. Eppure, nonostante il tempo trascorso, il volto della donna era impresso in modo indelebile nella sua memoria.
Era sempre stata bella, con un fascino misterioso dovuto forse alle origini egiziane. E la paura, in quel momento, la rendeva ancora più affascinante: gli zigomi erano più pronunciati e gli occhi scuri sembravano enormi, pieni di rabbia e terrore per la sorte di Sonya e di Aaron. La conosceva bene, e sapeva quanto per lei la sicurezza della sua famiglia fosse fondamentale.
A differenza di Soraya, Lipkin-Renais guardava qualcosa o qualcuno che rimaneva al di fuori dell’inquadratura.
El Ghadan puntò un dito contro Bourne. «Conosci quelle persone, vero?»
Bourne non rispose e si sforzò di cogliere le sfumature nella sua voce.
«Be’, di sicuro conosci la donna. Si chiama Soraya Moore, ed è la codirettrice di Treadstone. O almeno lo era.»
Si stava vantando delle informazioni che aveva a disposizione, ovviamente, gonfiando il petto come un tacchino, ma Bourne colse anche un compiacimento maligno di cui avrebbe dovuto scoprire la ragione.
«È strano che abbia scelto il francese. O forse no: tu non saresti stato granché come padre, e nemmeno come marito.»
Bourne sapeva che quell’insulto personale era un segno di insicurezza, forse addirittura di timore. Di cosa aveva paura El Ghadan?
«A proposito, hai mai incontrato Sonya? Che splendida creatura! L’innocenza dei bambini è meravigliosa, vero, Bourne? Ed è bella come la madre, forse ancora di più. Chissà come diventerà da adulta…»
Ci siamo, pensò Bourne.
«… sempre ammesso che lo diventi.»
Jason guardò dritto davanti a sé, in silenzio.
«Prendetelo» ordinò El Ghadan.
Gli misero un cappuccio in testa e lo spinsero lungo il corridoio disseminato di cadaveri, poi dentro l’ascensore e attraverso la hall, e infine lo caricarono su uno dei SUV in attesa davanti all’hotel. Gli infilarono un ago nel braccio. Bourne cercò di resistere, ma il narcotico era troppo potente e perse conoscenza prima ancora che il veicolo partisse.
Quando riprese i sensi, si ritrovò sospeso per un istante su un’isola di calma e serenità. Poi, improvvisamente, il ricordo degli eventi appena accaduti lo colpì come un fulmine e lo costrinse a risvegliarsi del tutto.
Si rese conto di avere polsi e caviglie incatenati a una sedia di legno. Si guardò attorno: una stanzetta dalle pareti nude, di cemento, prive di finestre. Una sola porta, chiusa e presidiata. L’unica decorazione era un tappeto afghano appeso al muro, proprio di fronte a lui.
Alla sua destra, El Ghadan si era accomodato su una sedia simile alla sua, davanti a un tavolino ottagonale sul quale era intarsiata in madreperla una scritta in arabo. Bourne ne osservò la postura: si era lasciato andare sulla sedia, con le gambe accavallate. Cercava di apparire rilassato, ma muoveva il piede sospeso avanti e indietro. Un segnale di nervosismo. Sollevò una mano e uno dei suoi uomini si allontanò in fretta, per ritornare con un vassoio con due tazze di caffè, latte, zucchero e un piatto di datteri ricoperti di scaglie di cocco.
Il vassoio fu appoggiato sul tavolo ed El Ghadan lo indicò con un gesto. «Prego, serviti.» Scosse la testa. «Mi perdonerai se lo faccio io.» Sollevò una tazza. «Caffè? No?» Ne bevve un po’. «Allora gradisci un dattero?» Ne prese uno e se lo infilò in bocca.
Leccò le scaglie di cocco che gli erano rimaste appiccicate ai polpastrelli. «Ho bisogno che tu faccia una cosa. E che la faccia in fretta.»
«Hai i tuoi uomini, le tue risorse.»
El Ghadan lo ignorò. «Tra una settimana, il presidente degli Stati Uniti andrà a Singapore per siglare uno storico accordo di pace tra israeliani e palestinesi.» Si chinò in avanti e abbassò la voce. «Il negoziato è appeso a un filo. Senza la guida degli americani, non si arriverà ad alcun accordo. Voglio che tu faccia in modo che il presidente non raggiunga mai il Golden Palace Hotel di Singapore, dove avranno luogo le trattative.»
«Sei fuori di testa» replicò Bourne.
«È questa la tua risposta?» El Ghadan attese in silenzio, poi annuì. «Basta così. Hai bisogno di una lezione di umiltà.»
Come reagendo a un segnale, un uomo con le mani protette da guanti di gomma e un cavo di rame appoggiato sulla spalla comparve con una batteria per auto da ventiquattro volt. La appoggiò di fianco a Bourne, posò il cavo a terra e ne fissò un capo al morsetto della batteria, lasciando penzolare l’altro.
Bourne lo osservò impassibile, come gli avevano insegnato l’addestramento a Treadstone e la sua lunga esperienza sul campo. Il terrorista gli avvolse il cavo intorno al petto, poi si accovacciò e fece un cenno in direzione del suo capo.
«Ora ti spiego cosa sta per accadere» riprese El Ghadan. «Rashid collegherà il filo al secondo morsetto e il tuo corpo sarà attraversato da una scarica a ventiquattro volt. «Non è abbastanza forte da fulminarti, ovviamente, ma non è quello il mio obiettivo: nessuno impara una lezione da morto. La corrente bloccherà i muscoli intercostali, quelli che sollevano i polmoni. Certo, se Rashid non farà la dovuta attenzione e se la scarica sarà somministrata troppo a lungo, morirai soffocato. Ma ci vorrà un po’ di tempo, e la tua sofferenza sarà atroce.» Fece un cenno con il capo. «Rashid, mostragli il procedimento.»
L’uomo collegò il cavo al secondo morsetto. Bourne era preparato al dolore, ma la fitta fu così forte da farlo sobbalzare. I polmoni si contrassero, come se qualcuno lo avesse colpito con un violento pugno sullo sterno, e iniziò a lacrimare.
Rashid scollegò il cavo e Bourne ricadde sulla sedia. Pesanti gocce di sudore gli imperlavano il viso, facendogli bruciare gli occhi. Le ascelle e il petto erano madidi. Sapeva di dover rimanere cosciente e mantenere il controllo. Altrimenti…
La corrente attraversò di nuovo il suo corpo. I colori scomparvero dal suo campo visivo, dei suoni rimase solo un brusio distorto. La testa ciondolò reclinandosi sul petto fradicio di sudore. La sua mente era confusa. C’era qualcosa che doveva ricordare. Ma cosa?
Per la terza volta Rashid chiuse il circuito, e Bourne non riuscì più a formulare un pensiero coerente. Una mano gigantesca gli premeva sul petto e sembrava sul punto di mandare in pezzi la gabbia toracica, dilaniandogli il cuore. La stanza diventò rossa, e poi nera.
«Come va?» La voce di El Ghadan fluttuava come un fantasma nell’oscurità. «Sei tornato tra i vivi?»
Era buio. Bourne respirava a fatica e si sentiva come se fosse finito sotto un treno. Dita rudi gli afferrarono il mento. Una luce improvvisa lo accecò e qualcuno gli tenne aperte le palpebre.
«Le pupille sono normali» commentò un’altra voce. «Una ripresa davvero notevole.»
«Come volevasi dimostrare» replicò El Ghadan. «Siamo pronti per il secondo atto.»
Qualcuno spostò il tappeto appeso alla parete e scoprì uno specchio unidirezionale. La stanza fu inondata della luce proveniente dall’altra parte del vetro. Bourne sbatté le palpebre per mettere a fuoco l’immagine, e subito si pentì di averlo fatto. Era la stanzetta che aveva visto nelle immagini trasmesse dal tablet: Soraya, Sonya e Lipkin-Renais erano legati uno accanto all’altro, davanti a lui.
Riusciva appena a scorgere El Ghadan, vicino al tavolino ottagonale. «Bourne, la bambina è terrorizzata.»
«Sonya…» disse Jason con la bocca impastata e la lingua gonfia. Cercò di produrre un po’ di saliva. «Si chiama Sonya.»
El Ghadan si spostò sulla sedia, facendola scricchiolare. «Bene. Tra poco Sonya sarà ancora più spaventata.»
Bourne riuscì a posare lo sguardo sul volto del terrorista. «Non fare stupidaggini» replicò.
«La stupidità non c’entra.» El Ghadan si strinse nelle spalle. «Dipende da te, non da me.»
Fece un cenno, e Bourne vide Lipkin-Renais impallidire. Un uomo armato comparve sulla scena. Sonya gridò, tremante. Soraya spalancò gli occhi, terrorizzata, consapevole di ciò che stava per accadere.
«No!» urlarono Bourne e Soraya, all’unisono.
La bambina continuò a strillare.
«Non è necessario» mormorò Jason con voce roca.
El Ghadan si appoggiò allo schienale, come per assistere alla visione di un bel film. «Osserva, Bourne. La lezione di umiltà non è ancora finita.»
L’uomo nella stanzetta fece fuoco contro Lipkin-Renais. Sangue, ossa e materia cerebrale schizzarono su Soraya come una pioggia rossa.
El Ghadan si alzò in piedi e si piazzò di fronte a Bourne per impedirgli la visuale, ma le ondate di angoscia e di dolore non si placarono.
«Adesso un altro peccato pesa sulla tua coscienza.» Congiunse le mani davanti a sé e intrecciò le dita, come un prete sul punto di pronunciare l’omelia. «Ecco cosa succederà se non farai quanto ti ho chiesto: prima Sonya sarà assassinata sotto gli occhi di sua madre, poi Soraya verrà trasferita in una cella per essere interrogata. Sarà sistematicamente privata della sua forza di volontà. La sua stessa personalità sarà annientata. Si trasformerà in un essere senz’anima, nient’altro che un mucchio di carne. E alla fine provvederò di persona a scorticarla, un pezzo per volta, finché il suo corpo non sarà ridotto a un cumulo di muscoli e grasso.»
Si chinò in avanti, tenendo le mani giunte. Parlò a bassa voce, ma le sue parole riuscirono a sovrastare gli strilli di Sonya e il pianto di Soraya. «Credo che tu sia piuttosto esperto in questo genere di tecniche, vero?»
Si spostò, per permettere a Bourne di osservare la scena tremenda che si svolgeva nell’altra stanza. Soraya avrebbe voluto stringere a sé la figlia, ma non poteva muoversi. «Per favore!» urlava al terrorista armato. «Voglio soltanto abbracciare Sonya!» Lo fissava negli occhi, l’unica parte del volto lasciata scoperta dalla keffia che gli avvolgeva il collo e la testa. «Per favore, lasciamela abbracciare!»
«Rallegrati» replicò il carceriere. «Almeno tua figlia non è morta bruciata per l’attacco di un drone.»
«Quanto impiegherà a morire?» chiese El Ghadan. «Quattro giorni? Una settimana? È una donna coraggiosa, probabilmente ci metterà di più, non credi? E nel frattempo le mosche si ciberanno della sua carne.»
«Basta così!» esclamò Bourne.
El Ghadan sollevò la testa. «Sei sicuro? Ti avverto, è una decisione da cui non si può tornare indietro.»
«Dammi i dettagli.»
El Ghadan sospirò. «Molto volentieri» disse in tono confidenziale, come se stesse parlando a un amico. Si sporse in avanti sul tavolino. «Bourne, ricordati ciò che ti sto dicendo, perché è la verità. Adesso tu mi appartieni. Mente, corpo e anima.»